Succo di melagrana

 

 

 

“Succo di melagrana” è un mio componimento poetico in versi sciolti da cui prende il nome la mia prima opera da solista, una silloge di  sei racconti in cui narro storie di donne in bilico tra passato e presente, pubblicata dalle edizioni Nulla Die di Piazza Armerina a principio del 2012.

E’ un ritratto al femminile di ciò che ciascuna donna potrebbe diventare a un certo punto del cammino intrapreso grazie alla consapevolezza acquisita in itinere.

La melagrana, agrodolce e succosa, poco appariscente ma in realtà scrigno dell’essenza femminile per antonomasia, viene da me indicata come frutto privilegiato per rappresentarci a tutto tondo al mondo intero

Buona lettura

 

 

Succo di melagrana

 

Mi chiedi come sono

e insisti per saperlo.

Io sono io

e non so spiegarlo

talvolta neanche a me.

Sono tessuto leggero di

pashmina del Kashmir,

morbida e avvolgente dal

disegno piccolo e ricercato,

e non pezza di velluto di seta

sfrontatamente

impositiva;

sono argento indiano

lavorato con turchese o

ametista

e non trilogy di brillanti

in elegante confezione regalo.

Sono sottobosco d’autunno

dorato

e non esplosione di verde rigoglio

Sono tramonto che sfuma nel blu violetto della sera

o alba che tinge appena di luce e colori

tenui l’orizzonte

e non mezzogiorno accecante

e torrido.

Felice di essere così,

A volte anche senza parole,

mai più senza speranze

o amore verso me stessa.

Con una piantina

da crescere sul mio balcone,

o un fiore da curare,

in un goccio d’acqua

in un vaso di vetro

colorato

in camera

da me.

Succo agrodolce

di melagrana

che ti disseta

con discrezione

lasciando traccia

vermiglia

indelebile

sulla tua mano.

 

L. Guida *

“Succo di melagrana” in Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

 

in foto immagine di Persefone presa dal web

Il volo dell’aquilone

“ll volo dell’aquilone” segna il mio esordio letterario come autrice di racconti brevi, classificandosi, nel 2008, tra i dieci racconti finalisti del XII Concorso bandito dalla Biblioteca Poggio dei Pini di Capoterra (CA).

E’ un testo a cui sono particolarmente legata e ha segnato per me il passaggio da blogger a scrittrice di racconti brevi, una strada intrapresa a piccoli passi.

Confesso che avrei comunque amato Valerio e il suo desiderio caparbio e tenero di far volare quell’aquilone così faticosamente costruito anche senza i riconoscimenti ufficiali ricevuti. Spero sia così anche per voi  

Buona lettura e a presto

 

Il volo dell’ aquilone 

Valerio era il terzo di quattro figli. Era arrivato in sordina all’ alba di  un mattino di dicembre, terzogenito di una tipica famiglia di una città di provincia come tante. Una famiglia in cui spiccavano il rigore di un padre che si era fatto da sé  e la docilità di una madre che si era sposata per sistemazione e forse con poco amore. Valerio era stato accolto con la naturalezza con cui si accoglievano tutti i figli nati sotto la solidità di un tetto coniugale; sua madre gli si era dedicata con la dovuta devozione, quella che ci si aspetta da una brava madre, crescendolo con affetto contenuto alternato a momenti di tenerezza estrema in cui lui diventava centro del suo fragile universo femminile e fulcro verso cui pareva si accentrassero  tutte le aspettative di moglie palesemente insoddisfatta. Quindi, inaspettatamente, a distanza di circa quattro anni era nato Tancredi, spodestandolo del privilegio di piccolo di casa e portando con sé altri elementi destabilizzanti nella serenità e nelle certezze, poche, di quella “ donna del dovere “.

Valerio aveva gestito con apparente piena accettazione la nascita di quel bimbo. A lui era subito sembrato troppo piccolo e un po’ bruttino, inspiegabilmente circondato dalle cure continue della zia paterna, ufficialmente giunta in quella casa per dare una mano ma in realtà anche per aggiungere  il peso della propria autorità a quella paterna, appesantendo l’animo di quella mamma già greve di stanchezza non solo fisica. I suoi fratelli maggiori, invece, avevano preso l’intera faccenda con disposizione diversa; Alberto con la leggerezza che stemperava in tutte le cose che faceva e le iniziative che intraprendeva,  Maria Paola  con il giudizio e la saggezza che la caratterizzavano da sempre e la rendevano figlia prediletta in modo indiscusso del papà. Al bimbo non era rimasto altro che dissimulare un profondo e antico dolore con l’ apparente pacatezza che pareva tutti si aspettassero da lui. In quella famiglia, simile ad una compagnia di guitti, a ciascuno era richiesto di ricoprire un ruolo ben preciso e costante nel tempo; e il suo, appunto, era quello di figliolo incredibilmente disponibile e buono, pronto a modellarsi al canovaccio necessario al momento riproponendo comportamenti pregressi già con successo sperimentati senza improvvisazioni di sorta.

Le sue giornate di bimbo sensibile e creativo procedevano sempre nello stesso modo, segnate dal carattere burbero di quel padre dalla personalità ingombrante e dall’apparente duttilità di quella donna  affannosamente presa dalle mille incombenze proprie del ruolo che le era stato chiesto di impersonare; in un sottofondo dai colori tendenti al cupo, delineato dall’irruenza dei modi paterni, fatto di tempeste vere o presunte e mai mitigato dalla vivacità di un arcobaleno femminile che potesse addolcirlo.

A un certo punto della sua giovanissima vita aveva scoperto le infinite potenzialità racchiuse in una matita e una manciata di colori,  prendendo a dare sfogo, attraverso disegni complicatissimi e ricchi di particolari minuziosamente tratteggiati, a quel groviglio di sentimenti inespressi presente nel suo cuore infantile che mai nessuno aveva pensato di portare in superficie con parole amorevolmente invitanti al dialogo. Immagini vivaci e coloratissime avevano assunto infinite forme nello spazio quadrettato di un foglio, contribuendo a rasserenare i suoi momenti più critici e sublimando energie vitali che altrimenti sarebbero andate a sfociare in frustrazione, impotenza e rabbia. Sua madre aveva notato questo cambiamento, soffermandosi per un po’ sulle cause che lo avevano prodotto. Concludendo, infine, velocemente le sue riflessioni con una carezza lieve e distrattamente conciliante. Un’ abitudine, quella di pasticciare con le matite, che portava talvolta Valerio al punto di dimenticare perfino di mangiare per dedicarsi a quel nuovo passatempo da lei giudicato oltre modo singolare con stupore e meraviglia e assecondato con materna indulgenza. Assai diverse, naturalmente, le conclusioni cui era giunto suo padre; il disegno era da quest’ ultimo sempre stato giudicato un’arte minore, superflua, minimale. Ben altro rispetto alla letteratura, alla matematica o alla storia. Forme d’espressione o discipline di maggior spessore, assolutamente non paragonabili per consistenza a pittoreschi ghirigori colorati. Ma stavolta Valerio aveva tenuto duro, riaffermando silenziosamente la sua volontà di esternazione e all’ austero genitore non era rimasto che brontolare per un periodo limitato di tempo circa l’ inutilità di coltivare precocemente simili passioni, per poi terminare con l’allinearsi, sia pure partendo da diversi presupposti, alla tollerante posizione materna. E si era giunti a quella fatidica data, a quel primo ottobre che avrebbe sancito il suo ingresso ufficiale nel mondo degli adulti con la sua entrata nella scuola elementare. Il padre l’ aveva accompagnato in silenzio in quell’ aula gremita di banchi con la pedana e segnata dai singhiozzi di qualche bambino incapace di contenere la propria paura del nuovo, lasciando che quel maestro dall’ aspetto severo, da lui conosciuto e stimato personalmente come persona integerrima e di autorità,  attribuisse a quel nuovo scolaro il posto che gli sarebbe toccato per tutto l’anno scolastico. Per un istante, un solo istante, Valerio aveva chiuso gli occhi trattenendo il fiato per evitare di indulgere in  quelle che sarebbero state considerate, ne era certo, esagerate manifestazioni emotive. Un solo istante che, però, racchiudeva un mondo di pensieri, primo tra tutti quello dell’ aquilone di carta di seta da lui confezionato il giorno precedente e che non aveva potuto far volare per la pioggia, piangendo silenziosamente e di nascosto nella rimessa per liberarsi della frustrazione di quel piccolo piacere negatogli dalle circostanze della vita.

