Racconto di Natale

Un piccolo cadeau di Natale per tutti i naviganti che passano di qui.
Un racconto scritto tempo fa in punta di penna e di cuore.

Buona lettura e Buone Feste a tutti

A presto

 

Racconto di Natale

– Signor Enio, tu sveglia per favore … – Scuotendolo gentilmente ma con decisione Lupe lo spinse ad aprire finalmente gli occhi nella luce soffusa di quel soggiorno minimal chic giocato tutto sui toni del bianco e del nero. Lui si passò stanco una mano sul volto mettendo la donna a fuoco. Lupe gli sorrise tirando in silenzio un sospiro di sollievo; quello di chi, in una giornata speciale come la vigilia di Natale, non vede l’ora di poter tornare ai propri affetti. Rapidamente lo ragguagliò su quanto aveva per lui predisposto: aveva riempito il frigo in previsione degli imminenti giorni di festa e cucinato qualcosa che ora lo aspettava in caldo nel forno. Riordinato accuratamente la casa per intero. Portati in lavanderia abiti e biancheria da rinfrescare; riposto nei cassetti cambi e indumenti puliti. Dato acqua alle piante in veranda.  Ritirata la posta in portineria. Tutto questo mentre lui aveva innaturalmente continuato a sonnecchiare stravaccato sul divano, la TV accesa di sottofondo da chissà quanto tempo. La ringraziò con un sorriso appena accennato porgendole una busta. Lupe si inchinò contenta e, stringendosi nel piumino rosa, afferrò la borsetta chiudendosi piano la porta di casa alle spalle. Adesso poteva ben definirsi solo. Sentì la gola bruciargli innaturalmente, tormentato dal cerchio alla testa a testimonianza di parecchie ore trascorse a ingurgitare brandy di primissima scelta invecchiato a lungo in botti di rovere. Si alzò con difficoltà, portò in cucina quel che era rimasto in un bicchiere svuotandolo nel lavello mentre provava per se stesso compassione mista a insofferenza.     Cinquantadue    anni ben   portati,  fisico asciutto e longilineo, capelli brizzolati. Il prototipo dell’uomo di successo, realizzato e rampante. Arrivato. A un traguardo a oggi percepito come terra desolata, infinitamente triste. C’era stato un tempo in cui con orgoglio aveva pensato a quello che era riuscito, con abili colpi di mano, a evitare: le responsabilità di una famiglia, un amore di donna certo e sicuro. Un’esistenza scandita da quotidianità giudicata banale e indegna della sua intelligenza, della sua sete di vivere. Avere una figlia di venticinque anni e non sapere niente di lei: il colore degli occhi, il tipo di camminata, i suoi gusti a tavola. A un certo punto, però, la vita gli aveva presentato il conto per il tramite di Elle. Lei lo aveva stregato facendolo, nell’arco di pochissimo tempo, innamorare follemente. E lui le aveva ceduto mettendosi finalmente in gioco come uomo.  A chi gli aveva chiesto una volta quante donne potesse aver conosciuto e portato a letto, aveva con noncuranza risposto “Mai  quante ne avrei volute“, continuando a nuotare a pelo d’acqua con disinvoltura senza timore di andare a fondo. Ma quell’ immortalità sentimentale guadagnata con sfrontatezza si era sciolta come neve al sole davanti a Elle rendendolo vulnerabile, umano. Pronto a bruciarsi le ali svolazzando come una falena attratta da un lampione luminoso. Poi era successo che lei era sparita dall’oggi al domani senza una spiegazione. Dileguandosi in fretta così come era comparsa. Portandolo allo stremo, lui che si era sempre fatto beffe della sofferenza amorosa altrui. Ed eccolo lì, con un retrogusto amaro in bocca, a osservare da mero spettatore la vita da lontano, attraverso l’immensa vetrata del suo bell’appartamento in centro. All’improvviso si sentì soffocare. Aveva bisogno di aria fresca e di sgranchirsi le gambe. In pochi minuti fu all’aperto tra i passanti dediti alle ultime spese e il traffico impazzito delle serate di festa, sospinto suo malgrado dal vortice concitato di chi aveva qualcosa o qualcuno a cui tornare. Fu con autentica sorpresa che sentì un passante aggrapparsi al suo braccio destro e dopo alcuni istanti accasciarsi davanti a lui. Era una lei. Giovanissima e avvolta in un vivacissimo poncho di lana lavorato a mano,  caduta letteralmente ai suoi piedi con la lievità di un mucchio di foglie autunnali sparpagliate da un’improvvisa folata di vento.

