Dov’eravamo rimasti?

È dalla metà di febbraio che non aggiorno il mio luciaguidawordpress.com, au feminin thinking and writing, con racconti, resoconti di eventi e recensioni e quant’altro mi collochi da qualche parte, spazialmente e temporalmente, come autrice. In realtà di cose da fare ce ne sono state tante.

Provo, allora, a fare il punto della situazione con voi.

Domenica 15 febbraio ho presentato al Justen Club di Pescara il mio “Pergolato” assieme ad autori di spessore come Lucio Vitullo e Stefano Carnicelli. Padrini d’eccezione Luigi Blasioli, jazzista pescarese di altissimo livello  e la poliedrica Cinzia Rossi, autrice di prosa e poesia.

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Da sinistra Stefano Carnicelli, Lucia, Luigi Blasioli, Lucio Vitullo e Cinzia Rossi. Foto di Giada Di Blasio

È stato pubblicato sul numero di settembre/dicembre 2014 di “Fortore”, Rivista di Cultura, Esperienze Informazione edita dal Circolo Culturale “88” di Roseto Valfortore (FG), il mio resoconto della giornata di premiazione del Premio Lupo 2014. Se avete voglia di rileggerlo, lo trovate qui.

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A metà marzo, e precisamente venerdì 13 ho presentato la silloge di racconti “La precisione dell’acqua” di Chiara Novelli, scrittrice, artista e poetessa fiorentina alla Mondadori di Pescara

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Chiara Novelli e Lucia, foto di Maria Luisa Abate per Pescara News

Uno sciopero di Trenitalia, di cui ero totalmente all’oscuro (!) mi ha impedito di raggiungere Aulla (MS) per essere premiata per il mio “Pergolato” per il IV posto ex-aequo del Concorso Internazionale Alessandra Marziale – Val di Vara. Per cause di forza maggiore ho felicemente ripiegato, domenica 16 marzo, sulla bellissima mostra di Escher ospitata a Palazzo Albergati a Bologna sino a maggio p.v., confidando in Posteitaliane per ricevere pergamena e medaglia che avrei dovuto ricevere dal vivo

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Gli antichi amori, ripagati alla grande, non si scordano mai: partecipazione alla Serata della Bellezza Sovrumana, promossa da “Risorse SovrUmane ASD Ricerche Teo-Antroposofiche e benessere di Pescara”, a cura di Patrizia Splendiani e Katia Granata, operatrici olistiche, con un evergreen della mia produzione scrittoria, il racconto “Bella, bella, Bella” venerdì 28 marzo 2015 , e conclusione poetica di un pomeriggio artistico ospite di Rossella Circeo, eclettica creatrice di opere di maiolica, vetri e pietre semipreziose, con la lettura di “Succo di melagrana”, componimento in versi sciolti prologo dell’omonima mia raccolta di racconti edita dalla Nulla Die nel suo Atelier di Pescara domenica 29 marzo.

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photo by moldrek.com

Non pensiate che sia tutto finito qui.

In cantiere ci sono altri progetti, letterari e non, di cui non parlerò scaramanticamente fino a quando non sarò sicura della loro concreta realizzazione, com’è mia abitudine. Mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato.

Auguri belli di Buona Pasqua a tutti.

Che queste giornate di festa siano occasione concreta e propizia di relax per tutti noi.

Un bacio e a presto

Lucia

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foto presa in web

Presentazioni d’autore: “Donne e così sia” di Assunta Altieri

Ho conosciuto Assunta Altieri in occasione del lancio di “Donne e così sia”, avvenuta a fine 2013, e “de visu” durante una presentazione del mio “Pergolato” all’emporio Primo Vere, bottega del commercio equo e solidale di Pescara. Ci siamo riviste per “Intorno alle parole”, evento conclusivo del premio omonimo e bella manifestazione incentrata su tematiche della scrittura e dell’editoria e momento d’incontro fra scrittori, giornalisti, editori, istituzioni e lettori tenutasi a Montesilvano Colle lo scorso dicembre.

Questa la mia recensione

Buona lettura e a presto

La silloge

“Donne e così sia” è una raccolta di racconti di Assunta Altieri pubblicata nel 2013 da Historica Edizioni, composta da sette storie au feminin ispirate a figure di donne contemporanee. Le personagge di Assunta sono  colte in frangenti significativi della loro esistenza,  a cominciare da Lita, diminutivo di Litaliana, in procinto di traslocare, bravissima a voltare pagina ma sempre pronta a sedimentare le cose belle e importanti come, ad esempio, un pezzetto di cuoio parte dei finimenti di un cammello ribelle che acconsente a essere cavalcato con spirito di resilienza, “reliquia” messa da parte durante uno dei suoi viaggi. Lita, però, sa attribuire il giusto peso agli oggetti, servendosene come trampolino di lancio o, viceversa, come pietra miliare da cui fare il punto della situazione prima di ripartire senza diventarne mai schiava.

Lella è succube di un marito-padrone che non la rispetta e che scientemente, con sadismo puro, si diverte a  sminuirne la femminilità e il valore intrinseco di persona, obbligandola a inchinarsi a lui, moralmente e materialmente. Soltanto una consapevolezza retrospettiva ed estremamente dolorosa le farà dire “basta” risalendo dal fondo in un ménage familiare in cui non c’è traccia di sentimento amoroso, incernierato in abitudini negative così radicate e metabolizzate da toglierle respiro e potere decisionale e di scelta.

E poi c’è la storia di Tea e di sua madre che l’ha cresciuta da sola, in una famiglia interamente al femminile in cui l’opinione di una sorella o della madre di entrambe possono ancora fare testo. Tea andrà a vivere col padre biologico, Carlo, grazie anche alla disponibilità e a una riapertura maggiore acquisita da sua madre, ottenuta sfrondando il loro rapporto genitoriale-filiale da inutili sovrastrutture proprio per permettere alla ragazza di vivere una vita maggiormente gratificante, glissando sui sensi di colpa insinuati da chi vorrebbe dipingerla come una non-madre, non all’altezza del ruolo scelto a suo tempo a costo di rinunce e sacrifici personali e professionali.

“Uomini e paguri” è, invece, la fotografia netta di tante storie di cui la nostra quotidianità spicciola è costellata, fatte di donne lusingate da promesse maschili di stemperare vissuti incolori, connotati dalla solitudine, mai, tuttavia, come quella di doversi accontentare delle avances di un uomo che ha voglia di rinnovare il proprio presente, magari già caratterizzato da una relazione stabile che si sta affievolendo, tentando di passare a un nuovo legame come si farebbe saltando da due treni parallelamente in corsa.