Ci aveva lavorato con lena per ben due giorni, cercando di addolcire in tal modo il pensiero dei doveri scolastici prossimi a venire. In un cassetto del tavolino da cucito della madre aveva scovato diversi fogli di carta da modello chiedendole il permesso di utilizzarli per quella nuova impresa ed ottenutolo vi aveva riversato con impeto e passione tutta la sua energia creativa, decorandolo pazientemente e amorevolmente con le sue matite e facendo ampio uso di colla di farina e acqua. Al contadino che curava l’ orticello di casa aveva sottratto delle asticelle sottili di bambù destinate alla coltivazione degli ortaggi, incrociandole con precisione ingegneristica e legandole con lo stesso spago con cui  aveva assicurato l’ aquilone ad un rocchetto di legno.

E poi aveva atteso che una giornata di sole e tepore annunciasse il mattino successivo.

Ma così non era stato, e un imprevisto maltempo aveva segnato il suo risveglio assieme alla proibizione assoluta di recarsi nei campi ormai fangosi e pieni di pozze d’ acqua piovana.

A lui non era rimasto che sperare inutilmente che  il tempo si rimettesse al bello, col visetto appiccicato al vetro della portafinestra del tinello. Il miracolo non si era però compiuto.

Con incredibile forza d’ animo aveva terminato di pranzare spiluzzicando distrattamente e attirandosi i commenti poco piacevoli del fratello maggiore. Ma a pasto ultimato e non appena tutti  avevano smesso di dedicargli un’ attenzione in quel frangente davvero indesiderata e scomoda, era scappato in cortile e corso via nel suo rifugio segreto. Per dare finalmente libero sfogo al suo dolore immenso.

Consapevolmente privo del conforto lieve e dell’ empatia gentile di una voce adulta qualsiasi che gli spiegasse come quella domenica era soltanto principio di autunno e non castigo divino per improbabili colpe precedentemente commesse.

Eppure a un tratto era stato proprio il pensiero di quel mancato divertimento a tirarlo su di morale e a rendere sopportabile quella giornata di pura sofferenza.  Come un viandante assetato in un deserto inospitale  cerca di scorgere in lontananza l’immagine rarefatta dell’ oasi per rinfrescare il proprio spirito affranto, l’ idea di quell’ aquilone in paziente attesa e tuttavia pronto a  spiccare il volo in qualsiasi momento, condotto dalla sua manina e da un vento gentile e favorevole, aveva avuto il potere di rasserenarlo e di dargli speranza nuova. Portandolo con sé ed in alto, con benevolenza,  verso una concreta e possibile via di fuga, a distanza di anni luce da quel presente di così poche soddisfazioni e di molti affanni.

Lucia Guida

 

 

“Aquiloni”, dipinto di Cesare Cassone

 

 

Presentazioni d’autore: “Gli imbecilli? Stanno tutti bene” di Giuseppe Cagnato

“Gli imbecilli? Stanno tutti bene” è il romanzo d’esordio di Giuseppe Cagnato, autore di Nulla Die, casa editrice  per la quale ho pubblicato i miei primi due libri da solista. Anche in questo caso la passata edizione di “Più Libri Più Liberi” è stata occasione “galeotta” per conoscere dal vivo Giuseppe, nella vita progettista e arredatore, partecipando assieme ad altre penne nulladieane a una bella e nutrita tavola rotonda domenica 8 dicembre 2013.

“Gli imbecilli? Stanno tutti bene” è stato pubblicato a fine 2012 per la collana lego narrativa.

La recensione è presente anche mio spazio  potpourri di LiberArti Social Reader Writer Artist.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

Umberto è impiegato in uno studio di architettura come travet competentissimo ma sottostimato e sottopagato; a un certo punto della sua vita ha la ventura di apprendere la notizia di un’offerta di lavoro piuttosto singolare. Vanda, imponente ed evocativa signora di una certa età, in bilico tra l’omonima soubrette del teatro di rivista  e Moira Orfei, è alla ricerca di un custode sui generis che faccia da supervisore e, per certi versi, moderi le intemperanze degli inquilini di un condominio di provincia di cui possiede la totalità degli appartamenti. Una sorta di ago della bilancia a cui delegare la grossa responsabilità di segnalare il più meritevole per ottenere in eredità, a fronte di bontà, sensibilità e onestàda questi accertate e certificate, in caso di una eventuale dipartita della ricca proprietaria, la totalità delle unità immobiliari.

Alla ricerca spasmodica di una svolta in positivo nella sua vita, connotata da cieli più blu e aria maggiormente rarefatta di quella sino a oggi respirata, Umberto decide di accettare la sfida e trasferirsi nel palazzotto, apprestandosi a condividere di buon grado le storie più o meno dolenti della variegata umanità che lo popola. Ciascuno, infatti, ha deciso di celare al nuovo arrivato la propria intima natura con maggiore o minore sapienza, anche perché la notizia che sarà proprio lui a decidere di segnalare l’erede più papabile a Vanda si è già diffusa attirando, tra l’altro, le proteste veementi di un monsignore, tale don Tarcisio, infastidito dalla prospettiva oramai sempre più concreta, di perdere il lascito a Santa Romana Chiesa delle proprietà dell’esuberante vecchina.

La convivenza a stretto giro con i coinquilini del palazzotto di via Europa, angolo via Terranova, non è delle più facili.

L’idea di un’eredità insperata ha, infatti, portato a galla ogni sorta di conflitto e divergenza, dando corpo e sostanza al più infinitesimale granello di sabbia fino a farlo diventare una montagna pronta a travolgere chiunque si incaponisca a scalarla. E il povero Umberto, che avrebbe voluto intravvedere qualcosa di più di una maschera menzognera, di una forma mero specchio di sostanza, nelle sembianze degli undici inquilini, finisce col metabolizzare questo coacervo di emozioni e sensazioni contrastanti, spesso negative, in un’incipiente colite che lo spinge a meditare di gettare via la spugna.

Venendo meno al suo proposito iniziale, Umberto non ce la fa a fronteggiare con la giusta ironia questa singolar tenzone ed ecco la vita venirgli incontro per livellare, per buona pace sua e magari, inconfessabilmente, della stessa Vanda, meno per qualcun altro, la situazione oramai ingestibile e in piena caduta libera. Con un botto finale, metaforico e letterale, che finisce col collocare fuori gioco vinti e vincitori, spingendo il malcapitato custode in primis a tentare nuove strade, con geniale e provvidenziale lungimiranza. Quella di un novello e sapiente apprendista affabulatore, pronto a ripartire da zero e ad accettare di scommettere ancora su se stesso, almeno per quella parte di destino che gli è dato, in qualche modo, di dirigere autonomamente.

Nel condominio di semiperiferia al centro della narrazione c’è spazio per molte delle contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca: vestigie di discriminazione razziale e sessuale, moralismo a buon mercato e condanna per chiunque cerchi di affermare la propria individualità, foss’anche attraverso pratiche new age considerate con sospetto prima di essere bollate come amorali. La forma di non omologazione più genuina è, forse, quella sancita con sconcertante candore dalle azioni di una coppia di anziane, Norina e Irma, pronte a mettersi in gioco, a torto e a ragione, con le loro strampalate e paradossali soluzioni, nelle vicende routinarie dei loro coinquilini con maggiore efficacia degli altri, certe di contribuire sempre e comunque al bene comune.

La scrittura di Giuseppe Cagnato è asciutta, incisiva e graffiante, evidenziando in modo lucido e, per certi, versi ironicamente spietato l’umana fragilità dei tanti personaggi che porta in scena. La sensazione è di un atteggiamento globalmente empatico dell’autore con una scucitura piccolissima, ma tuttavia significativa, di autentica simpatia per il povero Umberto, all’inizio della vicenda ricco di aspettative, vanificate pian piano dall’imbecillità altrui, vigorosa come la miglior gramigna in un campo di grano. Una fiammella di speranza ( “maledetto sia chi la spegnerà per sempre!” ) è la considerazione finale, amara e dolente del protagonista, che tuttavia non demorde e continua a guardare avanti, spedendo in un plico a terzi la sua unica possibilità di salvezza da un mondo incaponito a continuare inderogabilmente per la propria strada.

 

 

L’autore

Giuseppe Cagnato, quarantottenne trevigiano di mestiere progettista e arredatore, appassionato di scrittura e lettura nel tempo libero, suggella con il romanzo “Gli imbecilli? Stanno tutti bene”, pubblicato a inizio del 2013, il suo esordio narrativo per i tipi della Nulla Die, casa editrice siciliana indipendente.

 

Giuseppe Cagnato, Gli imbecilli? Stanno tutti bene, ISBN: 9788897364559, € 16,00  

 

 

 

Ballata di una notte di plenilunio

Ci sono viaggi che durano pochi attimi e viaggi che durano una vita. E poi ci sono i viaggi della speranza, quelli compiuti con l’entusiasmo, la forza e la disperazione di credere ancora in una vita migliore.