– Aiutami … – farfugliò poi, prima di perdere del tutto i sensi tra le sue braccia lasciandolo attonito. Facendosi strada tra la moltitudine vociante e festosa la depose all’interno di un taxi preso al volo notando finalmente come fosse incinta e, per quello che poteva capirne, giunta al termine della gravidanza.

– Ci porti all’ospedale più vicino – intimò concitato all’autista che partì sgommando sorridendo al tono di quel neo papà impacciato, non più giovanissimo e tuttavia in ansia come miliardi di padri prima di lui per la nascita di suo figlio.

– Coraggio – commentò il tassista frenando delicatamente davanti alla porta del Pronto Soccorso – Ormai il più è fatto. La corsa è omaggio. Il mio regalo di Natale per lei e sua moglie – concluse prima di volatilizzarsi nel flusso incessante degli autoveicoli in spasmodica corsa verso casa. Enio sedette sfinito sulla panca del reparto maternità, incurante dei commenti altrui sull’afasia che sembrava averlo colpito. La sua compagna, invece si che aveva ben saputo far fronte a quanto richiestole, partorendo in quattro e quattr’otto una bellissima neonata dagli enormi  occhi scuri.

Gliel’avevano messa tra le braccia senza troppe cerimonie, accompagnandolo nella camerata in cui la madre riposava. E a lui, incredulo, non era rimasto che continuare a stare al gioco deponendola nella culletta al lato della sconosciuta. Quando questa si era finalmente svegliata l’aveva salutato con un semplice ciao accompagnato da un sorriso di scusa e di ringraziamento prima che la piccola reclamasse da loro nuova attenzione, attirando i loro sguardi verso di sé. Lui si era girato verso la finestra con occhi stranamente liquidi e aveva pensato a quella figlia che non aveva voluto e che pure era nata e viveva in chissà quale parte del mondo. Poi era tornato in sé.

– Devo andare – aveva detto a entrambe brusco.

Voltandosi aveva, però, aggiunto a voce bassa “Torno domani a trovarvi”. Lei gli aveva sorriso con naturalezza e aveva annuito.

Si era allontanato in corridoio accompagnato da quel pianto di bimba affamata di latte e calore materno sentendosi stranamente leggero.

Mezzanotte passata e già Natale.

Con forza aveva inspirato e, a passo svelto e deciso, si era incamminato nella notte verso casa.

 

Lucia Guida

 

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photo credits: diarionordico.com

Il giardino di Marinella

A volte basta poco per sentirsi partecipi della Natura. Per Marinella possedere la sua essenza attraverso i fiori del suo giardino.
Un racconto breve che parla della diversità in termini reali e autentici di valore aggiunto.
Buona lettura

A presto

 

Il giardino di Marinella

Marinella coglie un fiore e poi lo annusa; è un narciso selvatico, piccolo e delicato. In paese è usanza andare a coglierli nel bosco a Pasquetta, a frotte, per venderli agli angoli di strada a qualche forestiero arrivato lì per caso, in transito prima di raggiungere il borgo del frate cappuccino santo.

Lei non ha mai fatto parte del gruppo di ragazzotti schiamazzanti che, a piedi, s’inerpicano per la montagna, violando pascoli centenari alla ricerca dei sucamele, fiori che, a reciderne la corolla di netto, lasciano colare in bocca stille dolcissime di nettare divino. A Marinella non piace condannarli a morte repentina; preferisce coglierli con garbo nel terreno incolto della Forestale e poi metterli ordinatamente in una vecchia brocca a occhieggiare in cucina o nel tinello perché possano spandere la loro fragranza dolce per l’aria circostante.