La circolarità del viaggio è alla base del quinto racconto, in cui trova spazio la narrazione di una donna in carriera, in perenne e costante movimento, forte del proprio lavoro e della propria professionalità a sprezzo di chi vorrebbe, con pochissima spesa, scavalcarla o, peggio, relegarla in un angolo. Il tema di una presunta superiorità geografica dettata da longitudine e latitudine è al centro della penultima storia, ambientata con disinvoltura in una sorta di zona franca quale è un salone di parrucchieri. Due donne confrontano con leggerezza solo apparente la loro reciproca appartenenza a due culture e due modi di pensare opposti per contendersi la bravura del loro acconciatore, lungimirante al punto da regalare come “omaggio della ditta” la sua prestazione a chi lo vorrebbe in un altro luogo, lontano dalla propria residenza attuale, per poterlo valorizzare maggiormente.

L’amicizia e la solidarietà femminili sono celebrate nell’ultimo racconto, quasi a voler sottolineare come i veri rapporti non abbiano bisogno di lunghi rodaggi ma procedano assai spesso per affinità elettive, per riconoscimenti d’anima per i quali anche un arco di tempo minimo come due mesi può bastare come incipit per instaurare una solida relazione amicale.
Lo stile di Assunta è diretto ma accurato con qualche piccolissima concessione a espressioni letterarie non consuete usate per enfatizzare la frase, rendendola più particolare e vibrante.
La narrazione si snoda attraverso canali diversi, passando con disinvoltura, da un racconto all’altro, attraverso la forma diaristica, di “messaggeria”, quella in prima o in terza persona, in alcune storie intercalando spaziature extra tra una sequenza e l’altra o sottotitoli scelti per enfatizzarne l’intreccio.

L’autrice

Assunta Altieri lavora da vent’anni nel mondo della pubblicità, collaborando con agenzie di comunicazione di  portata nazionale e internazionale. Ha vissuto e lavorato a Milano, Parma e Lerici e attualmente risiede in provincia di Pescara. Ha partecipato a diverse antologie collettive in cartaceo e in web come autrice di racconti brevi, provando a sperimentare vari mood di scrittura. Ha fondato l’associazione culturale Il Cassetto delle Idee Libere di cui è presidente. “Donne e così sia” è la sua prima opera da solista.

Assunta Altieri, Donne e così sia, ISBN: 9788896656730   € 12,00

Donne e così sia - Assunta Altieri

6 febbraio 2015

Il 6 febbraio di quest’anno compirò 50 anni. Al di là dei tanti bilanci che potrei fare e che non farò mi piace pensare di aver realizzato tante cose, alcune ben riuscite e altre meno. Sono soprattutto fiera di aver provato con tutte le mie energie a essere sempre me stessa e a non tradirmi mai. Di aver tentato di rimediare ai miei errori esistenziali quando ho capito di aver sbagliato per potermi guardare con trasparenza allo specchio ogni mattina e, magari, provare a sorridermi un po’.
Per voi amici, oggi, una poesia scritta nel 2007 sul mio primo blog che parla del mio giorno natale, il 6 febbraio.
Buona lettura e a presto

Lucia

6 febbraio 1965

Sono nata in un giorno di neve

e dai cristalli di neve ho preso  trasparenza lieve e freddo intenso che diventa calore su una mano quando li stringi in pugno.

Sono nata in un giorno d’inverno e dall’inverno ho preso il rigore e il lento grigiore delle giornate nuvole. Ma anche la dolcezza inaspettata e il tepore di insperati raggi di sole

Sono nata in Febbraio e da Febbraio ho preso la leggerezza di un corteo mascherato pieno di colori e allegria, stelle filanti e coriandoli in un turbinio di festa. E poi silenzio e quiete nelle strade prima traboccanti di suoni e risate

Sono nata di sabato e dal sabato ho preso il pigro fluire delle ore dopo lo scorrere incessante degli eventi attraverso la settimana.

Sono nata nell’anno della guerra del Vietnam ma anche delle marce della pace,  delle serate al Piper e degli Oscar Mondatori.

Sono nata e poi rinata a nuova vita con consapevolezza a volte sorridente e a volte dolente conservando sguardo schietto e diretto, sempre.

In un cassetto qualche speranza custodita con cura, strette a me le poche certezze raggiunte.

Gli occhi rivolti a cielo e nuvole e il viso offerto al bacio e alla carezza lieve della brezza.

 I miei pensieri accompagnati dalla luna luminosa e silenziosa di un cielo notturno e dal riverbero del sole su onde che muoiono e poi rinascono coraggiose a riva.

Lucia Guida


L’immagine del dipinto “Il compleanno” di M. Chagall è presa dal blog settemuse

Agenzia matrimoniale

Ci sono tanti modi di concepire e costruire un incontro d’amore. Adela, la titolare di un’agenzia matrimoniale del terzo millennio, cerca di unire in tal senso l’utile al dilettevole divertendosi a combinare i desiderata dei suoi clienti per creare nuove coppie a tavolino, in un gioco di specchi in cui molte cose non sono ciò che sembrano.

E’ questa in sintesi la storia di “Agenzia matrimoniale”, racconto breve di qualche anno fa, pubblicato nel mio primo blog Springfreesia

Buona lettura

Agenzia matrimoniale

Adela si sfilò lentamente gli occhiali dalla montatura colorata e dalle lenti non graduate, unico vezzo in un look estremamente classico e rassicurante. Sapeva quanto l’occhio avesse voce in capitolo in certe circostanze ed era decisa a far uso sapiente di questa consapevolezza.

In qualità di unica intestataria dell’agenzia matrimoniale “Cuori solitari” aveva trasformato in necessità lavorativa la virtù posseduta da bambina di favorire il buon esito delle cotte adolescenziali delle sue amiche, offrendosi di buon grado come mediatrice ora come allora. La sua era un’agenzia rigorosamente tradizionale, con pochissimo spazio concesso all’informatizzazione e in cui i profili dei suoi clienti erano ordinatamente conservati in faldoni dalla copertina dal colore diverso che ne individuava la categoria di appartenenza: rossa per i casi di facile collocazione, bianca per quelli di incerta risoluzione, nera per quelle situazioni inquadrate come impossibili o quasi, grigia per le schede di clienti che non era riuscita a mettere bene a fuoco lasciandoli in standby nella speranza che capitasse per loro qualche occasione felice in futuro. Possedeva un ufficio anonimo quanto bastava per dare la giusta idea di privacy a tutti quelli che, nella ricerca del vero amore, quello per la vita, a dispetto di chatlines per single o siti di incontri che imperversavano nel web, continuavano a ricorrere ad approcci più tranquilli e tradizionali, fidandosi del suo buon intuito procacciandosi incontri amorosi scelti sui suoi cataloghi come un tempo avrebbero ordinato un abito o un oggetto acquistandolo per corrispondenza.