In questo racconto, inserito nell’antologia di A.A.V.V. “Pensieri in viaggio”, pubblicata nel 2010 da Ibiskos  Editrice Risolo, do voce ai pensieri silenziosi di  Marisella, giovane ragazza dei primi del 900 partita oltreoceano alla volta della terra promessa alla ricerca di un’esistenza migliore e maggiormente soddisfacente. Compagna delle sue riflessioni la Luna, con i suoi raggi luminosi  e benevoli, complici.

Buona lettura

Ballata di una notte di plenilunio

(… )

ora non piangere perché
presto la notte finirà
con le sue perle stelle e strisce
in fondo al cielo
e ora sorridimi perché
presto la notte finirà
con le sue stelle arrugginite
in fondo al mare

( … )

da   “  Verdi Pascoli  “   di F. De Andrè  

– Marisella sei ancora sveglia ?

La voce in sordina di comare Tonia ruppe d’un tratto il flusso dei suoi pensieri facendola emergere dal torpore che l’aveva assalita. Decise però di fingere di essere quello che l’altra aveva immaginato continuando a tenere gli occhi chiusi, troppo stanca per replicare in qualsiasi modo, sentendosi quasi soffocare nel ventre di quel battello che l’aveva aiutata a recidere innanzi tempo antichi legami con la sua terra al pari di una puerpera che sa di doversi privare della propria creatura ed è tuttavia ancora traboccante di amore e di nutrimento per lei.

Era in viaggio da più di una settimana, con l’animo improntato alla speranza e alla fatica propri di un pellegrinaggio in cui ogni gesto, anche il più doloroso, è un sacrificio necessario per poter acquistare l’ambita indulgenza e un barlume di santità in altro modo difficilmente raggiungibili. La nave la stava portando in un nuovo Paese di cui non conosceva nulla oltre ai racconti immaginifici di chi c’era stato narrati attraverso una lettera o contenuti in brandelli di conversazione riportati dalle labbra dei pochi che avevano parenti emigrati. Aveva preso la decisione giusta? Ci sarebbero stati rimpianti? Al momento non lo sapeva. D’istinto, tuttavia, sentiva come la scelta compiuta fosse probabilmente l’unica possibile in quel futuro nebuloso potenzialmente foriero di avvenimenti a tinte scure che l’aveva d’improvviso avviluppata. Il destino l’aveva precocemente privata della sua famiglia e del conforto morale e materiale da essa rappresentato con la morte dei suoi genitori, periti di “spagnola” a breve distanza l’uno dall’altra, e della presenza di un fratello che  aveva deciso di tentare la strada dell’emigrazione in Francia di cui a oggi non ne sapeva più niente.

In quel paese del sud, battuto dal vento in ogni stagione, d’estate come d’inverno, fatto di viuzze concentriche aggrappate tutte al suo nucleo originario, lei aveva atteso invano un segnale certo che non era giunto: quello di poter continuare a vivere in un microcosmo conosciuto sin nei minimi dettagli ma ultimamente per lei così poco benevolo. E un proponimento audace, lentamente, aveva cominciato a prendere corpo nella sua mente crescendo di giorno in giorno e fortificandosi per non darle la possibilità di ripensarci sommersa dai sensi di colpa. Ben poche ragazze nella sua condizione avrebbero avuto l’ardire di rifiutare, rischiando per l’affronto a terzi procurato di rimaner zitelle a vita, un matrimonio di convenienza. Eppure lei l’aveva fatto. Quell’attempato vedovo con prole in cerca di una moglie giovane e docile che potesse prendersi cura dei suoi averi e di se stesso davvero a buon mercato, l’aveva fatta arretrare di più di un passo. Nemmeno il parroco, chiamato a perorare la causa e a far “ragionare” la ragazza era riuscito a farle cambiare idea. Marisella aveva tenuto duro, recandosi in chiesa tutti i giorni all’alba pur di non attirarsi la malevolenza popolare e facendo, se possibile, una vita ancora più ritirata della precedente. E Tommaso, il barbiere scrivano della povera gente che come lei sapeva a mala pena fare la firma, l’aveva aiutata a stilare una lettera alla sua madrina di battesimo, emigrata col marito in America. Maria le aveva ridato un soffio di speranza, mostrando di volerla accogliere con sé, almeno fino a quando non avesse trovato di che sostentarsi da sola.

Marisella aveva venduto il suo bellissimo corredo ricamato a mano a certe signorine benestanti del luogo e un pezzo di terra che era la sua dote, procurandosi con fatica l’occorrente per pagarsi il biglietto e il parroco si era coscienziosamente incaricato, una volta al corrente dei suoi progetti, di affidare quella figliola caparbia a una famigliola che si apprestava a cercare fortuna oltreoceano. Erano partiti come ladri nel cuore della notte alla volta di Napoli per imbarcarsi su quella nave dal nome sconosciuto e altisonante, i pochi tesori conservati in fagotti e valigie di fibra di poche lire.

Il suo destino non era certo quello di Nuccia, conosciuta sul battello, sposatasi per procura con un giovane del suo paese che aveva deciso di sistemarsi con una conterranea di sani principi e senza troppi grilli per la testa non appena aveva laggiù raggiunto un po’ d’agiatezza con un lavoro sicuro. Quanti sogni e quanta fiducia racchiusi in quella foto minuscola e stropicciata serbata dall’altra in petto sotto la camiciola sottile fatta a mano! Sospirò piano invidiandola suo malgrado per quel sentimento d’amore che non le era ancora dato di provare, rigirandosi tra le coperte.

Si era sempre chiesta perché nei racconti degli emigrati più fortunati, quelli che poi tornano a casa per riabbracciare i propri cari col sorriso di chi ce l’ha fatta, mancassero descrizioni della traversata. Ora ne sapeva il motivo.

Non c’era nulla di fantastico o grandioso nei pochi metri di spazio assegnati ai tanti come lei, ma un senso di profonda desolazione dissimulata dalle preghiere recitate dalle donne e dai canti di calabresi, pugliesi, napoletani mormorati a mezza bocca nei dormitori di terza classe in quelle lunghe e interminabili nottate che parevano non avere mai fine. Anche lei a volte stentava, come in quel frangente, a prendere sonno, in silenziosa percezione di quell’umanità femminile sopita che con maggiore fortuna era riuscita, stringendo una medaglietta benedetta o una cosa di famiglia, ad addormentarsi.

Eppure non era la positività a difettarle.

Quel pezzetto di destino lei se l’era conquistato a caro prezzo riversando tutte le sue aspettative in un avvenire ben diverso da quello che le avevano prospettato, ne era certa. Nel suo modesto bagaglio c’era molto di più di qualche capo di vestiario o qualche oggetto caro. C’era la sua parte migliore, quella che aveva preteso, in nome del valore che sapeva di possedere, un’attenzione in più dagli eventi: una scommessa appena abbozzata, un grido di libertà e di consapevolezza pudicamente celati ma pronti a venir fuori al momento opportuno. Sarebbe diventata una bambinaia o un’operaia, o forse avrebbe alla fine ceduto alla tentazione di una comoda sistemazione da massaia, ancora non lo sapeva. Cosciente di aver voluto giocare una partita assai rischiosa ma rifiutandosi di intaccare, con altro atteggiamento, quel rispetto per se stessa conquistato barcamenandosi tra le avversità della vita con ammirevole fermezza.

Sotto il cuscino informe della cuccetta cercò febbrile un sacchetto odoroso di spigo, uno di quelli mescolati da sua madre alla biancheria, stesa ad asciugare nelle giornate di sole e vento sull’ erba verdissima e ripiegata ancora fragrante di aria e di natura sino al prossimo uso. Pensò alla serica delicatezza dei fiori del suo terrazzo augurandosi che sopravvivessero al lungo e deliberato abbandono grazie alle cure sollecite della  vicina di casa e allo scialle ricamato di seta di S. Leucio, ricordo di sua madre, riposto con cura tra le sue cose più preziose. Aveva deciso di drappeggiarselo sulle spalle il primo giorno che fosse sbarcata in quel porto straniero avamposto della sua nuova vita. Sentiva che le avrebbe portato fortuna, impregnato com’era della dolcezza dei suoi giorni migliori e della sua storia familiare.

Desiderò di poter camminare anche per pochi istanti su uno dei ponti superiori alla luce della luna e con la brezza marina dispettosamente intenta a scompigliarle la crocchia di capelli castani accuratamente composta e a intrecciare i fili della frangia dello scialle di pesante lana marrone che la difendeva dalla nebbia e dai rigori climatici della stagione, ma decise di aspettare l’indomani. Preferiva non abbandonare il dormitorio femminile in piena notte senza compagnia e quel coraggio che l’aveva fortemente connotata negli ultimi mesi stava iniziando a scarseggiare dopo le dure prove di quell’interminabile viaggio. Con uno sforzo di volontà aveva deciso di accantonarlo tutto per ciò che, l’aveva appreso a bordo dai racconti di altre donne che “sapevano”, l’attendeva di lì a presso, una volta sbarcata documenti alla mano ad Ellis Island; stringendo ancora una volta i denti di fronte a quel nuovo ed esoso prezzo da pagare per giorni a venire migliori dopo notti faticose punteggiate di stelle minuscole e lontane, talvolta troppo difficili da scorgere.

