Il ricordo d’infanzia

“ Il ricordo è un poco di eternità. “

A. Porchia

Il mio primo ricordo risale, credo, a un paio d’anni di vita. Mi rivedo distesa in posizione supina sul letto dei miei genitori in un’atmosfera sfocata, probabilmente pomeridiana ed estiva, avvolta dal biancore di un lenzuolo e da suoni e rumori provenienti dall’esterno, alcuni dei quali già per me riconoscibili.

Gli anni vanno avanti con disinvoltura chiedendomi a gran voce di strutturare la mia quotidianità in modo più o meno consapevole e le memorie di un tempo si affievoliscono fin quasi a scomparire, sostituite da atteggiamenti concreti e vissuti molto più seducenti. Il fascino un po’ fané del passato contrapposto a quello brillante del presente  ha poco mordente per un’adolescente, è risaputo.

Ci sono, tuttavia, cose che non si liquidano con facilità nel bene e nel male e non è detto che ciò non possa, alla fine, rivelarsi una specie di fortuna, specialmente se a prevalere sono quei flashback infantili permeati da una certa serenità.

L’idea di Giulio Mozzi e del suo “Ricordo d’infanzia” è stata per me un’occasione unica per rispolverare ad hoc, lo confesso, e con autentico piacere qualcuna di queste chicche. Certamente la mia è stata una scelta di parte, privilegiando immagini a tinte pastello tra i tanti tasselli di coloritura diversa che costellano i miei quarantasette anni. Credo, però, di avere comunque pagato, per questo, già pegno; guardare retrospettivamente con una certa indulgenza alle cose passate significa in certo qual senso averle accettate. Tanto da provare a trasformarle in parole pensanti con un po’ di fortuna e un briciolo di inventiva. Racconti e storie da narrare ad altri in assoluta libertà e con una certa leggerezza.

Se avete voglia di condividere con noi quest’esperienza scrittoria questo è il primo post di “Ricordo d’infanzia”  sul blog di Giulio Mozzi e questa la pagina dei ricordi concreti di alcuni di noi.

Il “Ricordo”, infine, parteciperà alla fiera della piccola editoria “Più libri più liberi”, venerdì 7 dicembre 2012.

Ricordi d’infanzia: un’estate al mare

Vasto (CH), agosto 1966

Lettera d’Amore

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A chi non è mai capitato, nel periodo del massimo innamoramento, di non scrivere un bigliettino d’amore, telefonare con passione o, ancor meglio, fermare  con compiutezza maggiore su un pezzo di carta emozioni e sensazioni per dar voce concreta a quello che sentiva? Magari scrivendo pagine poi cestinate, mai giunte all’oggetto dei propri desideri.

Alle missive d’amore d’autore le edizioni Noubs hanno dedicato un concorso letterario internazionale, quest’anno giunto alla XII edizione, e un vero e proprio Museo Internazionale della Lettera d’Amore ospitato a Palazzo Valignani a Torrevecchia Teatina (CH).

Quest’anno la manifestazione si è arricchita di un nuovo evento, quello dell’inaugurazione di una sala e un parco in onore di Giovanni Paolo II il 16 ottobre 2012; occasione celebrata con concerti di musica classica e bandistici,  letture di lettere d’amore d’autore e uno speciale annullo filatelico commemorativo della giornata.

Tra i lavori letti al pubblico dei numerosi visitatori accorsi c’era anche il mio testo, rigorosamente in stile epistolare, inviato all’omonimo concorso qualche anno fa dietro suggerimento della mia amica scrittrice Grazia d’Altilia.

Decidendo di ambientarla in un’atmosfera un po’ rétro, in piena seconda guerra mondiale, ho immaginato di narrare  le speranze e le incertezze racchiuse in una notte d’estate nutrite da Giovanna per suo marito Mario partito per il fronte, cercando di riprodurre, per quanto in mio potere, immagini e soluzioni linguistiche d’epoca.

Un esperimento letterario a cui sono molto affezionata e un atto d’amore per due persone, i miei nonni materni, che da sempre occupano un posto esclusivo nel mio cuore.

 

Caro Mario,

sei partito ormai da più di  un mese e mi manchi tantissimo.

Ti abbiamo accompagnato alla stazione io e i ragazzi, in una giornata  di caldo intenso, immersi nel viavai di tanti come te in uniforme grigio-verde in partenza per il fronte, tra un pianto di madre e il bacio di due fidanzati. Mi rivedo come in una pellicola da cinematografo: Marida compresa nel ruolo di figlia maggiore, appena nove anni e già tante responsabilità, Gabriele serioso nel suo completo  giacca e calzoncini corti da ometto, diviso tra il dispiacere per te che vai via e l’interesse per quella locomotiva sbuffante. La piccola Anna, attaccata alle mie gonne, timida, con un grande fiocco bianco per traverso tra i capelli biondi e mossi. Tu, il loro babbo, che parte per andare a far la guerra, di prima stanza a Milano. E io, col cuore che mi batte segretamente all’impazzata, che resto sola qui nella nostra  casa.

Poi un abbraccio forte e tu che sali sul vagone di terza classe. E noi che ti salutiamo sforzandoci di sorriderti.

Qui in paese la vita scorre con i ritmi di sempre. Le scuole sono chiuse per Regio Decreto e io continuo il mio lavoro da maestra in  casa, affollando il tavolo del tinello di alunni che mi pagano con provviste e grano che vado a prendere nascondendoli nella vecchia carrozzina dei ragazzi sotto una copertina di lana ricamata.

I nostri figli stanno bene; anche Annuccia ha imparato a distinguere l’allarme della contraerei e sa che deve prepararsi con sveltezza al suono della sirena per scendere nel rifugio. Ieri, alle prime avvisaglie di un nuovo bombardamento aereo, mi si è avvinghiata al collo lamentandosi per il forte mal di pancia. Sono scesa giù per le scale con lei ancora in braccio reggendo la valigetta dei pochi gioielli di famiglia, preceduta da Marida che teneva, su mia richiesta e per mano, Gabriele.

I ragazzi  avevano, come di consueto, indossato più di un indumento per evitare di portare eccessivi fagotti con sé.

Ti sto scrivendo alla luce di una lampadina azzurrata ben mimetizzata dalla pesante tenda di panno scuro che evita che anche un solo raggio di luce filtri all’esterno. L’estate è ormai nel pieno. Non appena terminata questa lettera proverò ad aprire il battente della portafinestra per respirare la fresca aria notturna, lasciando che i suoni e le voci smorzate dal coprifuoco mi arrivino gentili. Tua madre mi ha insegnato con un rito antico a trarre auspici dalle invocazioni dei rari passanti. Lo farò senz’altro stanotte, aspetto da molto che il portalettere mi consegni tue notizie e il mio cuore è stretto nella morsa dell’incertezza.