In quella brocca antica, piena di crepe, in cui due contadinelle si contendono la scena, coi i loro canestri e i loro sorrisi persi in chissà quale universo lontano, trovano posto fiori d’ogni tipo a seconda della stagione. Le più penalizzate sono certamente le orchidee selvatiche, meraviglie della natura in miniatura. Tentano disperatamente di mantenersi a galla, annaspando tra fiori di campo forse meno rari ma di sicuro più sfrontati, in grado di sovrastarle. Il gambo esile non permette loro di emergere e questi fiori così esotici, per uno scherzo della natura sbocciati sulla terra arida di montagne avare, devono davvero a caro prezzo contendersi l’attenzione dei visitatori di quella casetta arrampicata, come tutto il resto intorno, sulla fiancata della roccia.

La primavera è anche il tempo degli iris azzurri e gialli dai petali setosi. Un delitto accarezzarli troppo. Si rischia di infastidirli e di condannarli a un veloce oblio. Marinella si è chiesta più volte se sia davvero il caso di cogliere tutta quest’opulenza fiorita o se, invece, sia preferibile lasciarla a dimora nella terra umida e bruna quando è la pioggia a irrigarla e a renderla soffice al passo.  Ne ha concluso che, forse, ai fiori piace essere coccolati dal suo sguardo amorevole piuttosto che affievolirsi lentamente sotto aria, sole, vento implacabili e rudi come i luoghi che li accolgono.

Un altro fiore che adora è il croco, violetto col suo cuore di fuoco. E’ una gioia leggera vederlo spuntare dal terreno ancora ricoperto di neve. Segna con brio e un pizzico di voluttà il passaggio dall’attimo di transizione invernale, fatto di silenzio, uniformità e riflessione, a quello di ripresa lenta ma efficace verso la bella stagione, i giorni luminosi e l’aria più mite. Il croco ha vita brevissima che lei cerca di procrastinare poggiandolo, appena divelto con amorevolezza, sul palmo di una mano. Poi lo lascia navigare sulla superficie ridotta di una tazza da tè scompagnata, poggiata sul comò della sua camera da ragazza di un tempo, tra una spazzola dall’impugnatura di osso, una boccetta di profumo con lo spruzzatore a pompetta e una madonnina sottile vestita di azzurro dallo sguardo mesto rivolto verso il basso.

Marinella non ama discriminare i suoi fiori.

Anche un comune bocciolo di tarassaco o un anemone selvatico giallo o celestino possono entrare a far parte dei suoi ricchi bottini floreali colorando le stanze della sua quotidianità. A volte il suo entusiasmo si manifesta colmando di natura odorosa anche le tasche del grembiulone confezionatole da sua madre, ora informe e di uno sbiadito rosa, sempre pronto a coprire la maglietta e la gonna regolamentari che le fanno assumere l’aria un po’ buffa e fané di una bimba d’epoca camuffata da donna, i capelli castani inframezzati da fili argentati e tagliati corti, alla spalla, lisci come fili d’erba in attesa di essere piegati da un refolo di vento indulgente.

Il grembiule le serve per non sporcarsi di terra, cosa che capita in realtà assai di rado; procurandole, per contro, la soddisfazione di sapere sempre di aria buona e pulita, di campagna e di sole, fiore tra i fiori ricercati con certosina pazienza e poi collezionati in ogni contenitore possano essere infilati. Rimpiazzati di continuo, al minimo segno di tempo che scorre, da altra natura fresca, viva, vitale. Come la luce che le fluisce dallo sguardo color ambra, da tigre ridotta in cattività e tuttavia mai irreggimentata in uno stile di vita scontato: quello dei clienti dell’unico bar del borgo, attratti lì dalla frescura estiva ma pronti a ripartire alle prime foglie d’autunno, al vento implacabile e alle rigide temperature invernali.

Qualcuno sorride nel vederla passare ma soltanto perché vuol vedere ciò che ha deciso di vedere. A lui Marinella non regalerà mai un fiore, né prenderà con impeto la mano per chiedergli silenziosamente di accarezzare una corolla di velluto dal mazzolino che conserva gelosa in tasca. I suoi pensieri migliori, le sue primizie in fiore sono tutte per la bimba che le ha offerto una caramella all’anice, succosa e dolcissima, e che non ha avuto paura di cogliere il suo invito muto per affondare la manina nei tesori frutto del suo duro lavoro di raccolta giornaliera.