Con delicatezza fece un altro piccolo nodo, il nono, lungo il sottile cordone di cotone del sacchetto di spigo marcando, con quel gesto quotidiano, il tempo per accorciare, se possibile, i tanti istanti che ancora la separavano da quel nuovo sentiero già profilato all’orizzonte.

Socchiudendo gli occhi desiderosi di riposo si abbandonò al beccheggio appena accennato della nave seguendo l’onda dei respiri ora lievi ora pesanti delle sue compagne. Sapeva che cedendo alla stanchezza sarebbe andata incontro a un continuo di immagini vivide e poi sfocate, di pensieri compiuti o appena delineati, di realtà e fantasia, consapevole tuttavia che ciò ora le avrebbe dato meno turbamento.

Sulla folla impazzita dei tanti perché avrebbe prevalso la sua coscienza avvolta da un delicato e beneaugurante profumo di lavanda libera alla fine dai chiaroscuri complicatissimi dei “se” e dei “ma”.

Di questo si sarebbe d’ora in avanti armata, questo a figli e nipoti avrebbe tramandato, giurò.

Comare Tonia finì di sgranare il rosario baciandone con antica abitudine la croce benedetta prima di metterlo via. Poi sbirciò la ragazza finalmente addormentata conscia di quanta forza si celasse in quell’esile  corpo fortificato e abbellito prematuramente dal dolore. Chissà quanto ancora le sarebbe toccato in sorte, immaginò pensosa. Ma ce l’avrebbe fatta, concluse, e scaramanticamente si segnò.

Per omnia sæcula sæculorum.

Amen. *

Lucia Guida

* “ Ballata di una notte di plenilunio “ in  A.A.V.V., 2010, Pensieri in Viaggio, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo

photo by Immagini dal mondo

Viaggio

In una conversazione di qualche tempo fa mi è stato fatto notare come a volte la poesia, più della prosa, risponda all’esigenza di tirare fuori quello che continua a macerarci dentro. Ho pensato, allora, di proporvi in questo post un mio componimento in versi la cui unica pretesa è quella di ricordare una persona cara scomparsa pochi giorni fa, celebrando con lei la generosità di una precoce e mite giornata di febbraio che l’ha amorevolmente salutata nel suo ultimo giorno terreno.

Buona lettura

Viaggio 

Non è piacere

ma  amorevole nostalgia

condita, forse, con un pizzico

di malinconia piana

salutarti, oggi, in questa giornata

che è tripudio di primavera

precoce e bellissima.

Beffarda e per certi versi

irridente,

ma così speciale

nei mandorli in fiore,

nel verde minuto,tenue

e pieno di speranza

dei campi seminati a grano,

nel paesaggio cristallino degradante verso il piano.

Nitido e sincero Febbraio

generoso a offrirti doni e primizie di Natura

in quest’ultimo giorno di congedo

dagli affanni terreni.

Andata via nel giorno dell’Amore,

Carmena,

tu che hai amato un solo uomo

e non l’hai mai avuto,

vivendo con gioia e preoccupazione

riflesse la maternità

per il tramite

di figli di carne e sangue

dei tuoi fratelli e delle tue sorelle.

Un atto di clemenza estremo,

quello del Tempo degli uomini e di Dio,

farti accarezzare da raggi di sole

sorprendentemente  

tiepidi, avvolgenti,

nel giorno del compleanno

di tua madre.

Appena un attimo prima

del gelo eterno,

infinito;

lasciandoci qui, stupiti e inteneriti

dal ricordo dolente e pacato

di questo bel pomeriggio

di sole invernale.

Lucia Guida

“Paesaggio del Gargano”, Photo by Forum Natura Mediterraneo

La collana di conchiglie

“La collana di conchiglie” è il secondo e ultimo racconto parte, con “Un mercoledì perfetto”, del volume di A.A.V.V Il cuore delle donne, a cura di RosaAnna Pironti presentato nel mio precedente post. Racconta a voce alta i pensieri di Maria e le azioni di Romina, la sua nipotina, còlti sommessamente in un’afosa giornata estiva trascorsa in riva al mare. Entrambe le protagoniste sono impegnate a infilare gesti e riflessioni come, appunto, conchiglie assemblate con cura certosina da mani bambine in un gioco senza tempo. In quest’ottica pacata tutto, anche il più piccolo particolare, assume un senso  certo, per alcuni versi rassicurante anche se mai rinunciatario.

Buona lettura

La collana di conchiglie

Era un ciottolo di mare color ambra lambito senza sosta e con dolcezza dall’acqua cristallina di quel mare senza età. La bimba smise di dondolare il secchiello arancio posandolo sulla sabbia umida della battigia e si chinò a raccoglierlo. Venato d’iridescente com’era a lei sembrava quasi magico. Il sasso fu scelto finendo  assieme a conchiglie di varia dimensione e foggia, rametti di legno contorti e bizzarri, fili d’alga avvolti da un velo di sabbia e acqua marina in quell’accogliente scrigno ambulante. Un ricco bottino di cui andare fiera una volta a casa, a testimonianza di una giornata proficua tra la brezza fresca e salmastra e ombrelloni azzurri sventolanti e ombrosi.

Maria sollevò lo sguardo dal libro seguendo indulgente le gesta della bimba concentrata in quel lavoro certosino.

“ Amare un nipote è amare un figlio proprio “ si disse. Quella piccola, figlia di sua sorella, arrivata d’ottobre dopo un parto difficile tra mille ansie, aveva da sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Manifestato con le tante piccole attenzioni con cui amava circondarla: un gioco, un libro a colori, una collanina acquistati per lei accanto al necessario per i propri ragazzi. Sospirò sommessamente. I suoi figli erano al momento lontani, in vacanza con il loro padre muniti di tutto, anche del superfluo. Consegnati a lui con un sorriso e con rigoroso senso del dovere come le toccava, ma anche con segreto rimpianto. Due settimane in cui la loro casa versava in un silenzio e un ordine innaturali non aspettando altro che di rivestirsi con il giubbino di Marta insolentemente gettato per traverso sullo schienale del divano in sala o i Topolino di Matteo disseminati dappertutto a marcare il territorio.

Quell’anno aveva avuto, durante la loro assenza, il privilegio di potersi occupare di Romina. Aveva costruito con lei castelli di sabbia abbelliti con tutto ciò che le onde avevano deciso di riportare a riva, secondo uno schema tramandato di generazione in generazione da sua madre a lei e a sua sorella, ai suoi ragazzi ed infine a quello scricciolo biondo e vivace di cinque anni. Ritrovando il gusto di narrare storie di bimbe dal nome stranamente assonante a quello della piccola tiranna, sdraiata con lei sul lettone, occhi semichiusi e capelli morbidi dall’odore di piume, prossima al sonno e decisa a sfuggirlo in ogni modo in una lotta vana dall’esito certo che culminava immancabilmente in un respiro rapido e regolare nella penombra accogliente della stanza. Erano state giornate trascorse ideando giochi nuovi per soddisfare la vanità di quella donnina attraverso monili di conchiglie infilate una ad una o di pratoline tenute insieme da sottili fili d’erba raccolte con dovizia ed entusiasmo nel parco e poi disposte ordinatamente su una panchina per poter essere intrecciate.

Erano, quelli, momenti in cui il trillo del cellulare perdeva d’importanza diventando ricordo di una quotidianità sospesa nel tempo; ricomparendo, però, in serata per riannodare i contatti con i suoi figli, impegnati in giorni di vacanza vissuti con entusiasmo in un’estate ormai agli sgoccioli che di lì a poco avrebbe ceduto il passo alla scuola, a risvegli frettolosi, al calcio ed alle lezioni di danza, a cento altri impegni programmati e altrettanti  gioie, crucci, soddisfazioni, frustrazioni  di adolescenti in crescita.

Ripensò fugacemente al periodo in cui entrambi i suoi figli, immersi nel liquido amniotico del suo grembo, avevano rappresentato per lei e per il loro padre un infinito mondo di progettualità futura, i loro guizzi di pensiero accompagnati dai movimenti lenti e regolari di quegli esserini felici di nuotare in un acquario confortevole e tiepido. C’era stato un tempo recente in cui aveva desiderato, accanto a un altro uomo di cui si era inaspettatamente innamorata, di mettere nuovamente in cantiere un’altra piccola vita. Ma il miracolo non si era compiuto. Col senno di poi era arrivata a ringraziare il destino per non averle permesso di concretizzare quel tenerissimo sogno. Chiuse gli occhi per il riverbero del sole. Ogni volta che riandava a quello che avrebbe potuto essere e che tuttavia non era stato si sentiva come una farfalla stanca di volare consapevole del lungo cammino che l’aspetta ancora.