Nei giorni a venire giungeranno i tuoi genitori, tuo fratello e tua sorella e questa casa che non ode da tempo la tua voce si riempirà di quella dei tuoi familiari. La loro casa non esiste più a seguito dei pesanti bombardamenti e ciò li ha trasformati in sfollati senza più fissa dimora. Confido nella Provvidenza e spero di saper bene amministrare il poco che abbiamo perché basti per tutti.

Ma il mio cruccio più grande, marito mio, è il non averti più con me a condividere da fratello, padre, amico, amante  le piccole quotidianità, la crescita dei nostri figli, le molte preoccupazioni e le poche soddisfazioni di questi tempi difficili in cui il senso delle cose, anche di quelle più semplici, sembra smarrito. Mi manca l’impronta del tuo capo nel cuscino che è accanto a me e l’odore penetrante della tua ultima sigaretta che   segnava ogni sera l’approssimarsi del sonno.    

Mi mancano i tuoi abbracci e i tuoi baci e il nostro stare insieme. E quel tuo essere burbero per mimetizzare la tua vera natura di buono che tanto timore incuteva nei tuoi allievi ma che non mi ha mai incantata perché io so che il tuo cuore è tenero come l’amore di padre che tu nutri per i nostri ragazzi.

Spero che  questa lettera possa raggiungerti presto.

Con la mia grande speranza per molti e lunghi anni da vivere ancora insieme e tutto quello che di me stessa posso ancora offrirti.

                                                                                           Tua

                                                                                      Giovanna 

S. S., … agosto 1942

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Cortile interno del Palazzo Ducale Valignani di Torrevecchia Teatina (CH)

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Io e la mia “Lettera d’Amore”

Andar per fiere – due buoni motivi per farlo

ConTestiDiversi  è una Fiera della Piccola e Media Editoria alla seconda edizione, quest’anno ospitata, nelle giornate del 5 e 6 ottobre, dal comune di Labico (RM), parte del Sistema Bibliotecario dei Monti Prenestini. In quest’occasione ho avuto il piacere di incontrare finalmente de visu Vera Ambra, consulente editoriale di Akkuaria, Associazione di Web-Promozione artistico-culturale in Internet, da me conosciuta in occasione della IV edizione Premio Letterario “Fortunato Pasqualino” nel settembre 2011. Assieme ad altri autori selezionati nel corso di varie edizioni del predetto contest letterario, ho  tenuto a battesimo “Oro e Argento”, Piccola Enciclopedia di Autori Contemporanei “, nuovissimo progetto editoriale di Akkuaria a oggi composto da cinque volumi incentrati ciascuno su tematiche differenti. Nel volume “I volti delle donne” il mio racconto breve “Dagherrotipi emotivi”, storia della conversazione immaginaria di una bimba di pochi giorni con sua madre.

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L’aspetto positivo di eventi come questo risiede nell’ottima opera di propaganda e pubblicizzazione live delle opere presentate e nel poter condividere con gli autori e il pubblico di lettori presente esperienze scrittorie diverse. Io ne ho approfittato per parlare delle infinite potenzialità del racconto breve, ingiustamente ed erroneamente per lungo tempo considerato un genere letterario minore e, per tale ragione, snobbato dalla grande editoria   se non per proporre opere di autori già affermati. Il discorso, in realtà, è molto più complesso di quanto non si pensi; se, infatti, è risaputo come molte case editrici preferiscano non investire in pubblicazioni di racconti puntando su opere letterarie più corpose come il romanzo o il saggio, è altrettanto palese come la stesura di un buon racconto richieda una certa dose di abilità narrativa. Nel romanzo l’autore può tranquillamente giocare al rilancio grazie alla progressione in capitoli colmando eventuali lacune o defaillance narrative nel prosieguo della storia. La stessa cosa non si può dire del racconto; se quest’ultimo manca di incisività non ci si potrà avvalere di recuperi in differita. E continuando a parlare di racconti e romanzi e delle differenze tra gli uni e gli altri, l’immagine che più mi viene a mente è quella da me usata nell’intervista rilasciata a Tommaso Maria Lovato in cui paragonavo il romanzo a un film e il racconto breve a una scena dello stesso; considerando come sicuramente a ciascuno di noi sia capitato, almeno per una volta, di aver assistito a proiezioni filmiche deludenti conservando, viceversa, il ricordo nitido di  sequenze cinematografiche particolarmente incisive.

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photo by cartoonstock.com

La scrittura resta comunque un gran piacere e un atto creativo di grande importanza  da qualsiasi prospettiva lo si voglia inquadrare. E la lettura, seconda ma non per questo ultima, un atto dovuto  a noi stessi e una passione che aiuta a crescere. Da continuare a coltivare con sistematicità nella nostra quotidianità più spicciola come addetti ai lavori e semplici spettatori, a dieci come a novant’anni.

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ConTestiDiversi, 6 ottobre 2012. Palazzo Giuliani a Labico

Come crochi tra la neve

La Biblioteca Civica Popolare “L. Ricca ” di Codogno (LO) ha sede nell’ex Ospedale Soavi di via Gandolfi, un pregevole edificio risalente alla fine del 700 fulcro delle iniziative culturali promosse localmente. Da ben dieci anni ospita l’edizione del premio nazionale di narrativa intitolato alla scrittrice Anna Vertua Gentile. Una delle finalità del premio, è quella, condivisibilissima, di promuovere ad ampio spettro la lettura di pari passo con la scrittura attraverso un contest che sin dalle prime edizioni è stato di richiamo forte per autori esordienti e affermati.

“Come crochi tra la neve” è un mio racconto breve presentato alla IX edizione dell’ “Anna Vertua Gentile”, classificatosi al II posto per la categoria adulti. La vicenda, ambientata nel secondo dopoguerra, è la storia di un bambino, Luigi, e del suo desiderio forte di “ (…) ricomporre una normalità perduta “ in seguito alla morte di suo padre e allo stravolgimento del proprio microcosmo familiare originatosi da questa perdita affettiva.

 

 

COME CROCHI TRA LA NEVE

 

Luigi aprì gli occhi piano, ancora frastornato e caldo di sonno. Era sicuro di non aver immaginato quel dondolio leggero e la voce di sua madre che gli raccomandava, prima di recarsi al lavoro, di badare a Nina. Fuori il cielo era uniformemente grigio, tanto da non far presagire niente di buono. Sarebbe stata un’altra giornata d’inverno uggiosa e fredda cui far fronte, a cavallo tra Capodanno ed Epifania. Una giornata senza scuola ma anche senza gioia e allegria. Erano tempi difficili, quelli. Duri soprattutto per un bambino di dieci anni come lui. Ripensò velocemente all’emozione del film che lui e Peppe erano riusciti a vedere, intrufolandosi con uno stratagemma nella sala del cinematografo del paese, senza che la maschera, un omone con tanto di baffi neri a forma di manubrio, riuscisse a scorgerli e ad impedire che il misfatto fosse perpetrato. Il difficile era stato, comunque, guadagnare l’uscita e lì avevano dovuto giocare nuovamente d’astuzia e mescolarsi al flusso degli spettatori paganti, sperando che lui non badasse a loro, come poi fortunatamente era stato. Il film parlava di cowboys e pistoleri e di inseguimenti in praterie rigogliose e sterminate; di ladri di cavalli prontamente acciuffati da sceriffi ardimentosi che riuscivano a ristabilire ordine e giustizia con azioni avventurose ed eroico coraggio. Luigi vi si era immedesimato così tanto da evitare per un pelo, e grazie alla provvidenziale gomitata di Peppe, nascondendosi solo all’ ultimo momento sotto la fila di sedili di legno, il controllo incrociato del proprietario della sala, insospettito da quella straordinaria affluenza non giustificata da un incasso decisamente contenuto.