Oggi il cielo è grigio e l’aria sa di pioggia.

Marinella guarda seria il paesaggio uniforme che ha davanti ma non è triste al pensiero che dovrà fare a meno della sua passeggiata nei campi perché sua madre non vuole che si bagni, potrebbe anche ammalarsi. Sa che nella sua vita ci saranno tante altre giornate colorate di vento e di sole nell’aria frizzantina di aprile. Tanto le basta.

Sorride piano mentre accudisce tenera i fiori colti il giorno prima. Sa che il suo amore e un po’ d’acqua fresca faranno il resto, aiutandoli a sopravvivere e a farle da contrappunto per un altro po’. Fino al prossimo volo nella natura, fino al prossimo amorevole e paziente viaggio.

Poi guarda con stupore rinnovato le gocce argentine di pioggia che rigano i vetri, battendo sulle tegole del tetto per tenerle compagnia come amiche sincere, presenti al bisogno ma pronte ad andar via alla prima schiarita, ritmando la sua felicità dell’oggi con semplicità e sincerità.

Lucia Guida

 

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Silvia Martignago, ‘Fiori selvatici’

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Un lavoro che sfuma via e un figlio inatteso che preme per nascere sono le novità piombate all’improvviso nella routine di Giulio e Maura, sconvolgendo la loro vita di coppia consolidata. Dopo un periodo di comprensibile disorientamento entrambi sapranno trasformare questo terremoto esistenziale in una concreta opportunità di crescita. Assieme a una felicità da centellinare poco a poco e, forse, per questo, molto più intensa da assaporare.

Buona lettura e buon ferragosto

A presto

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Giulio respirò a fondo nell’aria frizzantina di primo mattino guardando gli altri pendolari sparpagliati sotto la pensilina che li accoglieva. Incrociare ogni giorno le loro occhiate, durante l’attesa di quella corsa bis extraurbana che li avrebbe portati al lavoro, lo faceva sentire stranamente in compagnia e pervaso da una forza maggiore.

Immerso in una sorta di amarcord dal sapore agrodolce rammentò come appena un anno fa avesse concesso un’attenzione davvero marginale alle indiscrezioni delle segretarie di direzione, tiratissime in pausa caffè, su possibili tagli in ditta. Una trascuratezza, la sua, ampiamente giustificata dalla notizia di un figlio in arrivo.

Maura, la sua compagna, gli aveva detto del lieto evento una sera come tante mentre erano davanti alla portafinestra della loro mansarda, aperta su un cielo illuminato da una luna ruffiana che gli era rimasta impressa dentro. Prima di sussurrargli la novità con voce sbarazzina l’aveva guardato con occhi brillanti ma ciò non aveva impedito che gli mancasse un battito. Scoprire che a breve sarebbe diventato padre, prospettiva sino a quell’istante considerata  piuttosto remota, l’aveva del tutto e irrimediabilmente spiazzato. Stretto a lei aveva contrabbandato vigliaccamente lo smarrimento della propria voce per genuina commozione passando il resto della notte ad ascoltare il respiro regolare della sua donna, già madre conclamata di quel bimbo in viaggio, per lui, invece, immagine ancora così indefinita.

Poi le cose erano precipitate in un attimo.

La sua azienda, apparentemente in ottima salute, si era decisa a delocalizzare, trasferendo la produzione oltremare e smantellando anche gli uffici amministrativi in cui Giulio lavorava dai tempi del diploma. L’aveva riferito di getto a Maura non appena aveva saputo, interrompendola nella vivace descrizione del suo primo sopralluogo in un negozio di articoli di prima infanzia. Lei aveva socchiuso gli occhi, come per proteggerli da una folata traditrice di vento, poi li aveva riaperti sorridendogli incoraggiante. Quella notte avevano fatto l’amore con fantasia e generosità, lo sguardo dell’una avvinghiato a quello dell’altro come ai primi tempi della loro storia. Addormentandosi quasi all’unisono, stremati dalla passione.