Le due sale d’aspetto, una piuttosto piccola e l’altra di ampiezza maggiore, si allineavano a quel tipo di prospettiva; essenziali, completate da piante artificiali, le stesse di un qualsiasi studio notarile o medico, qualche rivista abbandonata su un tavolinetto basso per ingannare l’attesa che poteva a volte rivelarsi lunga prima di un consulto con la titolare.

Il contrasto di quei due ambienti con il suo ufficio era palese. Nella sua stanza tutto trasudava confidenza e familiarità, dal pc sempre spento, alle foto di famiglia sulla scrivania popolata di oggettini tipicamente femminili: fermacarte vivacemente istoriati, cuori di vetro soffiato, una piantina vera. Sulle pareti trovavano posto alcune stampe d’autore, illuminate indirettamente da una piantana relegata in un angolo tra un’altra poltroncina bassa e l’ennesimo tavolinetto. Di fronte alla sedia imbottita di similpelle, riservata agli ospiti, c’era un piattino ben rifornito di cioccolatini alla portata di chiunque avesse voluto servirsene.

In genere l’iter era quello di un colloquio informale in cui lei prendeva scrupolosamente nota dei desiderata della gente, occhiali ben inforcati e solitario ben in mostra all’anulare sinistro. Poi c’era lo spoglio delle schede alla ricerca di una fisionomia che potesse ben combinarsi accompagnato da uno scambio di frasi amichevoli, pronunciate con pertinenza improntate su situazioni di condivisione e complicità, in cui le sue capacità di psicologa dell’animo umano avevano il sopravvento e contribuivano all’impostazione di un clima empatico e partecipativo che rasserenava l’interlocutore predisponendolo positivamente ad accettare l’incontro suggeritogli.

E naturalmente, a fine conversazione, ciliegina sulla torta, il resoconto gustoso, affettivamente colorato, dei rendez-vous sfociati in vere e proprie love story dall’ happy ending, in un crescendo di fiduciose aspettative articolato con maestria dissimulata da malcelata modestia.

Quella sera avrebbe chiuso il suo bilancio giornaliero con una certa soddisfazione. L’incontro tra il medico ospedaliero cinquantenne in cerca di una compagna e l’infermiera trentenne di studio medico associato disillusa da amori veloci e poco appaganti pareva essersi concluso con la promessa da parte dei due di dare un seguito a quella conoscenza. Entrambi le avevano assicurato di tenerla al corrente di ciò che al momento poteva solo immaginare, ne era sicura. Sapeva per certo che non c’è collante maggiore di una solitudine vissuta come pesante zavorra e non più come anticamera di libertà, per legare due persone a stretto filo, dal momento che la convenienza  e l’opportunità hanno, talvolta e per alcuni, lo stesso sapore afrodisiaco e gratificante di una passione genuina. Un po’ come avvolgere in carta preziosa un regalo di media qualità offrendolo a chi si è convinto di trovarvi dentro, una volta apertolo, qualcosa di unico e di raro.

Chiuso il portoncino a doppia mandata, entrò nell’ascensore che la portò con qualche sussulto al pianterreno.

Fuori l’aspettavano le luminarie natalizie predisposte dai negozianti della zona, sfavillanti ai lati dei portici del centro di quella città moderna e distratta. Un tragitto compiuto con un po’ di musica di sottofondo in macchina e poi finalmente a casa dai suoi animali che l’aspettavano e che gioivano del suo rientro riempiendo spazi e tempi della sua quotidianità con appagante presenza. Libera di sfilarsi dall’anulare quell’anello di brillanti indossato a mo’ di specchietto per le allodole, prima di conservarlo in un cassetto del trumeau di camera assieme a quegli occhiali trendy e civettuoli di molta apparenza e poca sostanza che tanto contribuivano al suo phisic du rôle di manager dei sentimenti altrui.

Fino al lunedì successivo, giorno di riapertura dell’agenzia, e in occasione della sua prossima consulenza in qualità di appaiatrice di anime più o meno gemelle.

Lucia Guida

 

in foto acquerello di Muramasa Kudo

Welcome, 2015 …

Sono grata al 2014 per essersi annunciato in sordina e avermi regalato tante piccole soddisfazioni, scrittorie e personali. Di aver reso il mio sguardo più limpido; forse meno disincantato che in passato ma certamente più consapevole.

Non ho avuto tempo di preparare poesie o racconti ad hoc nel turbinio di queste ultime giornate e ve ne chiedo venia; saluterò con voi, quindi, l’anno vecchio che se ne va con una poesia di un’autrice americana, da me tradotta con molta libertà.

Ricordando a me stessa e a voi che siamo sempre noi a connotare nel bene e nel male il Tempo che scivola lentamente tra le nostre mani. Facciamone buon uso, tanto da non rimpiangerlo mai

Auguri di cose belle ma soprattutto buone a tutti

Buon e sereno 2015

Lucia

The Year

“What can be said in New Year rhymes,
That’s not been said a thousand times?
The new years come, the old years go,
We know we dream, we dream we know.
We rise up laughing with the light,
We lie down weeping with the night.
We hug the world until it stings,
We curse it then and sigh for wings.
We live, we love, we woo, we wed,
We breathe our prides, we sheet our dead.
We laugh, we weep, we hope, we fear,
And that’s the burden of a year.”

 

Ella Wheeler Wilcox (1850-1919)

 

 

“Cosa si può dire in rima di un nuovo anno, che non sia stato detto mille volte? Gli anni nuovi vengono, quelli vecchi vanno, sappiamo che sogneremo, sogniamo di sapere. Ci risolleveremo ridendo con la luce, ci sdraieremo piangendo con la notte. Abbracceremo il mondo fino a che non pungerà, lo malediremo e poi sospireremo per un paio d’ali. Viviamo, amiamo, corteggiamo, ci sposiamo, respiriamo il nostro orgoglio, piangiamo i nostri morti. Ridiamo, piangiamo, speriamo, temiamo, e questo è il peso di un anno “.

 

 

 

 

photo by www.bride.ca

Terminare in bellezza – piccoli traguardi di fine 2014

Novembre ha continuato a regalarmi piccole soddisfazioni, spianando la strada a un bel dicembre frizzante e beneaugurante.