Sospirò piano e con estremo sacrificio decise che era ora di alzarsi sul serio, spinto anche dal languorino che cominciava a solleticargli lo stomaco. La cucina era fredda e poco illuminata dalla portafinestra di vetro schermata da pesanti tendine di filo. La mamma aveva lasciato nella madia per lui e per Nina del pane e del formaggio, il loro pranzo per oggi, e per prima colazione un pentolino di latte incoperchiato sul tavolo di legno lucido. Luigi lo toccò cautamente per verificare se era ancora tiepido ma arricciò il naso quando si accorse dello spesso strato di panna che lo ricopriva. La panna era una cosa che davvero non sopportava, viscida e molle in bocca, decisamente disgustosa. Sospirando nuovamente e con infinita pazienza cominciò con poca fortuna a pescarla col cucchiaio, sicuro che Nina avrebbe, come al solito, fatto storie. La mamma non gli permetteva di mettere in funzione la cucina a legna quando lei non c’era. “Non sei grande abbastanza,“ aveva sentenziato il giorno in cui lui, stanco di dover consumare cibo troppo caldo o viceversa troppo freddo, le aveva espresso quel desiderio. Per loro avrebbe potuto essere troppo pericoloso, aveva aggiunto, soffocando sul nascere qualsiasi altra sua rimostranza e da allora non se n’era più parlato. Troppo piccolo, si era ripetuto lui dispiaciuto. Non si occupava, forse, quotidianamente di sua sorella Nina di sette anni quando la mamma era a servizio in casa del dottore dal mattino presto a sera inoltrata, suo orario solito di rientro? Accompagnandola a scuola o facendole compagnia tutto il giorno a casa tranne che per le rare volte in cui qualche vicina dall’animo sensibile non decideva di tenerla con sé concedendogli pochi attimi di spensieratezza? A volte i grandi erano davvero ingiusti, ingiusti e incoerenti.

“ Luigi, ho fame … “, esordì Nina raggiungendolo a piedi nudi e arrampicandosi una sedia impagliata, aspettando fiduciosa la sua parte. E lui l’accontentò, bravo tanto da non versare neanche un goccio di quel liquido prezioso, spingendo verso di lei due fettine di pane ammassato in casa. Tutto filò liscio come l’olio perché la bimba quel giorno non protestò come al solito, ma terminò senza indugio quella semplicissima colazione per poi dedicarsi alle pulizie personali. Da una brocca di ceramica fiorata versò con infinita precisione un po’ d’ acqua nel bacile lavandosi scrupolosamente con un pezzo di sapone di marsiglia. Non era come le saponette al profumo di rosa che Rita, figlia del sarto e sua compagna di scuola, le aveva mostrato permettendole di annusarle voluttuosamente, ma tanto bastava.

“ Ahi “, si lasciò scappare infastidita, quando Luigi le pettinò con forza eccessiva una ciocca di capelli, annunciandogli con sussiego che avrebbe terminato da sé. E così fu. Entrambi perfettamente vestiti, la cameretta e la camera opportunamente riordinate, le poche stoviglie rigovernate con cura e l’ acqua utilizzata per tali scopi riversata in un secchio sotto l’ acquaio; sarebbe servita per l’orto o per altro. Il pavimento spazzato con diligenza estrema per eliminare inesistenti granelli di polvere. La mamma voleva facessero così. Finalmente ciascuno dei due era libero di dedicarsi a ciò che più gli aggradava.

Nina afferrò la sua bambola di pezza e si buttò addosso una giacchetta di lana fatta ai ferri recipitandosi in cortile dove Giulia e Francesca erano già da tempo impegnate a saltare su una campana tracciata con un pezzetto di gesso. A Luigi non restò che seguirla; aveva avuto tassativo ordine di non perderla mai di vista e così fece, accontentandosi di veder sfilare per la viuzza del centro cittadino frotte di ragazzini liberi da impegni e ben felici di scorrazzare per il borgo mettendo a repentaglio la vetrina di qualche negozietto con un calcio al pallone più poderoso degli altri. Sospirò nuovamente, poi si disse che non aveva senso essere troppo tristi e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da fare. Intanto Nina aveva cambiato occupazione, e dopo aver impegnato le altre a fare scuola con le pupe e a giocare a “mamma e figlia” si era seduta accanto ad un’anziana vicina, sull’uscio della casa di quest’ ultima, intenta a confezionare col tombolo preziose trine per qualche nipote in procinto di sposarsi, seguendone affascinata il rapido movimento delle mani. La bimba, interessata, chiese timidamente se era una cosa troppo difficile, accaparrandosi un sorriso della vecchina che le promise di insegnarle presto qualcosa.

“ Luigi !”, il bambino si volse di scatto, riconoscendo la voce del suo amico più caro e smettendo di levigare col coltellino quel rametto che nel suo intento avrebbe dovuto trasformarsi in bastone o canna da pesca.

“ Com’è che non vai a giocare anche tu?”, gli chiese curioso e segretamente contento di quel mal comune che in quell’ occasione prometteva di diventare per lui mezzo gaudio. L’altro lo guardò corrucciato.

“Sono in punizione per l’altra sera”, spiegò. La sera prima, quella della proiezione a sbafo. Lui era riuscito a farla completamente franca perché al suo ritorno la mamma e Nina, trattenute in casa del dottor Corvelli per faccende dell’ultim’ora non erano ancora rientrate, ma l’altro non c’era riuscito, attirandosi le ire furibonde di padre e madre, già in tavola per la cena e infastiditi dal prolungarsi della sua assenza.

Luigi guardò di sfuggita l’altro sentendosi vagamente colpevole per quanto gli aveva procurato ma Peppe non era ragazzo capace di restare a lungo col broncio. Aveva un carattere aperto e socievole e una notevole capacità di sdrammatizzare anche eventi tragici come quello di una mancata escursione al fiume con gli altri compagni. Fece quindi spallucce seguite da un “Che si fa?” che la diceva lunga sulla sua personale capacità di reinventarsi nuove situazioni di gioco anche col poco a disposizione che aveva.

Luigi gettò uno sguardo su Nina, impegnata a pasticciare con ago e filo con le sue compagne accanto alla nonnina, poi tirò fuori con fare misterioso una grossa chiave di ferro brunito da una tasca.