Una manina gentile ma decisa la riportò alla realtà tirando un lembo di ciniglia azzurra del suo telo.
“ La collana, zia “.

“ Dopo pranzo, amore mio” le promise, chiudendo gli occhi al sole.

Il patio era un’oasi di frescura nel pomeriggio assolato. Di spalle alla brezza che soffiava dalla collina sul frinire delle cicale, Maria cominciò la sua opera di infilatura, costantemente monitorata dalla nipote che si trastullava con i suoi gingilli pulendoli con cura e sistemandoli per terra uno dopo l’altro come bravi soldati pronti per essere ispezionati. Una conchiglia bianca, una rigata, una bluastra; media, piccola, grande. “Questa è da scartare, non è forata a sufficienza”, le suggerì, rendendole meccanicamente quello che la bimba si era invece affrettata a porgerle.

Romina si fermò, incerta. Non sapeva come rimediare a quell’intoppo imprevisto. Ma fu solo un istante.  Con prontezza affiancò il ciottolo ambra e iridescente del mattino al guscio di madreperla scartato e tutto, finalmente, ebbe nuovamente un senso.

“Stanno bene insieme”, annunciò felice.

Poi continuò, serissima e coscienziosa, a catalogare le sue gioie.  *

Lucia Guida

* “La collana di conchiglie” in A.A.V.V., 2012, Il cuore delle donne, raccolta di racconti di autori vari a cura di RosaAnna Pironti Editore – Stampa Lulu.com 

“Bucket Brigade children on the beach” by Kay Crain

Un mercoledì perfetto

Può capitare che la realtà non sia come la si dipinge e la vicenda di Maya e Michele non fa in tal senso eccezione. Una quotidianità insoddisfacente, tuttavia, non impedisce di sognare, credere e, perché no?, sperare in qualcosa di diverso, di migliore.

“Un mercoledì perfetto” è la mia proposta di lettura per voi di oggi ed è parte di una raccolta di racconti intitolata “Il cuore delle donne”, pubblicata da RosaAnna Pironti editore nel  2012

Buona lettura

 

 

Un mercoledì perfetto

Era bello perdersi nei suoi baci. Sapevano di miele, di nutella e di meringa. Di innocenti peccati di gola soddisfatti. Di dolcezza appagata che richiede tuttavia altra dolcezza senza averne mai abbastanza. Maya si fuse in quell’abbraccio respirando l’odore di maschio giovane a piene nari con un piccolo sospiro di beatitudine. Se quella non era la Felicità le assomigliava parecchio. Michele  ricambiò l’ abbraccio della ragazza, solleticandole l’ incarnato chiarissimo con l’ accenno di barba che gli era cresciuto nottetempo e che non aveva avuto il tempo di regolare perché lei quella mattina l’ aveva chiamato all’ improvviso per proporgli quella gita fuori porta in quella dimora antica e fiabesca circondata da tanto verde  e da giardini curatissimi multicolori, i viali sterminati ombreggiati da alberi secolari e violati da pochissimi visitatori in quel giorno di settembre lavorativo per molti ma non per lui. Quando aveva comunicato al suo titolare che per quel mercoledì non si sarebbe recato al magazzino, lui così preciso e ligio al lavoro come pochi, ne aveva ricevuto come risposta lo stupefatto silenzio dell’altro, non abituato a simili defezioni. Non da lui, almeno. E soprattutto non in quel periodo di lavoro convulso in cui molti erano gli ordini da evadere dopo la lunga pausa estiva. Michele aveva farfugliato di recuperi e di ore extra di servizio, pregando per quella giornata di riposo come se si trattasse di vita o di morte e al suo capo, sia pure con estrema riluttanza, non era rimasto che accordargliela a mezza bocca, mentre il “grazie” sincero del giovane rimaneva a mezz’aria troncato dalla fine rapida di quella strampalata conversazione al cellulare.

– Stai bene?

Lei gli sorrise con quel sorriso un po’ sfumato e malinconico che tanto l’aveva colpito al loro primo incontro e annuì lentamente.

– Sto bene.

Poi si tuffò con foga in un’altra parentesi di tenerezze rubate, pretese, ostentate protette dalla riservatezza di quel gazebo in pietra un po’ nascosto dal sentiero principale che tanto avrebbe potuto narrare e che fornì con discrezione a entrambi protezione sino all’ ora di pranzo. Quando lei con un sorriso questa volta più ampio, si scusò per lo stomaco che brontolava e sciogliendosi dalla sua stretta vigorosa si protese verso lo zaino costoso attingendone dei panini minuscoli, da prima colazione, spalmati di burro e marmellata e porgendogliene un paio perché lui se ne servisse. Michele si stiracchiò brevemente poi ne addentò uno bramoso, scoprendo stupefatto di avere fame sul serio, prima di rincorrere con la bocca sul viso, sul braccio e sulla scollatura di lei minuscole briciole dorate in un nuovo gioco a cui lei non si sottrasse, guardandolo con serietà con i suoi occhi scuri quasi a inghiottirlo nelle loro profondità.

Si erano conosciuti davvero per caso. Michele rientrava a casa dopo una serata faticosissima com’era sempre prima della pausa di ferragosto. Il magazzino straripava di consegne da effettuare in un paio di giorni cercando di non scontentare nessuno, nel rispetto delle varie priorità. Quelle ore di straordinario non l’avevano sconvolto più del dovuto; a casa da lui non c’era nessuno che lo aspettasse a quell’ora tarda e sua sorella con marito e figli era partita per Ostia ospite dei suoceri, lasciando il frigo ben rifornito e subissandolo al solito di raccomandazioni a cui lui avrebbe cercato di attenersi, riuscendovi solo in parte. Uno scroscio di pioggia più violento l’aveva costretto a ripararsi sotto quella pensilina di autobus col suo motorino, ancora troppo lontano da casa, deciso, nonostante la stanchezza che lo attanagliava, di non arrivarci fradicio sino al midollo. Scoprendo che qualcun altro aveva avuto la sua stessa idea, ben riparato in un angolo in attesa di un mezzo pubblico che tardava a passare. Una ragazza biondissima in minigonna, i lunghi capelli incollati al viso dal trucco sbavato, ipotizzò, da quell’ inatteso temporale. Lei aveva avuto un  istintivo moto di paura ed era visibilmente trasalita mentre lui smetteva di fissarla e si scostava quel tanto che bastasse per farle riprendere fiato e farle realizzare che da lui non c’era proprio nulla da temere. Non era tipo da ragazze di buona famiglia né queste si erano mai mostrate interessate a tipi come lui, capelli lunghi raccolti in un codino per sfida e per comodità. Di ragazze ne aveva avute un discreto numero: commesse, un paio di impiegate e una volta perfino una studentessa di legge patita di politica e di sesso in egual misura. A un tuono più forte degli altri seguito a breve da un fulmine caduto certamente nelle vicinanze la sconosciuta gli si era visibilmente avvicinata e avevano iniziato a scambiarsi qualche battuta, aspettando con pazienza che quel finimondo terminasse e quando ciò era accaduto le aveva offerto di riaccompagnarla a casa, lasciandola riflettere per qualche istante mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore prima di accettare. Dal bauletto lui aveva tirato fuori un casco a forma di scodella e gliel’aveva passato e lei l’aveva indossato su quello sfacelo di pettinatura e di trucco, montando dietro di lui e avvinghiandosi    al suo torace con forza insospettabile. L’ aveva lasciata davanti a un caseggiato lungo come un treno a Cinecittà, in mano un bigliettino in cui era riuscito a scribacchiare di velocità il suo numero di cellulare. Poi era sparito nella notte afosa e odorosa di pioggia e di ozono quasi certo che non l’avrebbe più rivista.

E invece le cose erano andate diversamente e a ferragosto lui aveva ricevuto una chiamata schermata a cui aveva risposto. Era lei, voleva ringraziarlo ancora per quella sera di pioggia, augurargli buone ferie e chiedergli, incredibile, di mangiare un gelato insieme al Pincio l’indomani pomeriggio.