La mia poesia “Ode alla Primavera”, ( se avete voglia di rileggerla la trovare in un post di qualche tempo fa ), è stata selezionata per far parte di un’antologia di autori vari, pubblicata da V edizioni, fatta di alcuni dei partecipanti al Premio Zucchi 2014, concorso bandito dall’associazione emiliana “Succede solo a Bologna”. La cosa più bella è che i proventi derivanti dalle vendite verranno devoluti alla sezione AIL bolognese.

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Ho, poi, tenuto a battesimo un libro da me già recensito, “Il bosco senza tempo”, dello scrittore aquilano Stefano Carnicelli che lo ha presentato presso la Cooperativa “Il Bosso” di Bussi sul Tirino (Pe) venerdì 21 novembre 2014 assieme alla voce narrante di Adriano Sabatini.

Non so voi, ma ogni volta che parlo di un romanzo al grande pubblico mi sembra quasi parlare di una mia creatura: stessa emozione, stessa sensazione “protettiva”, stessa voglia di vederlo volare sempre più in alto.

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In foto Lucia, Stefano Carnicelli, Adriano Sabatini e Luciano Alberici

A dicembre, e precisamente sabato 13 dicembre, ci sarà anche il mio piccolo contributo all’evento giornalistico, fotografico e letterario Intorno alle parole – Officina ( e sinonimi ) dei fatti attorno alle parole, organizzato dall’Associazione Il cassetto delle Idee. Si parlerà di editoria, mercato editoriale, scrittura, premi letterari e di arte in senso ampio attraverso installazioni pittoriche e fotografiche, con degustazione finale di “Show Food” al BR1 Cultural Space di Montesilvano Colle (PE). Trovo che sia una bella coincidenza far parte di questa interessante iniziativa nel giorno del mio nome. E’ la seconda volta che mi capita una cosa del genere: l’anno passato, sempre il 13 dicembre presentavo “Pergolato” all’Emporio Primo Vere, Bottega del Commercio Equo e Solidale di Pescara, egregiamente supportata dalla scrittrice Rita Pelusi.
Naturalmente se ne avete piacere siete tutti invitati a intervenire. Inizio ore 16.45, ingresso libero

Locandina intorno alle parole

Nella calza di Babbo Natale o della Befana ci sono, infine, almeno un paio di altre cosette di cui mi riservo di parlarvi quanto prima

Nel frattempo vi abbraccio forte tutti

A presto con nuove letture e nuove parole

Lucia

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E’ un autunno iniziato con morbidezza, portando in dono giornate insolitamente miti, quasi a scusarsi della pioggia e del cattivo tempo che inevitabilmente sarebbero arrivati con la stessa prevedibilità dei momenti a volte belli a volte meno, che costellano la nostra esistenza. A me la nuova stagione ha portato una bella soddisfazione scrittoria, il secondo posto al Premio Lupo, premio nazionale pugliese, piccolo ma ben consolidato, di grande qualità  e rigorosità attraverso il mio racconto inedito “In un campo d’orzo e di papaveri” da voi già letto nel precedente post e premiato domenica 19 ottobre 2014 a Roseto Valfortore (FG).

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Pergamena d’onore con la motivazione della giuria

Una Firenze meravigliosa dal fascino riservato mi ha accolta per conferirmi il premio speciale della giuria per la sezione B, scrittura al femminile, del III Concorso Nazionale “Città di parole” organizzato da “La Città di Murex, Laboratorio Arte e Scrittura di Firenze” grazie a “Un mercoledì perfetto”, racconto edito nel 2012 e parte di una raccolta di racconti “Il cuore delle donne”, a voi già presentato anche attraverso le pagine di questo blog.

Condividere con voi le cose che scrivo per me è un piacere; a me piace la scrittura schietta, pulita, trasparente. Quella che si mostra senza tema di alcun genere, con la voglia e l’entusiasmo di incontrare la sensibilità di un lettore attento, poco avvezzo a rimanere in superficie e mai alla ricerca di facili emozioni.

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in foto Lucia con lo scrittore  Piero Malagoli in un momento della Premiazione di “Città di Parole”

Un Novembre ballerino fatto di pioggia e nebbia ma anche di sorprendenti giornate di sole ha fatto da cornice alla mia partecipazione di autrice L.O.C. ( Letterature di Origine Controllata ) giovedì 6 novembre 2014  alla dodicesima edizione del FLA 2014, Festival delle Letterature dell’Adriatico, con la presentazione del mio “Pergolato”, La casa dal pergolato di glicine, introdotto con sapiente sensibilità da Arianna Di Tomasso, ideatrice e organizzatrice di Settimo Senso, Festival del Cinema e dell’Aurum, eccellenza culturale abruzzese che l’anno prossimo debutterà all’Expo  Milano 2015.

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Nella foto in alto i miei ferri del mestiere del FLA: programma, pass autori e “Pergolato” alla mano; in basso Lucia e Arianna parlano della storia di Marina Federici sedute sulla pedana della Sala Arancio del Circolo Aternino di Pescara, foto di Guerino Di Francesco

A questo punto vorrete sapere cosa farò da grande. La risposta è che al momento non lo so.

Mi piacerebbe continuare a scrivere, intessendo trame forti e robuste su canovacci grezzi per poi provare a ingentilirli con ricami incisivi ma  delicati. Staremo a vedere. A ogni modo sappiate che mi è piaciuto condividere con voi, oggi, questi pensieri sparsi, piccoli appunti di viaggio. Piccole e grandi conferme ricevute che mi hanno fatta riflettere in silenzio sul senso di molte cose, scrittorie e non.

Un abbraccio e un grazie di cuore per avermi seguita sino ad ora con pazienza.  Ce ne vuole tantissima con gli autori emergenti come me, patiti dello slow writing: di quella scrittura portata avanti pian piano, senza fretta, ponderata, che, tuttavia, non tradisce mai.

A presto

Lucia

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In un campo d’orzo e di papaveri

Guardare una fotografia e provare a leggerla ricamandoci sopra un racconto breve. E’ quello che ho cercato di fare un anno fa quando ho pensato a “In un campo d’orzo e di papaveri”, premiato domenica 19 ottobre 2014 a Roseto Valfortore (FG), come racconto vincitore del II posto della VII edizione del “Premio Lupo”, sezione letteraria, promosso dal comune di Roseto Valfortore, sostenuto da buona parte dei comuni del comprensorio del Subappennino Dauno,  con il partenariato dell’Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Spettacolo della Regione Puglia e il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Foggia.