“ Vieni con me”, lo invitò con simulata indifferenza e tutti e due imboccarono il vicoletto attiguo, quello in cui una volta si apriva la botteguccia da ciabattino di suo padre. La serratura rispose senza indugio alle sollecitazioni del bambino, segno tangibile di una cura costante che mal si spiegava con il disuso in cui il locale versava da qualche anno a seguito della morte dell’ uomo, disperso nella campagna di Russia.

L’atmosfera era la stessa di un tempo, quella in cui l’ ambiente era immerso accogliendo clienti alla ricerca di un qualcosa in più che non consistesse soltanto nell’acquisto o la riparazione di calzature consumate da un uso massiccio. Nicola era anche dispensatore di saggi consigli e ottimo scrivano per tutti quelli che, povera gente come lui, avevano all’estero o in guerra parenti lontani. Luigi sorrise al ricordo dell’intensa frequentazione che lo aveva animato, sentendosi a proprio agio nel calore e nella familiarità dei pochi e semplici arredi che lo costituivano; da quando, piccino, e muovendo i primi passi aveva spesso affiancato suo padre, basco scuro e panciotto, avvolto in un pesante grembiulone per parare macchie d’unto e di colla. Peppe rimase a bocca aperta; non sapeva di quel rifugio segreto, Luigi non gliene aveva mai parlato. Ma la cosa che lo lasciò davvero attonito fu, non appena la sua vista si adeguò alla poca luce che filtrava attraverso le pesanti imposte lasciate semichiuse per non destar troppi sospetti nei passanti, notare quello che qualcuno aveva apparecchiato su ciò che un tempo non lontanissimo era stato il bancone. Un presepio immenso, realizzato con cura e autentica dedizione, in cui sentierini segnati da breccia e bordure di muschio vero erano popolati da statuine inframmezzate da rametti di sempreverde e pezzi di roccia a simulare boschi e paesi. Toccò le montagne e con stupore si accorse che erano fatte di pezzi di morbida pelle e brandelli di cuoio, rinforzati internamente da cartone e stracci reperiti chissà come.

“ L’hai fatto tu ?” chiese, ma la sua era una domanda inutile di cui già sapeva la risposta.

Luigi annuì in silenzio profondamente orgoglioso della sua opera. Restarono ancora per qualche attimo a rimirarla, prodighi l’uno di domande e l’altro di risposte sulle modalità di realizzazione di quella singolare Natività. Poi, in silenzio e quasi con reverenzialità si chiusero piano i battenti alle spalle e, tornati nel vicino cortile, decisero di dare quattro calci a una palla tra le proteste indignate delle bambine distolte dalle loro cose dalla concitazione del loro gioco e poco propense a lasciare campo libero. La giornata passò in tal modo tra scaramucce e rivendicazioni di vario genere, pendendo vicendevolmente dall’ una o dall’ altra parte.

Rachele entrò in casa scrollandosi di dosso il ricordo delle fatiche di quella giornata interminabile. L’indomani a casa dei suoi datori di lavoro si sarebbe celebrata in pompa magna un’Epifania senza precedenti. Il dottore e sua moglie avrebbero infatti festeggiato il fidanzamento della loro figlia maggiore con il suo fidanzato storico, un giovane ingegnere miracolosamente scampato al conflitto a cui pure suo marito aveva partecipato seppure con minore fortuna. Oramai da mesi in quella casa di signori non si parlava d’altro. Ogni angolo era stato tirato a lucido con meticolosità, il menu da servire ai numerosi ospiti architettato con cura senza lasciar niente al caso né tantomeno badare a spese. Sarebbe stato l’evento della stagione, una chiusura in bellezza di festività natalizie celebrate in verità sotto tono ma pur sempre segnale tangibile di vita che riprendeva pian piano similmente allo spuntare dei crochi tra pezzi di roccia e sprazzi di neve ghiacciata in montagna a primavera. Respirò profondamente quasi a farsi forza, preparandosi a salutare con una certa serenità i suoi bambini e li trovò già pronti per andare a letto ma in attesa della cena. Le provviste che la cuoca aveva per lei messo da parte, i resti di un timballo e delle patate al forno, finirono in un baleno, onorati con solennità. Mentre, stanchissima e in camicia da notte, riattizzava il fuoco nel braciere, ascoltò paziente i loro racconti su come avevano trascorso quella giornata, guardando con tutta l’attenzione di cui era capace la piccola stella di tombolo mostratale da sua figlia, fiera di quel nuovo gingillo. Luigi, insolitamente silenzioso, fu quella sera di poca compagnia e spesso le parve assorto in pensieri in cui lei sentiva, con una piccola stretta al cuore, di non avere accesso. Si disse a mo’ di consolazione che gli sarebbe passata presto, prendendo a rimboccare come di consueto a entrambi le coperte. Poi, seduta su una sedia aspettò che si addormentassero, prima di finire anche lei quella giornata che era stata più lunga e più difficile del solito da gestire in termini di fatica fisica e mentale. A un tratto la giacca di Luigi scivolò dal letto producendo per terra un rumore che lei non riconobbe e che l’incuriosì. Con meraviglia scoprì quella chiave sul pavimento quasi ai suoi piedi e, mentre la raccoglieva, si accorse che il bordo della coperta malcelava un involto di carta accuratamente confezionato. Con crescente sgomento lo aprì tirandone fuori il contenuto: l’effigie dei tre Magi, comperati dal bimbo, ipotizzò, con qualche soldino ricevuto a Natale.

In un attimo si gettò addosso uno scialle decidendo di compiere un’operazione che sino ad allora non era stata in grado di portare a compimento. Da casa sua al vicolo il passo fu breve e ancor meno richiese l’apertura del sottano.

Con sguardo dolente socchiuso al fioco riverbero di una lampadina appannata dalla polvere di mesi e mesi accarezzò ogni frammento di quello che un tempo e sino alla sua partenza senza ritorno, era stato regno esclusivo di suo marito: il suo negozio, la sua vita; scorgendo, con un tuffo al cuore, quel presepe minuziosamente allestito con amore da mano inesperta per rinnovare una tradizione, quella del suo Nicola, che era stata in passato celebrazione festosa per tutti loro.

Ripensò anche alla richiesta accorata di Luigi di poterlo fare in casa, da lei caparbiamente negata anche per quell’anno. Serrando fermamente le palpebre non pianse una lacrima e andò via piano, muta.

Quel mattino a Luigi sembrò che la mamma lo avesse salutato prima di uscire con tenerezza particolare. Si preparò stoicamente ad un’ altra giornata in solitudine con Nina con l’unica consolazione che per quel giorno avrebbero avuto compagnia in anticipo, non appena la donna avesse terminato di servire il pranzo, per gentile concessione dei suoi datori di lavoro.

Il cielo, per il tramite di un raggio di luce incolore, gli trasmise la stessa indecisione del giorno precedente ma lui non vi badò e si tirò su come di consueto, pronto a recarsi di là per assolvere ai suoi doveri di fratello e figlio maggiore.

“ Nina!”, gridò a metà tra lo spavento e l’incredulità.