Lui aveva accettato e aveva fatto carte false per rientrare a Roma senza che sua sorella esagerasse la sua iperprotettività chiedendogli di restare con loro ancora per qualche giorno. All’appuntamento, tra frotte di turisti accaldati e stanchi pronti a contendersi le poche panchine ombreggiate, lei gli si era presentata in forma perfetta,shorts delavé, trucco leggero impeccabile e borsina di tendenza, capelli biondi in ordine perfetto sparsi a raggiera sul top di marca minimal chic. Avevano mangiato quel famoso gelato e parlato di cose così. Poi quando le ombre avevano cominciato a fare capolino tra le chiome degli alberi di pino gli aveva annunciato che era ora di andare. Non aveva chiesto un passaggio col motorino e lui non aveva insistito, accontentandosi di averla rivista e sperando di poterlo fare ancora. Si erano incontrati nuovamente, a orari insoliti di mattina o nel primo pomeriggio, mai di sera, senza che lui chiedesse per questo spiegazioni e senza che lei gliele offrisse volontariamente. Sino a quella proposta di trascorrere un’ intera giornata insieme fuori porta, in quella villa romana antica che lui aveva visitato con insofferenza da studente delle medie con la sua classe, focalizzando la propria attenzione sulla partita di pallone  con i suoi compagni che certamente ci sarebbe stata piuttosto che sulle complesse spiegazioni e sui tanti approfondimenti della prof di Arte, innamoratissima di quella dimora imperiale e altrettanto desiderosa di istillare nelle loro menti l’ amore per il Bello e il Grande.

Farsi prestare la vecchia utilitaria di sua sorella privandola di un mezzo per le incombenze quotidiane era stata impresa non facile, quasi quanto chiedere al suo datore di lavoro di accordargli quel giorno extra di riposo promettendo mari e monti per il successivo fine settimana. Aveva troppa voglia di stringerla tra le braccia senza timore di consultare di continuo l’orologio. Forse si era anche un po’ innamorato di lei.

Dopo quel pasto inusuale decisero di confondersi con una comitiva di visitatori    scoprendosi con stupore più che interessati alla perfezione di quel tripudio di arte offerta loro a piene mani. Dopo lunghe contrattazioni con un ambulante Michele le comprò un piccolo cameo che riproduceva il profilo di una matrona romana e lei gli regalò un accendino celebrativo di quella gita di fine estate insperata. Prima di riprendere la vecchia Uno dall’interno profumato di arbre magique al limone e impelagarsi nel traffico intenso fatto di file e file di autovetture di ritorno verso la metropoli.   Una volta giunti a Tiburtina restarono ancora per un bel pezzo nell’abitacolo a scambiarsi coccole e baci, perdendosi negli occhi l’ uno dell’ altra sino a quando lei con decisione non spalancò la portiera cigolante e baciandolo per l’ ultima volta con desiderio non sparì tra la moltitudine brulicante della stazione, desiderosa di prendere la metro il prima possibile.

Michele restò li per qualche istante, indeciso sul da farsi sino a quando qualcosa gli scattò dentro e lo costrinse a uscire come un forsennato dall’auto per cercare di raggiungerla, la sua immagine e il suo odore ancora stampati indelebilmente su di sé. Appena in tempo per infilarsi sul medesimo treno anche se in carrozze differenti. A Trionfale stette quasi per perderla di vista, uscendo per una frazione di secondo dal vagone prima che il mezzo con un sibilo di ammonimento non riprendesse la propria marcia, tra le proteste di due globetrotters stranieri, a cui aveva sbarrato il passo impedendone la salita. Maya continuò a camminare sicura, quasi trafelata, consultando spesso il minuscolo orologio a braccialetto sino a quando dopo un lungo labirinto di scale mobili non riemerse in superficie. Mai le venne in mente di voltarsi a guardare per vedere se qualcuno la seguiva. Era quasi fuori tempo massimo e fece gli ultimi metri che la conducevano a un portone imponente arricchito da un batacchio di bronzo lucidissimo quasi di corsa, entrandovi prima che con solerzia il portiere chiudesse l’accesso a quell’ androne patrizio con deferente sollecitudine. A Michele non restò che oltrepassarlo sbirciando impotente le etichette in stile liberty sulla pomposa piastra citofonica cercando di indovinare quale fosse il suo cognome. Di lei sapeva pochissimo. Sapeva che le piaceva da matti il gelato di fragola e panna e che quando qualche pensiero fastidioso la tormentava aveva il vezzo di arrotolare tra pollice e indice una ciocca di capelli finissimi. Che i suoi baci erano semplicemente fantastici e che tra di loro c’era quella sottile alchimia che rende speciale ed esclusivo un rapporto tra persone di sesso diverso. Quell’indirizzo era l’informazione più sostanziosa di lei che aveva, contribuendo a dare concretezza a un’immagine mentale che di lei si era pian piano delineata nel suo cuore giovane e ardente. Temporeggiando indeciso per una manciata di minuti stabilì che per il momento se la sarebbe fatta bastare e a capo chino andò via, non senza prima guardare verso l’alto nella speranza inconfessabile di poterla sbirciare per l’ultima volta alla fine di quella giornata perfetta.

Maya restò a lungo sotto la doccia tiepida e rigenerante, lavandosi con dolcezza e con struggimento, ben decisa a far sparire qualsiasi traccia lui le avesse inconsapevolmente lasciato addosso. Poi, infilato l’accappatoio di soffice spugna bianca si aggrappò al lavandino guardando senza vedere la propria immagine riflessa attraverso il velo di vapore che aveva di fronte. Un paio di braccia forti le strinsero la vita mentre una mano maschile nodosa l’accarezzava al di sotto dell’indumento. Lei chiuse gli occhi imponendosi di non fiatare, pregando silenziosamente che tutto finisse velocemente. L’ altro prese con ingordigia e prepotenza da lei tutto quello che poteva fino a quando non ne ebbe abbastanza, poi la costrinse a guardarlo immobilizzandole il viso con una mano mentre con l’altra le cingeva entrambi i polsi sottili schiacciandoli contro la superficie fredda e impassibile del rivestimento di marmo della stanza. Alla fine restò sola in una nuvola di vapore in cui raffinate essenze profumate si mescolavano ai residui odorosi e al ricordo dei loro due corpi schiacciati con violenza l’uno contro l’altro. Con un brivido leggero fece un’altra doccia cercando di non pensare a quel presente, aggrappandosi con tutta la forza che le restava a un pensiero in quell’istante troppo lontano, irraggiungibile.

Vestita di tutto punto in un abito cortissimo che la modellava come una seconda pelle fece il suo ingresso in salotto, i capelli raccolti in un sofisticato chignon e il trucco impegnato a farla più adulta e disinibita. Lui le porse un drink poi le prese una mano e la mise in quella del suo amico. Lei lo guardò appena, scorgendone la calvizie pronunciata e la fronte imperlata di sudore, una camicia bianca chiazzata sino all’inverosimile per l’emozione e l’eccitazione di vederla così disponibile e così giovane. Una bambina travestita da donna. Una primizia da assaggiare senza remore o sensi di colpa. D’altronde era il suo mestiere e lei non era nuova a simili appuntamenti di lavoro. Poggiandole con senso di possesso una mano su una natica la spinse di là, incoraggiato dallo sguardo complice del suo protettore, ben pronto a sfruttare con larghezza tutto ciò che aveva lautamente pagato in anticipo.

Oltrepassata la porta Maya esibì un sorriso di circostanza e lentamente indossò una maschera di impenetrabilità. Sarebbe sopravvissuta, come sempre. E tutto come sempre avrebbe avuto una fine. Magari, questa volta, aveva una ragione di vita in più per pensare al domani. Una ragione concretizzata nella figura di quel ragazzo magro e allampanato, avaro di sorrisi ma non di tenerezze che di lei aveva un’immagine a tinte pastello. Che di lei possedeva la parte migliore, quella più vera e più nascosta. Una parte che gridava   sommessamente ma a gran voce di venire finalmente allo scoperto e di affermare la propria esistenza. E chissà che un giorno non ce l’avrebbe fatta ad avere il sopravvento. Sognare non costa nulla, si disse. Poi con lentezza poggiò un foulard sulla sommità dell’abat-jour acceso e cominciò a spogliarsi.

Lucia Guida

 

* “Un mercoledì perfetto” in A.A.V.V., 2012, Il cuore delle donne, raccolta di racconti di autori vari a cura di RosaAnna Pironti Editore – Stampa Lulu.com 

 

“Sewing woman”,  E. Hopper

 

Casa di bambola

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immagine di apertura di Antica Stamperia Aurora

Chi di noi non ha desiderato da bambini un giocattolo a lungo e disperatamente? Scrivendo, magari, una lettera a Babbo Natale o adoperandosi per ottenerlo con qualsiasi mezzo? In “Casa di bambola” ho colto a pretesto questa situazione per dare corpo al desiderio segreto di Mina, bimba di qualche tempo fa, ai suoi sogni e alla sua quotidianità infantile.