Il sogno di Lauretta è quello di riuscire a intrecciare una coroncina di papaveri senza rovinarne la delicata sericità. La bimba riuscirà nel suo intento, e il braccialetto di fiori da lei creato con amore e altrettanta delicatezza diventerà per sua zia Maria Luisa, alla ricerca di una vita personale maggiormente soddisfacente, a cui il dono è riservato, metafora e simbolo beneaugurante di un futuro migliore.
Cornice del racconto la terra forte e dura di Puglia, ricca e capace di inaspettati atti di generosità.

Buona lettura

 

 

In un campo d’orzo e di papaveri 

La bambina si guardò attorno circospetta, temendo che qualcuno potesse rimproverarla per la sua sparizione ingiustificata; poi sospirò silenziosamente, rinfrancata da ciò che le compariva davanti. Attorno a lei c’era soltanto la distesa sconfinata di quel campo d’orzo inselvatichito, vivificato dal tripudio di papaveri e fiori selvatici che erano riusciti a sopraffarne la rassegnata uniformità. Ricacciando indietro le ciocche ribelli sfuggite alle treccine castane, si chinò a raccogliere quanti più fiori rossi poteva, noncurante dei cardi e dell’ortica che le insidiavano le gambette nude, a malapena protette dal vestitino di cotonella sottile.

I papaveri erano i fiori che preferiva in assoluto: belli, slanciati, setosi. Peccato che durassero il tempo di un respiro. Decise, tuttavia, di portarli a casa con sé per provare a intrecciarli in una coroncina come aveva visto fare a Natalina, la sua compagna di banco, con una manciata di pratoline. Quando le aveva detto della sua idea l’altra l’aveva guardata con un’ombra di compatimento.

– Non si può – aveva, poi, replicato con fare saccente.

– Perché no? – aveva insistito lei, suo malgrado dispiaciuta dal tono altezzoso dell’altra.

Natalina l’aveva squadrata con sufficienza se possibile ancora maggiore.

– I papaveri sono troppo delicati e muoiono presto – aveva sentenziato seccamente. Abbandonandola di scatto per raggiungere un gruppo di altre bambine che, in cerchio e tenendosi per mano, avevano preso da poco a intonare “La solitudine si deve fuggire”.

Lauretta era rimasta seduta su una panchina del cortile della scuola, all’ombra traforata di un albero di acacia, riflettendo a lungo su quanto l’amica le aveva svelato, le gambette penzoloni altalenanti e il capo chino. Per quella mattina non c’era stato gioco che l’avesse tentata abbastanza da farle lasciare la posizione rinunciataria in cui si era caparbiamente trincerata.

Il gracchiare lontano di una cornacchia la fece tornare al presente di quell’afosa giornata di principio d’estate. Guardando i papaveri raccolti decise che potevano bastare e si buttò a peso morto tra l’erba alta del campo semiabbandonato insensibile ai minuscoli abitanti che ne popolavano le nutrite retrovie. Sopra di lei il cielo, al mattino di un azzurro intenso, aveva preso un colore celestino indefinito, certamente dovuto al gran caldo. Con ponderatezza si scelse una nuvola dai contorni insoliti a cui aggrapparsi per poter fantasticare in libertà.

– Lauretta!

Il grido femminile, lontano ma non abbastanza da non essere da lei percepito con chiarezza, spezzò quell’incantesimo breve. Sollevandosi appena sui gomiti la bambina intravvide una donna vestita completamente di nero, dal fazzoletto che portava in testa al gonnone informe che ne avvolgeva la figura appesantita dallo scorrere impietoso del tempo e dalle tante fatiche domestiche. Sua madre, mani ai fianchi, la stava cercando, e non sembrava per niente contenta di non riuscire a scorgerla da nessuna parte. Riflettendo febbrilmente sul da farsi, Lauretta traccheggiò tra l’idea di riemergere dal microcosmo brulicante in cui si era crogiolata con indolenza sino a pochi istanti prima e quella di aspettare che la donna rientrasse nell’austera casa colonica oltre il campo, piombandole d’improvviso e come per incanto davanti con la cesta di vimini ricolma di uova e l’aria vaga che assumeva quando voleva dare a intendere agli altri di essere qualcuno che non era.

La cesta di vimini, oggetto delle richieste materne, era a pochi passi da lei, invasa da una colonia di formiche operaie ma il suo contenuto le pareva ancora indenne e tanto le bastava. Ricadendo all’indietro tra le sterpaglie Lauretta decise di indugiare per un altro po’, cercando di resistere stoicamente all’intraprendenza di un grillo che aveva preso a passeggiarle sul braccio e non voleva saperne di andar via.

Maria si guardò attorno, tentando di mitigare la luce abbacinante del sole proteggendosi gli occhi con una mano. Di quella figlia pestifera non c’era traccia. Le sembrò di scorgere qualcosa a ridosso del vecchio spaventapasseri ma poi decise che era solo un cardellino alla ricerca di qualche seme da becchettare e lasciò perdere.

A casa avrebbero fatto i conti non appena Lauretta si fosse degnata di farvi ritorno. Si sentì quasi male al ricordo di tutto il daffare in sospeso per la promessa di sua sorella. Mancavano due giorni all’evento e ogni cosa, come al solito, era lì a gravare sulle sue spalle.

Arrancando sulle zolle di terra arida si avviò verso l’aia, a quell’ora deserta, detergendosi le stille di sudore che avevano preso a colarle abbondanti sul volto per il calore solare attirato da tutto quel nero che la ammantava a celebrazione doverosa dell’ultimo lutto familiare.

Lauretta sbirciò con un velo di colpa sua madre attraverso un ciuffo di gramigna e fece per alzarsi ma qualcosa la convinse a non mostrarsi ancora. In quel pezzo di terra incolta non era la sola ad essersi nascosta agli occhi di Maria.

Vattenne, vai via da me, – era il grido accorato e sommesso di una donna giovane, sua zia Maria Luisa, vestita come l’altra di nero, i capelli acconciati in una crocchia castana sulla nuca appena un po’ disfatta, come alla fine di una lunga giornata laboriosa.

Lauretta non capiva con chi ce l’avesse, fino a quando un uomo dai capelli chiari e dalle braccia muscolose da gran lavoratore non le si affiancò velocemente. Era Vincenzo, un bracciante del paese.

– No che non me ne vado, o vuò capì? – l’apostrofò con rudezza, prendendola per le braccia e costringendola a guardarlo negli occhi – Tu, quello, non lo devi sposare!

Maria Luisa lo fissò con aria dolente e non ebbe il coraggio di replicare nulla. I suoi occhi parlavano benissimo da sé. A un certo punto, però, decise di scrollarsi di dosso quella sorta di trance in cui era caduta e, sia pure a malavoglia, si divincolò dalla presa dell’altro e dal suo abbraccio possente, riuscendo a scappar via verso la masseria. Il gigante biondo si lasciò allora cadere come privo di forza contro il tronco nodoso della quercia secolare che li aveva accolti entrambi sotto la sua provvidenziale ombra.