Ciabattando, la bambina lo raggiunse, sgranando, a sua volta gli occhioni neri.

Sul tavolo, in cucina, due calzette di lana grossa facevano bella mostra di sé accanto al solito pentolino. Inspiegabilmente e come da tempo più non avveniva, la Befana si era nuovamente ricordata di loro recandosi nottetempo a visitarli. Con sveltezza le rovesciarono, tirandovi fuori mandarini, qualche biscotto alla cannella e delle vere caramelle, comprate in negozio e non fatte dalla mamma in casa. Sarebbe stata una colazione con i fiocchi, ricca di prelibatezze insperate. A un tratto Luigi si ricordò di qualcosa e si precipitò in camera, frugando a lungo ma invano sotto il letto. Scoprendo, sconfortato, che quello che cercava non era più al suo posto. Allora si vestì in fretta e brandendo la sua chiave scese quattro gradini per volta la scalinata che lo portava all’ aperto, correndo verso la bottega di suo padre e aprendola con decisione. Il suo presepe era lì come sempre, composto nei minimi particolari ma arricchito, quel giorno, da qualcosa di nuovo. C’erano i suoi re Magi sui loro cammelli a ridosso della capannuccia di frasche da lui intrecciata con pazienza per offrire riparo alla Madonna, San Giuseppe e il Bambino.

“ Luigi! “, si sentì chiamare da una voce nota appena velata dall’ ansia e pensò sussultando a Nina, abbandonata così di corsa e senza un’accettabile giustificazione. Distogliendo lo sguardo dalla compiutezza finalmente e miracolosamente raggiunta da quella scena, serrò nuovamente le imposte e fece rapidamente ritorno a casa, soffocato dal rimorso. La vista di sua madre per le scale gli paralizzò il passo.

“ E il lavoro?”, chiese immaginando il peggio. Lei l’ abbracciò forte.

“ Per oggi niente lavoro. A loro, oggi, non servo più “, gli spiegò con dolcezza inusitata. Senza indugiare su quel pianto liberatorio che l’aveva colta all’ improvviso davanti alla signora, sconvolta dall’improvviso cedimento di quella vedova esile e forte e da quel fiume di parole e spiegazioni concitate che erano state la stura di un dolore infinito compresso in petto e lungamente negato. Sul solidale e affettuoso abbraccio che ne era seguito e la concessione di un permesso speciale in una giornata che non poteva essere soltanto gioia esclusiva di pochi.

E, presolo per mano, salì svelta di sopra, accolta dal profumo dei mandarini appena sbucciati e da una Nina incredibilmente contenta, felice come non mai di vederla lì, assieme a loro, in quel giorno di festa come oramai da tempi lontani e immemori in casa De Girolamo non accadeva più.

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photo by 123RF

Mestiere o passione?

Postare a ritmi regolari non fa per tutti quelli che come me  possono a oggi considerare la scrittura soltanto un piacevolissimo passatempo, un arricchimento della propria vita, una sottile soddisfazione ma non il perno dell’universo intero. Chi mi conosce sa che la mia non è una posa ma un’effettiva necessità. E che fissare su un foglio di word i miei voli di fantasia è davvero una fatica immane, a cominciare dal reperire spazi e tempi idonei che non vadano a intaccare i miei mestieri di madre e docente. Forse è per questa ragione che ho lasciato che questa mia passione antica finisse nel dimenticatoio per moltissimo tempo, soffocata da esigenze più contingenti e immediate. Ma non è servito, perché come il fuoco che cova silenzioso sotto la cenere, il gran piacere dello scrivere è riaffiorato non appena la vita mi ha permesso di guardare con maggiore indulgenza alla vera me stessa, bisogni scrittori compresi.

Ieri sera ho terminato la stesura di una cosa un po’ più complessa di una silloge di racconti. E’ un romanzo che ora dovrò sottoporre a una paziente opera di labor limae prima di mandarlo per le vie del mondo e provare a pubblicarlo. Per una impatiens cronica come me la fatica in questo frangente è stata doppia. Da una parte  pensare a scrivere qualcosa che potesse interessare potenziali lettori nel mare magnum delle pubblicazioni di autori esordienti e/o emergenti; dall’altra la possibilità di intravvedere sempre a breve la parola “fine” in tutto quello che faccio. Una mera utopia, lo ammetto, e uno spigolo del mio carattere difficile da smussare. La vita mi ha insegnato che ci sono attimi dalla durata eterna e periodi lunghissimi bruciati nel breve interludio di un battito di ciglia. Il difficile sta nel ricordarsene al momento giusto cercando di tradurre la teoria in pratica reale.

La mia proposta di oggi per voi è una poesia scritta nel 2008 da vedere con semplicità come una finestra sulle sfumature e sulle pieghe nascoste del mio sentire

Buona lettura e a presto

 

Quaderno dell’anima

 

Se un giorno decidessi

di fermare

i miei pensieri peregrini

sceglierei un quaderno

piccolo, compìto, sottile.

Un quaderno discreto

per dare voce ai miei sogni,

del giusto formato

e nulla più.

Da conservare

sotto il cuscino

e da sfogliare spesso.

Lo riempirei di odori

e di profumi,

di colori  dalle mille

e più bizzarre

sfumature,

in un crescendo di sensazioni

visive, olfattive,

tattili.

Gli darei il gusto

forte e deciso

della speranza,

gridata a piena voce,

ma anche sussurrata

sommessamente

e poi

silenziosamente

taciuta.

Ma non per tema

di mostrarla, anzi:

per mantenerne sempre

impronta durevole

nel mio cuore,

serbandola

come

in un prezioso

tabernacolo.

E poi affiderei

la mia anima alla

brezza leggera

primaverile.

La mia anima

e i suoi guizzi infiniti,

pagine svolazzanti

di un piccolo quaderno

affidato a un soffio di vento

dispettoso, scherzoso,

in un giorno di marzo.

Odoroso di sole pioggia e nuvole

e alla fine

trionfo

di arcobaleno cristallino.

Lucia Guida

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photo by Jeannette Woitzik

Cercatrice di perle

La lunga notte,
il rumore dell’acqua,
dicono quel che penso

Gochiku

  “Cercatrice di perle” nasce nel 2008 dalla scoperta di alcune foto di Fosco Maraini (1912-2004) etnologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta fiorentino, di recente riproposte in una mostra retrospettiva dell’aprile di quest’anno a Firenze. Pensare a una storia da intrecciare ai bellissimi corpi sinuosi delle amah da lui ritratte è stata questione di poco. Decidere di ambientarla a Broome, nell’Australia Occidentale, una mia scelta emotiva. Per quanto mi è stato possibile ho cercato di documentarmi in merito per conferire alla storia d’amore di Nami e Frank la maggior verosimiglianza possibile. Il racconto  appartiene al mio periodo di esordio in web nel blog “Springfreesia” di Libero Community.

Cercatrice di perle

Mi chiamo Nami e sono una pescatrice di perle.