“Casa di bambola” è uno dei 24 racconti racchiusi nell’antologia “Ricordi di giocattoli” a cura di Federica Gnomo, scrittrice e blogger versatile. L’antologia contiene una bella intervista a Luciano Dreoni, titolare dell’omonima catena di negozi di giocattoli; per volere di noi tutti l’intero importo derivante dalla vendita del libro sarà devoluto all’associazione Veronica Sacchi (AVS) di Milano

Casa di bambola 

Avvolto con cura in una carta blu notte cosparsa di stelline luminose c’era quel dono tanto agognato da Mina. Mani invisibili l’avevano poggiato alla base dell’albero di natale in plastica verde, adorno di addobbi multicolori, fili argentati e dorati e lucine intermittenti riflessi nel vetro lucido e scuro della portafinestra della sala da pranzo di casa. Babbo Natale aveva mantenuto la promessa, ne era certa; e quell’enorme involucro non poteva che celare la “Casa di bambola” occhieggiata per tutto l’autunno nella vetrina del giocattolaio e libraio amico di famiglia e padrone di un negozietto senza pretese nel centro storico del suo paese. Innamorarsene e poi fantasticare sull’uso che ne avrebbe fatto, se quel giocattolo fosse mai diventato suo, era stata la forma di riscatto più tangibile per i tanti accompagni a cui si era assoggettata con cadenza quotidiana sino a poco tempo prima: alle interminabili e noiose conversazioni di suo padre col suo amico storico farcite di politica e letteratura, al freddo e al sentore di umidità trasudante da quel negozietto antico tramandato di generazione in generazione che nel corso di mezzo secolo aveva conosciuto pochissimi mutamenti rispetto all’assetto originario. Allo sguardo di malcelata sopportazione dell’unica commessa, limetta alla mano, seduta in cassa nella noiosa attesa dei pochi  clienti,  nel guardarla sfogliare con intraprendenza e avidità le pagine dei libri ben impilati sparsi un po’ dappertutto per ingannare il tempo indefinito delle  discussioni paterne condite dall’atmosfera fumosa delle tante sigarette divorate nell’arco di una serata. Tutto fino alla folgorazione che l’aveva colta nell’attimo in cui, in un pomeriggio piovoso di metà ottobre, aveva scorto in bella mostra in vetrina quella monumentale casa di bambola in miniatura sciogliendosi in adorazione come mai  in passato le era capitato al cospetto di un oggetto che non fosse uno dei suoi amatissimi libri. “Alle cose non bisogna mai affezionarsi”, aveva più di una volta sentenziato stoicamente suo padre. E lei con diligenza, sino a quell’attimo di innamoramento matto e disperato, aveva cercato di tener fede a quel precetto, chiudendosi occhi e orecchie di fronte a qualsiasi frivolezza infantile. Sino al fatidico istante in cui, tuttavia, la tentazione era diventata troppo forte per potervi far fronte con la determinazione e l’austerità di sempre. La commessa aveva intercettato sorniona il suo interesse e, una volta tanto, non si era premurata di contrariarlo, piazzando  il giocattolo strategicamente al centro dell’unica esposizione che dava in piazza, perché chiunque di passaggio potesse averne ampia e completa visione. Quell’abile mossa l’aveva, da principio, crucciata non poco e Mina, con gelosia a stento repressa, aveva più di una volta temuto che un papà o una mamma più intraprendenti dei suoi potessero decidere di comprarlo per una bambina altrettanto desiderosa di giocarci e di immaginarci un mondo intero dentro.

Ma per una strana e favorevole circostanza ciò non era avvenuto e lei, col procedere dei giorni,  aveva continuato a rimirarne con un certo compiacimento l’imponenza dietro quel  vetro ora rigato dalla pioggia ora appannato dalla condensa per poi finire sotto le feste contornato da luminosi campanellini beneauguranti, da un minuscolo Babbo Natale e da un’infinità di piccole cianfrusaglie natalizie che non ne avevano sminuito lo splendore, impreziosendolo oltre misura. L’attesa di quel regalo  si era rivelata più spasmodica  e sofferente che mai e Mina aveva raddoppiato il suo impegno nel comportarsi bene perché quel sogno potesse finalmente diventare realtà. Aveva regolarmente svolto i compiti assegnati dalle maestre, aiutato la mamma al bisogno, tamponato con insolita disponibilità e pazienza le intemperanze e la capricciosità dei suoi fratellini. Si era perfino messa di buona lena a ricavare uno spazio  tutto suo nella cameretta che condivideva con loro tra l’armadio e il muro, una sorta di porto franco in cui poter sistemare il suo minuscolo quartierino immaginando una vita spensierata, finalmente colorata a tinte pastello.

Venire a sapere che non c’erano abbastanza soldi per comprare ciò che considerava già di sua esclusiva proprietà da una conversazione notturna dei suoi genitori l’aveva inizialmente gettata in uno stato di profonda prostrazione, ma non si era tuttavia persa d’animo. Il giorno successivo era andata dai nonni materni e con insolita audacia per una bambina riservata come lei, gliene aveva parlato con così tanto entusiasmo da farsi venire le lacrime agli occhi. I due anziani si erano guardati l’un l’altra senza commentare, ma qualcosa doveva essere accaduto perché un paio di sere dopo la cassiera l’aveva squadrata con maggior indulgenza e con una complicità inusitata che l’avevano stupita e, suo malgrado, toccata nel profondo in modo inspiegabile.

Rimirando per l’ultima volta l’oggetto del suo desiderio Mina chiuse la porta a vetri del salone e tornò a nanna. Se Babbo Natale aveva fatto il suo dovere, premiandola per l’impegno considerevole da lei profuso nell’impresa, c’erano ancora speranze in un avvenire diverso, migliore.

Si trastullò nel dormiveglia immaginando di abitare realmente la minuscola sala da pranzo apparecchiandone la tavola con solennità come la nonna nei giorni di festa. Di aprire con slancio le finestre della sua cameretta, una stanza tutta per lei, interamente colorata di indaco. Il fatto che in quella casa di pupe ogni stanza avesse pareti colorate differentemente la faceva pensare a un arcobaleno spuntato sorprendentemente dal nulla in una giornata di cupo grigiore invernale.

Ai gemelli poteva andar comoda la stanzetta nel sottotetto; così avrebbero potuto fare le loro diavolerie senza troppo danno. Ma forse era il caso di sistemarli di fianco alla cucina. No, lì avrebbero potuto trovare posto soltanto i nonni; a pianterreno, per evitare di fare le scale, e per lei non sarebbe più stato necessario chiedere il permesso per poterli andare a trovare dopo la scuola, cercando di non essere intercettata dal cipiglio di suo padre, spesso nervoso e irascibile con tutti, da sempre avaro di sorrisi e di carezze, di parole incoraggianti. A lui e alla mamma aveva riservato la stanza più sontuosa, quella con l’enorme letto a baldacchino, la copertina rosa di seta artificiale profilata con una frangia che a toccarla ( e a lei era capitato di farlo spessissimo, di nascosto, quando la cassiera s’intratteneva fuori dal negozio col suo moroso ! ) sembrava di essere in paradiso.

Probabilmente in una camera bella e accogliente come quella avrebbero anche smesso di litigare e a lei non sarebbe più toccato di rassicurare i gemelli nottetempo, svegliati dal fragore delle loro voci alterate e dalle tante parole dure e pesanti come macigni palleggiate vicendevolmente con colpevole leggerezza. Il poco denaro e i lavoretti precari di suo padre, i conti della spesa da saldare. Un affitto in perenne ritardo da onorare, richiesto dal padrone di casa con implacabile puntualità a ogni primo del mese. Sua madre che si disperava di continuo ma che alla fine  faceva magie in casa e con tutti loro. I vestitini smessi ereditati da una cuginetta che non le piacevano per niente, tutti fronzoli e pizzi, e che doveva indossare con paziente arrendevolezza perché questi erano gli accordi tra la mamma e la zia felice di dare così una mano. Chissà, magari in quella casetta accogliente e confortevole avrebbe potuto esserci spazio anche per la cuccia minuscola di un bastardino da adottare e accudire con amore. L’avrebbe tenuto lontano da Marco e Matteo, beninteso, capaci di far saltare i nervi a chiunque, animali ed esseri umani, con la loro vivacità sempre eccessiva. E poi sarebbe stato bello ogni tanto organizzare una vera festa di compleanno con i suoi compagni di scuola più affezionati. Pochi in realtà. Una bambina silenziosa come lei, vestita come una bambola cresciuta troppo e in fretta, attirava poca simpatia. Con un sospiro chiuse gli occhi e attese che il sonno l’avvolgesse pian piano incrementando le energie per ciò che finalmente l’indomani l’attendeva: scartare con impazienza dissimulata quell’enorme pacco e poi difenderlo a caro prezzo dagli assalti inopportuni dei piccoli di famiglia.