Lauretta restò acquattata tra le erbe a poca distanza da lui, sperando che l’altro sparisse presto; valutando, intanto, con tutta la consapevolezza infantile di cui era capace, quanto la sua punizione sarebbe stata proporzionale al ritardo accumulato.

Con un guizzo repentino l’uomo si sollevò in piedi facendole mancare un battito, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa (forse un ripensamento retrospettivo dell’amata?) che non riuscì a scorgere da nessuna parte. Allora, con un gran sospiro, si rassettò alla bell’e meglio l‘abito da lavoro che indossava, andando via a spalle curve in direzione dell’abitato, dopo aver ripescato, ben mimetizzata dietro un rovo di more al limitare della carreggiata, una bicicletta vetusta.

Fu soltanto allora che Lauretta, dando fondo a tutto il fiato che aveva in corpo, corse verso casa, i papaveri raccolti celati nel cestino assieme al suo prezioso contenuto.

– Dov’eri finita?

La mamma era palesemente di malumore in quella cucina di campagna piena di odori di cibo; aiutata dalla nonna, stava sgranando piselli in una coppa di ceramica sbreccata, mentre le zie Annarella e Maria Luisa provvedevano a lavorare su una spianata di legno un’enorme quantità di massa per il pane.

Lauretta decise di non rispondere. Qualsiasi cosa avesse deciso di dire sarebbe stata contrastata dalla sua interlocutrice, quindi si affiancò alla nonna ben decisa a darle una mano, le manine magre tradite da inconfondibili striature rossastre che fecero corrugare lo sguardo all’anziana ma non produssero fortunatamente altro effetto.

– Ci voglio fare una coroncina per la festa di domenica – le confidò a bassa voce in uno sprazzo di sincerità. La nonna scosse il capo con disapprovazione.

– A lutto, stiamo. Il rosso non va bene

La bambina non ne era pienamente convinta.

– Nemmeno per una coroncina o un braccialetto in un giorno di festa? –  chiese mortificata.

Nonna Fonzina questa volta la guardò con reale durezza e con un tono appena al di sopra di quello usato solitamente le replicò stizzita

– Il rosso è il colore del demonio – Chiudendo, per il momento, la questione.

Preparare una festa di fidanzamento non era cosa semplice per gente di campagna come loro. E tuttavia il gioco valeva la candela perché Maria Luisa si sarebbe imparentata con una famiglia benestante come quella del Contini, macellai da tre generazioni. Il matrimonio, combinato per il tramite di Don Marcuccio, sensale, era da subito apparso come una manna dal cielo per tutti loro. Antonio Contini non era propriamente un pezzo di marcantonio. Di aspetto assai modesto, di contrasto con il lavoro intrapreso in paese dalla sua famiglia, dava l’idea di volare via col primo colpo di vento; ed era certo che più di una delle sue profferte matrimoniali fosse stata rifiutata da altrettante ragazzotte del posto, che avevano visto la prospettiva di accasarsi con lui come il fumo negli occhi. Maria, invece, l’aveva da subito considerata una prospettiva unica e invidiabile per elevare il tenore della propria famiglia per il tramite dell’avvenenza e della gioventù della sorella minore. Dandosi da fare, con ogni mezzo, per condurre quest’ultima per la propria strada.

– Ma io non gli voglio bene …, – aveva protestato accorata la ragazza

– L’amore verrà dopo, – le aveva replicato prontamente lei. L’amore, quello fatto di sentimenti e slanci d’animo, era cosa da canzonette e non per faticatori come loro.

– Pare un morto vivente, davvero. Nessuna l’ha voluto, perché dovrei pigliarmelo proprio io? – aveva continuato l’altra senza demordere, nel disperato tentativo di scampare a quella condanna all’ergastolo

Maria l’aveva guardata cupamente

Maria Luì, lo vuoi capire o no che senza dote o corredo non ti si marita nessuno? Resterai zitella o sposerai un morto di fame ccume annuie!

L’altra aveva spavaldamente alzato la testa.

– E che m’importa? Vado a servizio in città …

– E allora vacci subito, intesi? Sei una svergognata ingrata … – aveva inveito sua sorella e una vena le si era d’improvviso gonfiata al collo, facendo presagire il peggio.

Quella sera era finita davvero male, Lauretta lo ricordava ancora, con sua zia che, in lacrime, era scappata di notte nei campi e non se n’era saputo più nulla fino al mattino dopo, quando suo padre, con infinita pazienza, aveva ripescato sua cognata in un casolare abbandonato riportandola a casa.

A riequilibrare definitivamente le sorti ci aveva pensato il destino con tragica tempestività.

Zio Michelino era caduto in un pozzo perdendo la vita nel tentativo di appurare se poteva ancora fornire acqua e la carenza di quel paio di braccia maschili oramai irrimediabilmente perse si era subito palesata attraverso una montagna di spese e debiti accumulati con sconcertante facilità a cui i Contini, per intercessione di don Marcuccio, si erano offerti con premura di far fronte in men che non si dica.

Maria si era chiusa in camera con Maria Luisa nel tentativo di farla ragionare mentre il resto della famiglia sedeva attorno al tavolo rettangolare senza avvertire più appetito, incapace di consumare anche un solo boccone dell’opulento pasto di riconsolo, offerto, come tradizione, da amici e parenti per la perdita del pover’uomo.

Nonna Fonzina, zia Annarella, suo padre, lei e suo fratello Lino avevano assistito in silenzio, seduti a cena, alla disperazione della loro zia più giovane, fino a quando suo padre, infastidito o forse imbarazzato da tutto quel clamore in una sera che avrebbe dovuto essere di raccoglimento per l’intera famiglia, era uscito di casa nella notte a fumare una Nazionale dall’odore pessimo. Avuto il permesso di alzarsi da tavola per riordinare e conservare gli avanzi di quella cena sfortunata i restanti convitati avevano seguito il suo esempio senza proferire parola. In barba alle occhiatacce della nonna, Lauretta aveva poggiato un orecchio sulla porta della camera da letto dei suoi per cercare di carpire l’epilogo di quella sceneggiata familiare ma non c’era riuscita. A un certo punto, però, la zia ne era uscita di botto, gli occhi arrossati per il lungo pianto, precipitandosi fuori verso la tettoia dove d’inverno conservavano i ciocchi di legno per il camino, e lei l’aveva istintivamente seguita. L’aria di quella serata di fine maggio era ferma e carezzevole. Lauretta le si era avvicinata con un po’ di timore temendo di essere scacciata, ma la zia le aveva sorriso tra le lacrime e l’aveva stretta a sé quasi a confortare se stessa attraverso il calore autentico e generoso di quel corpicino infantile visibilmente in pena per lei.