Vivo a Broome, nel Kimberley, da quando avevo sei anni. Mia madre era una amah giapponese pescatrice di awabi. Non so chi fosse mio padre. Forse un semplice pescatore o forse anch’egli un  tuffatore. Non l’ho mai conosciuto. Mia madre me ne ha parlato pochissimo e sempre con occhi fieri, combattivi. Occhi di donna che ha amato e perso irrimediabilmente la sua battaglia con l’ amore.

Della mia infanzia ricordo  poche cose. La festa della Luna Piena di Settembre, con le sue offerte di frutta e fiori  alle finestre della nostra casa  inondata dai suoi raggi, è ancora nel mio cuore e nella mia mente. L’abbiamo continuata a celebrare fin quando non siamo partite per l’Australia alla ricerca di nuova compiutezza, di vita da vivere con trasporto rinnovato, di aria indulgente e mite, di acqua rassicurante e prodiga.

Conosco il mare e al mare sono legata anche dal mio nome. Mia madre ha continuato a immergersi con me in grembo con la stessa abilità di sempre fino a poco prima di partorirmi. E da sempre ho respirato aria salmastra. I miei giocattoli conchiglie delle forme più disparate:  pezzetti di legno levigato e contorto portati dalle onde e collane verdissime e lucenti d’alga. Dal mare sono nata e di mare vivo traendone il mio sostentamento. Ho imparato ad immergermi mentre muovevo i primi passi sotto la guida attenta e amorevole di mia madre. Da sola ho appreso, invece, a trarre la mia forza e la mia serenità dal  movimento ritmico e rassicurante dei flutti.

Dal mare è arrivato l’amore con Frank e con il mare è andato via. Lui fa il marinaio e non è mai stato l’uomo di una sola donna. Ha capelli ricci e occhi nocciola. L’ha portato da me un veliero, uno dei tanti che attraccano al porto. E’ capitato l’estate in cui ho perso mia madre che di lui non ha mai saputo.

Non so se ne avrei ricevuto la benedizione.

Lei ha conservato sempre una tenace avversione per gli uomini di mare portandosi questo segreto che è insieme sottile maledizione con sé nel cimitero giapponese di Broome.

Frank mi ha notata tra la mia gente, pescatrici di perle come me e tuffatori abili e audaci. Ha seguito affascinato i movimenti lenti ed aggraziati del mio corpo snello e seminudo dal ponte del battello su cui depositavo le ostriche pescate. Si è divertito a intrecciare per gioco, dopo l’amore, fiori profumati nei miei capelli neri setosi portandomi spesso di notte sulla spiaggia di  Cable Beach, due corpi in uno sdraiati sulla sabbia fina e bianca morbida e invitante.

Non mi ha mai parlato di sentimenti né mi ha mai fatto promesse. Mi ha soltanto amata per il tempo di un’estate tiepida come solo le nostre estati sanno essere. Poi un giorno mi ha detto con semplicità che sarebbe andato via.

All’alba, nascosta tra le barche ormeggiate, ho assistito alla sua partenza stringendo forte la mia perla azzurra portafortuna. Nella mia gola un urlo silente, nel palmo della mia mano le unghie conficcate a sangue per non cedere alla tentazione di chiamarlo e supplicarlo di non partire, di restare qui con me ancora per poco, in quest’oasi lussureggiante all’ improvviso diventata per me landa deserta e arida senza più respiro.

Quel giorno non mi sono tuffata per pescare le mie ostriche; l’ho fatto per sfogare la mia rabbia e il mio dolore. Immergendomi più rapidamente del solito per mescolare le mie lacrime al sapore salato dell’acqua di questo oceano trasparente fino ad allora sempre estremamente generoso con me. Poi all’ improvviso mi sono calmata e, tornando in superficie, sono rimasta a pelo d’acqua; lasciandomi cullare a lungo da onde carezzevoli e pietose per trarne conforto come da piccola quando la mie giornate si tingevano di blu cupo e odoravano di burrasca. Ricevendo un lungo abbraccio rassicurante dall’origine delle mie albe e dei miei tramonti. Il mare mio principio e mia fine. Mia rinascita.

Anche stasera sono qui, sulla spiaggia di Cable Beach.

Ho assistito al calare del sole accarezzata dalla brezza profumata e discreta e ora celebro con stupore rinnovato il sorgere della luna piena che, luminosamente riflessa sulla superficie scura dell’ oceano, traccia la sua scalinata verso il paradiso  approfittando della benevolenza della bassa marea per congiungervisi.

Ora non ho più offerte da fare.

Sono tuttavia qui in silenziosa e fiduciosa attesa di un qualcosa che non saprei definire ma che so verrà da me, che forse è già qui con me. Con la mia perla lucente beneaugurante al collo, i capelli sciolti come fili scuri d’alga a lambire le spalle nude e un fiore scarlatto,  grande e profumato, dietro un orecchio. Un fiore che è sorriso silente nelle ombre della notte che avanzano piano.

Blandita dal suono melodioso della risacca,  riposta indulgente dell’Oceano Mio Padre alle mie tante domande inespresse e alla mia sete d’ amore.

Nami,  ottobre 1900,  Broome.

Donne del Mare, Fosco Maraini

foto di Fosco Maraini

Vite dalla finestra

Le piccole cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria mi sono sempre piaciute. Probabilmente per il senso di profonda rassicurazione offerto dalla riscoperta quotidiana di oggetti e cose appartenenti al proprio vissuto, da ciascuno di noi agito concretamente o, viceversa, conservato nei ricordi che decidiamo di salvare da una progressione temporale irriverente che spesso non concede tregua.

Questa volta la mia proposta di lettura è un racconto pubblicato sul mio blog Springfreesia della community di Libero qualche anno fa, ritratto dei primi passi da autrice di Lucia, intitolato “Il giardino interno”. Una storia di donna sfumata come ogni cosa alle prime ombre della sera

Il giardino interno

Era per tutti e da tempo immemore la signorina Teresa. Abitava in una casa del centro storico persa in un intrico di viuzze lastricate di pietra locale su cui la camminata dei  passanti rimbombava nottetempo con rumore sordo ma rassicurante; una di quelle dimore  con  portoncino a doppio battente di lucido legno stagionato dipinto, privo di campanello e che recava a una certa altezza due anelli di pesante bronzo che servivano con discrezione ad annunciare visite di parenti e conoscenti. La signorina Teresa, in realtà, non aveva intense frequentazioni. Era l’unica sopravvissuta di un’antica e benestante famiglia del luogo che aveva lentamente e progressivamente visto i propri componenti decimarsi e passare a miglior vita attraverso ben due conflitti mondiali, epidemie e sofferenze di vario tipo. Al pari di un facoltoso personaggio che vede assottigliarsi il patrimonio di famiglia, accumulato  generazione dopo generazione,  minato da tante e non sempre prevedibili difficoltà giunte in rapida successione. I suoi possedimenti, ora, erano tutti lì, in quella casa paterna che si apriva alla sommità di una scalinata stretta e  ripida dai gradini di marmo una volta candido,  in un ingresso, un tinello-sala e un cucinino al primo piano, per poi proseguire con due camerette al piano superiore. Ma la meraviglia di quella modesta sistemazione era tutta nel  giardino interno, invisibile dalla strada principale, a cui si accedeva dalla porta-finestra dell’ampio tinello-sala. Per arrivarci era necessario prendere una scaletta un po’ malmessa che costeggiava e si snodava lungo un muro interrotto da una finestra con un’ inferriata spartana, che contribuiva a fare di quello spazio chiuso a cielo aperto un luogo privilegiato dando, nel contempo,  luce al retrobottega di un locale a fronte strada occupato al momento da un artigiano con il benestare e la tacita approvazione dell’anziana gentildonna sua  proprietaria.