L’ultimo mese di lavoro di Giulio era passato in fretta ed erano arrivati alla prima ecografia del bambino. Vedere quel puntino luminoso pulsare già con tanta vitalità gli aveva fatto lo stesso effetto di un giro sulle montagne russe da ragazzo. Aveva ascoltato con attenzione le parole dell’ecografista prestandosi, più tardi, a casa dei genitori di lei, agli sguardi emozionati e alle congratulazioni di tutti, alle pacche di approvazione di suo cognato e alla pianificazione complice del loro matrimonio da parte delle donne di famiglia. Rientrato a casa aveva deciso di concedersi in solitudine l’ultima sigaretta della giornata sul minuscolo terrazzo, incurante del freddo penetrante di quella città di mare così umida e gelida d’inverno.

«Ce la faremo», erano state le uniche parole di lei prima di abbracciarlo e baciarlo su una guancia, piombando poi velocemente nel sonno e lasciandolo ai suoi tanti pensieri.

Il pomeriggio successivo l’aveva trovata a contemplare assorta la sottile striscia di mare grigiazzurro dalla finestra.

«Tutto bene?». Alla sua voce lei era trasalita come una bimba nel pieno di una marachella, annuendo subito dopo con un sorriso senza guardarlo. A poca distanza, in uno scatolone, c’era un bel po’ di roba che aveva tutta l’aria di essere stata cestinata da poco. Maura l’aveva trascinato sul divano chiedendogli con nonchalance di quel rientro anticipato. Si era stretto nelle spalle e aveva risposto che oramai in ufficio non c’era più molto da fare. Allora lei l’aveva finalmente fissato, gli occhi castani appena coperti da un velo in cui lui era riuscito a scorgere fragilità e forza assieme che gli avevano smosso qualcosa dentro. Con tono allegro le aveva proposto una camminata sulla battigia, il viso di entrambi sferzato dalla brezza marina, avvolti dal calore mite dei raggi di sole di novembre.

A casa, mentre lei era sotto la doccia, si era ricordato del cestino cedendo alla tentazione di ispezionarlo velocemente, scoprendovi, accartocciati, campioni di partecipazioni nuziali, un menu del ristorante in cui l’aveva portata al loro primo appuntamento e il modello di un abito da sposa molto romantico che aveva tutta l’aria di essere troppo costoso. Mentre cenavano davanti alla TV, dividendosi tranci di pizza e facendo zapping tra un telefilm e un talk show, lei aveva ricevuto la telefonata di sua madre e, con una smorfia, s’era portata in bagno il cordless per risponderle. In principio lui l’aveva sentita discutere a lungo con foga; poi, silenzio assoluto. Con occhi fiammeggianti e appena un cenno di insofferenza   gli si era nuovamente accoccolata accanto e lui aveva, per quella sera, deciso di glissare sui tanti perché che gli ronzavano dentro, simulando un’indifferenza che non provava e che gli aveva lasciato in bocca un retrogusto fatto d’inquietudine.

L’indomani a pranzo sua suocera l’aveva squadrato in tralice ma non aveva osato dire nulla. Ci aveva pensato suo cognato a illuminarlo col suo solito fare sbrigativo e schietto.

«Allora, un brindisi al Caffé Excelsior e una cerimonia in Comune per pochi intimi mi pare ‘na figata …», aveva esordito tra un caffè e una sigaretta in punta di dita.

«… e chi se lo dimentica il nostro pranzo di nozze, cinque ore di durata, scambio di convenevoli e danze incluse. ‘Na maratona»

Giulio l’aveva ascoltato con ostentata noncuranza senza tentare di replicare, decidendo di stare al gioco.

«Cosa confabulate voi due?» aveva voluto sapere Maura, intromettendosi; e, senza attendere risposta, l’aveva preso per mano e portato via con sé.

In auto lui aveva ripreso l’argomento mentre lei si osservava critica in uno specchio da borsetta.

«Allora, pare che ci sposiamo in Comune e non più in chiesa».

Lei aveva richiuso di scatto lo specchietto.

«Geniale, vero? Pensa a quanto stress ci eviteremo».

«E tua madre che ne dice?» l’aveva solleticata lui con una punta di malizia.