Scrutando l’oscurità erano rimaste abbracciate a lungo, sedute su ciò che rimaneva di un tronco di ulivo, sradicato qualche settimana prima dalla buonanima di Michele perché quasi del tutto secco. Quando la luna aveva fatto capolino tra il fogliame dei pochi alberi a confine della costruzione, la zia l’aveva presa in braccio e l’aveva riportata dormiente in casa adagiandola sul lettino nella sua stanzetta.

L’indomani suo padre, di ritorno dal paese vestito dell’unico abito buono che possedeva, aveva annunciato a tutti l’avvenuto fidanzamento tra la cognata e Antonio Contini mentre l’interessata, a capo chino, ne prendeva ufficialmente atto con occhi lucenti ma senza versare altre lacrime.

Due giorni alla festa e ancora tantissime faccende da portare a termine.

Maria se lo ripeteva tra sé e sé di continuo, nel vano tentativo di darsi forza e nessuno osava farle da contrappunto vocale, prestando, tuttavia, senza risparmio le proprie energie per la riuscita di quell’avvenimento memorabile.

La domenica arrivò in un baleno accolta con ansia da tutti sin dalle prime luci dell’alba in piedi, ciascuno con un compito ben preciso cui adempiere. L’aia era stata svuotata e debitamente ripulita da suo padre e dal modesto contributo di suo fratello Lino, la tavolata apparecchiata come d’uso per le festività solenni all’ombra di una tettoia ombreggiata da filari d’uva per fornire frescura sufficiente al banchetto dei promessi. Le vivande, preparate per tempo, erano state allineate su ogni superficie libera dell’enorme cucina e in parte anche della stanza da letto dei padroni di casa, lustrata a specchio e prontamente rimessa in ordine, la coperta di broccato sormontata da quella intagliata sul letto matrimoniale rifatto da sua madre alla perfezione.
Maria Luisa era un incanto nell’abitino cucitole dalla sarta di paese; nero regolamentare, manco a dirlo, ma ingentilito da una scollatura a cuore e un vitino sottile con una gonna più ampia di quelle da lei di solito indossate. A Lauretta pareva una delle cantanti del festival di Sanremo sbirciate con curiosità sul giornaletto della signora Irma, bolognese, su cui questa e la mamma avevano scelto per la promessa sposa un modello degno delle circostanze.

La giornata era andata avanti senza scossoni, seguendo un copione prestabilito elaborato con sapiente lungimiranza. Gli ospiti, accolti con deferenza, erano stati fatti accomodare in casa per i primi scambi di convenevoli e poi condotti sotto il famoso pergolato. Maria Luisa e Antonio Contini erano seduti al centro, affiancati ciascuno dai personaggi principali della propria famiglia di origine come in una bizzarra prova generale del pranzo di matrimonio che si sarebbe celebrato a meno di un mese. Lauretta aveva contato una quindicina di invitati, intristendosi al pensiero che nessuna delle donne adulte presenti indossasse abiti dai colori vivaci, beneauguranti, e aveva fatto onore al banchetto, notando, invece, come la zia Maria Luisa spilluzzicasse di malavoglia ciò che con abbondanza sua sorella si affannava a offrirle invitandola, con occhiate più che eloquenti, a servirsene.

Lei e Lino avevano anche provato a familiarizzare con i bambini Contini ma senza successo; le due femminucce in abiti pastello ed enormi fiocchi di nylon tra i capelli, non si staccavano dalle gonne delle rispettive madri e l’unico maschio, dell’età apparente di quindici anni, non aveva intenzione di sporcarsi di terriccio e di pagliuzze dorate il vestito a giacca scuro come, invece, era capitato a Lino. Con sguardo furbo la bimba constatò come l’abbondante e generoso vino rosso e la ratafìa ghiacciata stessero facendo effetto sugli ospiti, decidendo che era arrivato per sé il momento di allontanarsi dalla tavolata, sentendosi come un cuccioletto legato alla catena a cui sia finalmente stata offerta la possibilità di sgranchirsi un po’ le zampe da un padrone severo e intransigente. Le era venuta un’idea luminosa ed era sicura che almeno qualcuno avrebbe gradito la sua sorpresa. Vi si era esercitata per giorni e giorni con risultati eccellenti che non vedeva l’ora di mostrare a tutti Inciampando nel vestitino a sbuffo, grazioso ma scomodo per una bambina en plein air come lei, si spinse coraggiosamente fino al primo ciuffo di papaveri rossi spuntato a ridosso della campagna. Con delicatezza ne colse la giusta quantità, stando attenta a non macchiarsi e a non sgualcirne i petali teneri e impalpabili; poi, col suo bottino si sedette all’ombra della quercia imponente da lì poco distante. Con grande abilità ne intrecciò le corolle riuscendo a non rovinarne nessuna, decidendo di regalare la coroncina di fiori a Maria Luisa. Era sicura che l’avrebbe resa meno triste, forse addirittura più felice.

Due sagome note intrecciate in un abbraccio attrassero la sua attenzione e lei si stropicciò gli occhietti stanchi per il timore di aver frainteso.

Con grande stupore vide sua zia ricambiare inequivocabilmente le affettuosità del gigante biondo e muscoloso baciandolo su una guancia. Questi, allora, la prese per mano aiutandola a salire su un camioncino malmesso poco distante. Un unico attimo di indecisione, poi un’idea veloce come un lampo in un cielo d’estate.

– Zia, aspetta!

Lauretta corse a perdifiato come in quella mattinata lontana ma questa volta per raggiungerli, pronta a consegnare il suo dono campestre con infantile determinazione. I due amanti si volsero di scatto verso di lei, sorpresi, e sua zia, già di lato al suo cavaliere, si sporse dal finestrino e le accarezzò il visetto intelligente sorridendole come per scusarsi, con un luccichio insolito negli occhi che le fece capire che quello era un addio.

Lauretta le tese seria la ghirlandina di papaveri e l’altra l’afferrò veloce con uno sguardo luminoso, ben diverso dall’espressione incolore degli ultimi giorni. Poi le mandò fugace un bacio prima di stringersi al suo cavaliere. L’automezzo si allontanò rombando, sollevando una nuvola di polvere che fece tossire per qualche istante la bimba ma non la intimorì.