Nel giardino che fungeva anche da orto era concentrato il lavoro paziente e certosino di quella donna sottile dall’età indefinita: bordure di campanule, rose e gerani, un nespolo e un limone, un’acacia che si riempiva di fiori bianchi e profumatissimi in estate. E poi una piccola coltivazione di ortaggi in fondo, quasi a ridosso del muro che delimitava la proprietà e la separava da un altro caseggiato,  anch’essa in rigoglio ed esplosione di colori accesi dalla primavera fino a tutta la bella stagione. Una panchina poggiata a un altro muro con una fontanina di lì a presso e un pergolato di glicini che  assicurava l’ombra a chi avesse deciso di sostare per riempirsi la vista di verde e fioriture insperati, rifinivano l’insieme. Un tempo c’era stata anche una rampicante di bouganville ma non era sopravvissuta ai rigori di un inverno precoce e particolarmente duro per quella latitudine. Teresa non era riuscita a salvarla né aveva  voluto estirparla la primavera successiva e ciò che ne rimaneva era rimasto al posto di sempre, lungo la terza parete di quell’ incredibile  oasi cittadina.

Mariuccia, la ragazza che prestava servizio in quella casa oramai da un paio d’anni, se n’era spesso chiesta il perché; la signorina era di una meticolosità quasi maniacale nella cura di quel pezzetto di verde, eppure non aveva avuto voglia di rimpiazzarla con un po’ d’edera, altro glicine, niente da fare. Ma quella stranezza era solo una delle tante di quella figura così riservata e un po’ misteriosa. La scorsa primavera, per esempio, cercando di dar la caccia a un topolino che aveva preso a fare incursioni notturne per casa, si era imbattuta, frugando nel sottotetto, in una scatola di cartone nascosta sotto un vecchio e logoro copritavolo di gobelin dissimulata da una serie infinita di vecchie cianfrusaglie: un grammofono dalla tromba ammaccata, cornici vuote in stile veneziano, santi e madonne racchiusi in cupole di vetro e molto altro ancora.

Mariuccia non aveva temuto di riempirsi di polvere né di essere rimproverata per la sua innata curiosità e con ardimento si era messa d’impegno per liberarne la superficie che, una volta scoperchiata, aveva rivelato un contenuto inimmaginabile: un abito da sposa nuovo, nuovissimo! Avvolto in più e più strati di carta velina, a prima vista mai indossato e ingiallito  solo in alcuni punti, come se qualcuno lo avesse a lungo accarezzato, quasi con rammarico, per poi decidere a malincuore ma con ragionevolezza estrema di abbandonarlo a un indefinito periodo di oblio.

La vita della signorina Teresa ruotava tutta lì, tra i poveri della parrocchia, le lezioni di piano che impartiva a pochi ma diligenti allievi e il  giardinaggio. Pochissima vita sociale al di là delle due messe giornaliere, quella mattutina e quella vespertina, e qualche tè con due o tre amiche di vecchia data, sue compagne di gioventù.  Mariuccia non riusciva a credere come la sua padrona non si scollasse dal suo nido nemmeno per una passeggiata in piazza nella ricorrenza del Santo Patrono.  E si che a lei piaceva! Come le piaceva scorazzare in sella alla Lambretta del suo fidanzato, andare con lui al luna park e godere dei fuochi pirotecnici allestiti di notte in periferia sotto il cielo sereno e stellato di maggio! Un peccato che la signorina si ostinasse a tenere le persiane delle  camere che davano sulla via principale ostinatamente chiuse, anche al passaggio della Madonna in processione! A quel suo pensiero espresso incautamente ad alta voce  Teresa aveva replicato bruscamente e con così tanta foga da farle venire le lacrime agli occhi zittendola per il resto della giornata. A testa bassa aveva finito le faccende e portato a termine la spesa in drogheria. Ma all’indomani, al termine del lavoro, si era vista consegnare dall’anziana donna un fagotto accuratamente confezionato.

“ E’ per te  “, le aveva detto con la sua espressione di sempre, appena addolcita da un cipiglio meno austero del solito, “ fanne quello che vuoi ”. Lei aveva ringraziato brevemente ed era andata via. Una volta in strada, però, non aveva resistito alla tentazione di disfare l’involto scoprendo che era un abito di seta, di vera seta!, color malva, bellissimo ed etereo: avrebbe chiesto a sua madre di accomodarlo per la festa del paese oramai imminente. Lei e il suo Tonino sarebbero stata la coppia più ammirata, già se lo immaginava! E canticchiando a mezza voce una melodia festivaliera trasmessa a gran volume da una radio poco lontano si era allontanata un po’ più rinfrancata.

Ben celata dietro una tendina di pizzo all’uncinetto della finestra di una delle camere superiori Teresa aveva  sbirciato, seppur parzialmente, la scena. La ragazza bruna che scartava con curiosità il pacchetto, la sua espressione stupita e contenta, il suo passo leggero sui lastroni di pietra irregolare della stradina tortuosa.

Da un cassettino poco in vista del Secretaire di radica della sua camera da letto, monastica ed essenziale, aveva poi tirato fuori un pacco di lettere legate da un nastro e altrettante fotografie. Alla ricerca di quella un po’ logora che la ritraeva, giovane e con i capelli corti al vento, in sorridente compagnia di un bell’ ufficiale. Abbigliata in un elegante abito color malva e radiosa nel suo bel sogno d’amore. Completato da un sorprendente sfondo di bouganville in fiore.

 

 

 

” The Goldfish Window “, F. Childe Hassam

 

 

Presentazione de ” La Sibilla delle Erbe “: comunicazione in sinergia di esperienze e idee di vita vera

C’è più emozione nel presentare il proprio libro o quello di un amico?

Per quello che mi riguarda le cose si equivalgono. Se, infatti, parlare del tuo lavoro a un pubblico di potenziali lettori è una cosa estremamente coinvolgente lo è altrettanto interpretare il pensiero di qualcuno, altro da te, che ti ha chiesto di aiutarlo a introdurre al mondo intero la sua ultima creazione. Semplicemente perché in un processo scrittorio non c’è posto per i compartimenti stagni. E può capitare che tenere a battesimo un libro diventi un ottimo pretesto per parlare anche di te stesso, della vita e della gente.