«… proprio nulla. E’ il nostro matrimonio o sbaglio? »

Lui aveva silenziosamente annuito. A quanto pareva la decisione era stata presa e, a mente fredda, gli pareva l’unica possibile, viste le circostanze. Un neonato in viaggio e il lavoro part-time di lei, al momento loro unica fonte di sussistenza, non erano uno scherzo. Quella notte, tuttavia, l’aveva sentita agitarsi parecchio, trattenendosi a stento dallo svegliarla per riportarla a una realtà più benevola. A un certo punto gli era addirittura parso di sentire mormorare il proprio nome e ciò gli aveva procurato una botta d’insonnia senza precedenti che l’aveva condotto insofferente alle prime luci dell’alba. Aiutandolo, tuttavia, a partorire un’idea nuova.

«Buondì!»

Maura aveva atteso pazientemente che lui aprisse gli occhi. Quel giorno per lei c’era l’allettante prospettiva di una mattinata libera con riapertura nel pomeriggio della caffetteria in cui lavorava. Per lui, invece, tanta libertà era conquista amara e recente a seguito della perdita del lavoro. Con dolcezza gli aveva accarezzato con le dita quell’ombra di barba traditrice che gli era spuntata nottetempo e che le piaceva sempre da matti.

Appagato, Giulio aveva poggiato nuovamente la testa sul cuscino prima di rialzarla di scatto, colto da un moto repentino. C’erano un paio di cose da sistemare che non potevano essere rimandate.

Vestito di tutto punto aveva finito in un attimo il suo caffè, pescato un biscotto al cioccolato da una scatola di latta, prima di baciarla e infilare la porta di casa.

«A dopo», l’aveva salutata laconico, strizzando un occhio.

Maura l’aveva guardato perplessa, riflettendo sugli sbalzi d’umore dei futuri padri, che nulla avevano da invidiare a quelli delle loro compagne.

Ringraziando mentalmente di cuore un amico che gli aveva fatto sapere di quell’offerta di lavoro da magazziniere appena accettata, Giulio si era toccato la tasca interna della giacca per assicurarsi che conteneva ancora l’assegno con l’anticipo richiesto al suo nuovo datore di lavoro con una formidabile faccia tosta. Quasi uno stipendio. Poi si era fermato davanti a una gioielleria scrutandone con serietà la vetrina, prima di entrare e uscirne dopo parecchio con un pacchetto minuscolo tra le dita.

Il Caffè delle rose era ancora chiuso al pubblico ma lui era passato dal retro com’era consuetudine per lo staff. Maura era nell’ufficetto di fianco al laboratorio intenta a visionare un file di contabilità, l’uniforme a righine che le tirava sul seno e sulla pancia arrotondata, già pronta a montare di servizio in cassa.

«Ma cosa …»

Lui l’aveva guardata con espressione strana, poi le aveva spinto sulla tastiera la scatolina confezionata con cura.

«Per te. Forse questa è l’unica cosa di valore che ti regalerò. Niente rispetto a quello che tu, che voi, significate per me»

Una perla minuscola, luminosa, incastonata in un cerchietto dorato sottile.

Maura l’aveva tenuta sul palmo della mano senza avere il coraggio di infilarla al dito. Ci aveva pensato a farlo lui con determinazione, con una sorta di amore rabbioso.

«Ti amo. E voglio te e il bambino» le aveva poi detto, con altrettanta foga e un accenno impercettibile e autentico di tenerezza. Allora lei gli aveva afferrato il viso d’impulso, baciandolo con avidità, quasi con sfida. Di quelle briciole di felicità precaria aveva voglia di gustare anche la più infinitesimale a partire da quell’istante unico e perfetto, stabilì.

Dio solo sapeva per quanto tempo ancora avrebbero vissuto in quel paradiso in bilico che era la loro vita dell’oggi. E tuttavia le boccate d’ossigeno di quell’amore sincero sarebbero state per loro sacrosante per vivere e persino per sognare, come l’aria pura del vento di tramontana respirata ogni mattina sul terrazzo della loro casetta di periferia. Sarebbe stata quella voglia d’infinito che li legava così stretti il loro personale tetto del mondo. Un trampolino di lancio da cui spiccare il volo verso l’alto, in un cielo terso e azzurro senza sorprese,  incredibilmente pieno di speranza, oltre le nuvole.

Lucia Guida

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               “Separazione”, dipinto di E. Munch