Al momento la cosa importante era che la sua “Casa di bambola”, illuminata dagli sprazzi intermittenti di luminosità tenue e colorata, fosse lì sotto l’albero solo per lei.

A quel pensiero Mina si rasserenò, cullata dal respiro pesante dei suoi fratelli, la casa immersa in un’insolita quiete.

“ Magari potesse essere sempre così “, mormorò a mezza bocca, quasi in un soffio, con un sorriso stemperato dal buio profondo della notte; prima di andar finalmente via, lontano, in un mondo di sogni sospesi nell’attimo fugace delle sue speranze lievi di bambina sensibile.

Lucia Guida *

* “Casa di bambola” in A.A.V.V., Ricordi di giocattoli, Viterbo, 2013

Per info e ordini: fedegnomo@gmail.com

 

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Alla fine del 2013

E’ un dicembre dolce e pacato quest’ultima finestra sul 2013.

Chiude un anno variegato e bizzarro, in cui ho potuto fare il punto di tante situazioni, professionali ed extraprofessionali. Tanta consapevolezza in più ma anche tanta gratitudine verso i molti eventi che lo hanno caratterizzato in positivo.

Per la scrittura, coltivata ancora come hobby accanto al mio lavoro full time di docente, dicembre mi ha portato belle novità e piccole ma importanti gratificazioni.

Ho partecipato per la seconda volta alla XII edizione di Più Libri Più Liberi, fiera della piccola e media editoria romana, contribuendo alla tavola rotonda “Amori e tradimenti. Quante letture?” organizzata da Nulla Die, la mia casa editrice. Per me e per le personagge dei miei scritti un vero e proprio invito a nozze.

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Il mio racconto “Destini” si è classificato al III posto al Premio Letterario “Le streghe di Montecchio” 2013; verrà pubblicato assieme agli altri due testi vincitori nel 2014 da Fefè Editore  e presentato nella cornice suggestiva di un evento patrocinato dal Comune e dalla Provincia di Viterbo.          A “Destini” sono molto legata: è la mia unica prova a oggi esistente di racconto lungo  (superiore alle 30.000 battute ) e una vera e propria chicca per una come me, scrittoriamente stringata  fino all’osso.

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Con alcuni amici virtuali scrittori c’è un progetto bellissimo , un’antologia di racconti incentrata sul ricordo di un giocattolo della nostra infanzia che mi ha coinvolta sin dall’inizio. Un piacevolissimo intermezzo scrittorio per ricordare ( e ricordarci! ) che c’è sempre posto per “odore e sapore di bimbo” nel nostro cuore. L’antologia è curata da Federica Gnomo Twins,  scrittrice e blogger assai versatile. L’immagine che posto qui di seguito è molto evocativa. Se faremo in tempo, sotto l’albero di molti, quest’anno, ci saranno piacevoli novità.

I giocattoli raccontano

Venerdì 13 dicembre, giorno per me speciale da una vita perché giorno del mio onomastico, presenterò per l’ultima volta in questo 2013 il mio bel “Pergolato” presso l’Emporio Primo Vere di Pescara. Se siete in zona siete i benvenuti!

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 Per il resto noi non mettiamo limiti alla provvidenza …

Un caro saluto a tutti e a rileggerci presto, magari con uno dei miei racconti brevi

La Bellezza non svanirà

Arriva un momento nella vita in cui siamo costretti a fare i conti con ciò che siamo anche grazie a ciò che abbiamo, sino a quell’istante, fatto. Arrivando a sfrondare, per necessità o virtù, la nostra esistenza di tutti quegli orpelli che l’avevano appesantita impedendoci di volare.

“La Bellezza non svanirà” è un racconto breve scritto da me in occasione della I Notte Bianca del Museo  delle Lettere d’Amore di Torrevecchia Teatina (CH), evento patrocinato dal predetto comune e dalla casa editrice Noubs, celebrata venerdì 25 ottobre 2013 nel Palazzo Ducale dell’omonima cittadina. Narra i pensieri e le riflessioni fugaci di una donna colpita da una malattia invalidante che ne ha drasticamente ridotta l’autonomia. Nella bolla senza tempo che l’ha racchiusa non c’è più posto per il superfluo; resta soltanto la grande ricchezza di vivere una dimensione temporale rinnovata e arricchita di piccoli gesti e immagini. Significativa e altrettanto pregnante perché avvolta da una quotidianità  a poco a poco ri-conquistata a caro prezzo, carpendo con tenacia l’attimo.

Buona lettura

La Bellezza non svanirà

 

To see a World in a grain of sand
And a Heaven in a wild flower
Hold Infinity in the palm of your hand
And Eternity in an hour

Scorgere il mondo intero in un granello di sabbia

E il Paradiso in un fiore selvaggio

Tenere nel palmo della mano l’Infinito

E l’Eternità in un’ora

William Blake, Auguries of Innocence

E’ una bella giornata di primavera, la prima di quest’anno. Azzurro il cielo tra mare all’orizzonte e monti ancora candidi di neve alla mia destra. Una rondine  (pensavo non arrivassero più!) e una cornacchia dal piumaggio nero, lucente si contendono il tetto della casa che ho di fronte. Stamattina mi è sembrato di udire anche il richiamo rauco di un gabbiano e ho ricordato lo scintillio del mare, l’odore del salmastro e la dolcezza sommessa della risacca: io da bambina, secchiello in mano a ricercare tesori, e poi ragazza cresciuta e madre seduta a riva su un telo morbido a vigilare sui miei beni preziosi, i miei figli piccini. Indaffarati a riportarmi pezzi di gioielleria barbarica marina come io un tempo con mia madre: conchiglie, ciottoli, pezzi di vetro trasparente levigati dalle onde.

I giorni dell’ora posseggono, per me, una dolcezza sommessa, discreta e appagante al medesimo istante. Ora so apprezzare grata le volute di calore che si sprigionano pian piano verso l’alto dalla mia tisana ai frutti rossi, poggiata per me da mani invisibili su un tavolo al centro di quest’isola galleggiante di serenità che è il mio attimo fuggente. Nell’attesa che si stemperi un po’ prima che io possa sorseggiarla piano.

Il tempo del mio adesso mi avvolge lentamente prima di lasciarmi al mio destino, per niente indispettito dalla mia arrendevolezza, per dirigersi altrove: alla volta di chi lo farà fruttare diversamente, se lo litigherà, lo rincorrerà, senza avere la possibilità di afferrarne un istante finendo col maledirlo, forse, con astio.

Nel luogo in cui io e la mia mente siamo ora non c’è bisogno di algoritmi cronologici scanditi con rigore e regolarità di cui noi non sentiamo affatto la mancanza.

Ora posso accarezzare con sguardo rapito o distratto la morbidezza sinuosa di un fiore senza che nessuno mi osservi con riprovazione; ricordando la pelle morbida del mio primo e unico amore e il suo profumo discreto di maschia vigoria, unito a quello femminile della mia essenza di donna, compiuti in un abbraccio senza eguali prima, durante e dopo l’amore.

Ci sono frammenti di vita vissuta che non si dimenticano, soprattutto se è il cuore a riportarli a galla, sconfiggendo a tavolino la proterva fallacia di una memoria deplorevolmente inefficace, traditrice.

Ed è sempre il cuore, battito dopo battito, a cancellare pietosamente sofferenze e incomprensioni antiche, trasformando in oro lucente ciò che della nostra umanità si ostina a sopravvivere. Similmente al dorso di una foglia in autunno, già orlata di giallo sfumato nel marrone, eppure così rigogliosa in quelle venature centrali di un verde tenue e ancora caparbio. Un verde che grida a gran voce “Speranza!”, e che agogna a essere ascoltato.

Guardare a particolari minuti di rara bellezza contenuti in una quotidianità dilatata ed evanescente è pretendere, con tutte le forze che mi restano, che un po’ di eternità possa resistere a questa malattia che, passo dopo passo, mi condanna a perdere identità e unicità di persona, allontanandomi dall’affetto di coloro che hanno contato nella mia vita e che per me sono, adesso, simili a sagome indistinte in una nebbia senza fine, senza ritorno.

Serendipità, per me, oggi, è ritrovarmi in una stanza luminosa, seduta nella mia poltrona preferita. Trattenendo ben stretti nel palmo della mano pochi e leggeri granelli di sabbia prima che la brezza incostante di questo tempo, ora di tiepido autunno, domani d’inverno rapace, li liberi e li porti con sé via lontano.

Pensando che la Bellezza non potrà mai svanire. Se solo uno sguardo e il gesto di una mano stanca, ancorati ostinatamente e sorprendentemente alla vita, riusciranno a trattenerne un briciolo infinitesimale, luminoso e prezioso.

Lucia Guida

Immagine

photo by Andrea Vaccari