Quando li vide scomparire dietro il lungo filare di pini marittimi che delimitava la carreggiata Lauretta s’incamminò sulla strada del ritorno stringendo in pugno l’unico fiore rosso sfuggito al suo capolavoro, con sguardo pensieroso. Di una cosa, però, era abbastanza sicura. I papaveri erano troppo incantevoli per appartenere al demonio. Potevano soltanto essere fiori di angeli provvidenziali se erano riusciti a restituire il sorriso a sua zia. Gongolò al pensiero piacevole di quanto quest’ultima avesse apprezzato il suo braccialetto. Le avrebbe certamente portato fortuna, si disse convinta. Questo pensiero la confortò e la rese più serena.

A pochi passi da lei, al centro dell’aia attorno alla lunga tavolata ancora imbandita a festa, c’era qualcuno che discuteva con concitazione. Con un sussulto leggero lei trasalì credendo di saperne il perché ma non indietreggiò.

Vi si avvicinò, invece, a fronte alta; pian piano, con coraggio e calma estremi, pronta come non mai ad affrontare i rimproveri di sua madre.

Il suo bel vestito della festa era irrimediabilmente macchiato di verde e di vermiglio, ed era una realtà, ma a lei questo poco importava. Attorno a sé avvertiva ancora, forte e persistente, la fragranza discreta dei fiori rossi di campo magicamente da lei intrecciati l’uno all’altro, assieme a un nuovo e misterioso profumo di amore, percepito con lievità di bimba sensibile e da subito riconosciuto e accolto nel suo piccolo cuore.

Lucia Guida 

photo by Jarmilla

Presentazioni d’autore: “La pietra di Cesare” di Maurizio Milazzo

Cari amici, qui di seguito troverete la mia recensione dell’ultima fatica letteraria di Maurizio Milazzo, autore romano, di cui avevo avuto in anteprima notizia in occasione della presentazione romana del mio “Pergolato”, avvenuta il 23 maggio 2014 presso la Shakespeare & Co. di Vincenzo Libonati.
Buona lettura e a presto

Il romanzo

“La pietra di Cesare” è il secondo romanzo di Maurizio Milazzo pubblicato per la casa editrice siciliana indipendente Nulla Die. Fa parte di una saga disvelata poco a poco dal suo autore che vede come protagonista Nicola Enaldi, questa volta nei panni di un talentuoso informatico ventenne alle prese con un intrigo a metà tra il paranormale e il fantascientifico con risvolti di tipo giallistico.

La storia si svolge ai nostri tempi ed è incentrata sul personaggio principale di “Strada facendo”, qui ritratto all’inizio della sua affermazione professionale e personale, affiancato da Giulio e Simone, suoi colleghi di lavoro presso la Datatrace S.p.A., società di servizi informatici romana. Nicola è uno studente lavoratore ben deciso a farsi strada da solo, senza agevolazioni che gli provengano dal fatto di avere un padre azionista  di un’industria farmaceutica in cui lui potrebbe certamente trovare occupazione attraverso corsie privilegiate. Grazie alla sua intraprendenza e alla voglia di fare giustizia per sé e per i suoi compagni di lavoro, come lui preoccupati di essere messi in cassa integrazione o trasferiti,   uscirà a venire a capo di un intrigo di tipo finanziario in parte procuratogli dal fatto di aver accettato di aiutare Aulo Tiberio Manlio, centurione della Nona Legio Hispana, giunto a Roma nel terzo millennio grazie ai poteri magici di un amuleto donatogli da Giulio Cesare, suo capo, per catturare Sesto Nasone, l’unico congiurato romano riuscito a sfuggire alla vendetta dei fedelissimi di Cesare grazie a un frammento della stessa pietra magica, carpito con l’inganno all’augusto condottiero nel giorno della sua uccisione.

Nicola e Aulo Tiberio Manlio scopriranno che il loro antagonista ha assunto camaleonticamente le fattezze di “Bellicapelli”, famoso politico locale e incarnazione della politica più becera e opportunistica che possa esistere, cercando di fermarne le malefatte e attirandosene l’ira funesta.

Il romanzo di Maurizio si divora con grande facilità, spingendo il lettore ad andare avanti per poter sapere “come andrà a finire”. Molti gli spunti di riflessione su aspetti salienti della nostra quotidianità offerti dal suo autore: uno tra tanti, quel sottile senso di precarietà alla base del nostro vivere spicciolo, che contribuisce a rendere transitorie tutte quelle cose che una volta duravano per sempre, come un posto di lavoro modesto ma conquistato con fatica. Il narratore si impegna a traghettare ciascuno di noi con estremo garbo attraverso il dipanamento di un intreccio solo all’apparenza facile e scontato, mirando a verificare come, nel corso dei millenni,  in questione di potenziale umano e relazioni interpersonali  sia davvero cambiato poco se peccati capitali come l’ambizione, la sete di potere, un certo “delirio di onnipotenza” propri di tutti coloro che vorrebbero prevaricare i propri simili per assicurarsi, a discapito degli altri, condizioni di vita migliori, siano sempre lì, pronti a venir fuori e a connotare con spietata negatività chi se ne lascia consapevolmente ammantare trasformando la propria esistenza in un modus vivendi d’assalto.

La positività e l’elemento salvifico non mancano: risiedono nella trasparenza dell’ingegner Fiore, preoccupato per il benessere dell’azienda per cui lavora piuttosto che di procacciarsi un’opportunità professionale ghiotta e maggiormente remunerativa altrove; in Mara, amica di vecchia data di Nicola, complice e affidabile senza troppi se e ma; nella lealtà di Giulio e Simone, consapevoli di dover giocare una partita dura e pericolosa per dare manforte all’azienda che ha conferito loro dignità professionale; nel profondo senso del dovere di Aulo Manlio, pronto a inseguire in epoche temporali differenti il suo acerrimo nemico  piuttosto che rischiare di disattendere il compito che si è prefisso di portare a termine: catturarlo e punirlo in modo esemplare.

L’autore

Maurizio Milazzo è nato a Roma nel 1968, si occupa di Sistemi di Pagamento per la Pubblica Amministrazione. Socio della Free Lance International Press, collabora con giornali e riviste, scrive e conduce programmi radiofonici e televisivi su network locali. Da presidente della Promoit Onlus persegue progetti di solidarietà. Nel 2009 pubblica la raccolta di racconti “Sogno o son destro? Incubi di un mancino”. Nel 2012 pubblica in e-book i racconti “Rompete le righe… ma anche i quadretti” e nel 2013 il suo primo romanzo, “Strada facendo”, per le Edizioni Nulla Die.

Maurizio Milazzo, La pietra di Cesare, ISBN: 9788897364962   € 16,00

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