In questo post riporto integralmente il mio intervento nella presentazione del 5 agosto 2012 de La Sibilla delle Erbe, Tracce edizioni, biografia di Maria Sonia Baldoni, naturista, a cura di Michele Meomartino che ringrazio di cuore per avermi offerto nuovamente occasione di parlare di progettualità femminile e non solo.

Buona lettura.

Dal Blog di Maria Sonia Baldoni:

“ Lavora come se non avessi bisogno di denaro. Ama come se nessuno ti avesse mai fatto soffrire.

Balla come se nessuno ti guardasse. Canta come se nessuno ti ascoltasse. Vivi come se il paradiso

fosse sulla Terra. “

Paulo Coelho

Buonasera a tutti.

Il mio primo pensiero per Michele, che oggi ci presenta la sua neonata creatura scrittoria e la mia piena condivisione empatica per lui perché presentare un libro per un autore è come aprire la porta della propria dimora al mondo intero. In questo caso Michele raddoppia la sua ospitalità condividendo con noi presenti questo momento con naturalità e convivialità, come è sua abitudine.

E poi le mie considerazioni sul suo lavoro.

Ho letto con attenzione la storia della Sibilla delle erbe, con una curiosità tutta femminile che si è trasformata in ammirazione profonda per una donna che ha saputo, ha avuto il coraggio di operare scelte decisamente singolari e controcorrente. Il passaggio da promoter finanziaria e assicurativa a raccoglitrice di erbe è già di per sé la chiave di volta di un’esistenza fuori dal comune fatta di profondità, di naturalità ma anche di esercizio di buone pratiche etiche, con una sensibilità che mi sento di definire tutta femminile. Quella che è nella dotazione di serie di tutte noi Donne, a patto che ci si premuri di esercitarla attraverso un uso equilibrato di buonsenso e capacità di intuizione e, soprattutto, di traduzione pratica, concreta, di idee innovative quanto semplici che in Maria Sonia confluiscono tutte nel riappropriarsi con amorevolezza di se stessa, in una visione olistica di benessere psicofisico che è l’unica possibilità che ci resta, oggi, per vivere con dignità e serenità.

Ciò che Maria Sonia ha inteso fare sino a ora, con grande forza non scevra in alcuni momenti da sofferenza, certamente con estrema consapevolezza.

Una delle frasi che mi piace accostare alla progettualità femminile è quella secondo la quale non c’è rivoluzione senza donne. Ed è ciò che Maria Sonia ha scelto di compiere a un certo punto della sua vita mettendo a frutto le sue potenzialità e l’intimo legame che da sempre, sin da piccola, l’ha accomunata alla natura sino a diventare, per definizione di quanti la conoscono, ” emblema vivente della Madre Terra “, origine e punto di riferimento forte per molti di coloro che hanno avuto la possibilità di incrociare il suo cammino. Scardinando equilibri preesistenti, operando scelte di vita estreme che l’hanno portata a rimodulare la sua progettualità di continuo, accettando con semplicità l’imponderabile e trasformandolo in occasione di crescita.

Un’altra cosa che mi ha colpita è l’immensa capacità rigeneratrice che ai miei occhi l’ha da subito connotata come Donna dalle mille stagioni. Nel percorso esistenziale di Maria Sonia ogni istante vitale è funzionale e propedeutico alle scelte passate e future così come la natura nella sua ciclicità temporale accoglie con pazienza e accortezza le cose del mondo: dall’apparente immobilità invernale che è preludio dell’esplosione di colori, suoni, profumi estivi alla primavera che è rinascita e all’autunno che è lenta evoluzione, cambiamento e preparazione alla stasi, alla riflessione e meditazione caratteristiche dei mesi freddi. In un esercizio forte ma al tempo stesso pacato di naturalità che è stato punto di forza dei nostri antenati e che il prevalere di una certa razionalità fine a se stessa ci ha fatto accantonare, a mio avviso immeritatamente e con profonda ingratitudine, spesso soffocando quanto di più intimo e di più genuino era stato accumulato attraverso l’esperienza sostanziosa di chi ci ha preceduti. Negando e soffocando anche le immense potenzialità di mente e cuore che ciascuno di noi spesso ha in sé inespresse e che, volendo!, ha pieno diritto di esercitare.

Un’ultima considerazione.

Sulla finalità della scrittura, intesa come comunicazione potente di significato al di là della parola in sé e dell’esercizio di stile.

Da convinta assertrice della parola ( e quindi pensiero espresso ad alta voce! ) che diventa azione concreta mi piace considerare anche la scelta compiuta da Michele nell’incentrare questo suo ultimo lavoro su una personalità magnetica, carismatica quale è quella di Maria Sonia Baldoni.

Nulla capita a caso.

Il messaggio delle memorie di Maria Sonia raccolte da Michele assieme alle tante testimonianze di amici e conoscenti che hanno percorso un tratto esistenziale al fianco di questa donna straordinaria, ripeto, nella sua estrema essenzialità, è che non tutto è perduto.

Che a ciascuno di noi è offerta di continuo la possibilità di crescere e migliorare, individualmente ma anche nel confronto con l’altro; in maniera costruttiva con esercizio di semplicità, perché nel quotidiano gli altri, che ci piaccia o no, sono specchio di ciò che noi realmente siamo.

Un messaggio di rinascita, questo, che faccio mio, augurando a ciascuno di noi di coltivare con energia positiva il proprio personale “Giardino delle erbe”, ben calati nel presente con uno sguardo all’orizzonte, mettendo nel contempo a frutto con serenità e accettazione piena, compiuta, quello che della nostra vita passata è stato, punti di forza e fragilità. Convogliando le energie migliori in qualcosa di fattivo, che sia fonte di arricchimento proprio e altrui. Consapevoli di quello che siamo e dei riflessi, inevitabili, che produrremo su chi è di fronte a noi.

Accettando, come Maria Sonia ci ha insegnato, con determinazione e speranza le sfide della vita, come pretesto e catalizzatore di crescita incessante. Verso il bello, verso il buono.

Grazie.

L. Guida

Montesilvano (PE), Circolo Culturale OliS, domenica 5 agosto 2012

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Another Interview

Ci ho preso gusto a essere intervistata.

Probabilmente perché conversare parlando di scrittura, lettura e aspetti della mia vita che mi fa piacere condividere con altri è un modo come un altro per trasmettere una parte di me stessa.

L’intervista, qui di seguito riportata integralmente, è stata realizzata grazie alla disponibilità di Tommaso Maria Lovati, admin del sito Libri & Scrittori, Salotto Letterario On-Line.  Per voi, alla fine di questo articolo il link per leggerla in versione originale.

Intervista alla scrittrice Lucia Guida

D) Ci racconti un po’ di lei e del suo approccio al mondo della scrittura

R) La mia è una passione antica;  nata da bambina, coltivata nel periodo dell’adolescenza e poi messa da parte per lasciare il posto ad altre priorità. L’apertura di un blog nel 2007 mi ha permesso gradualmente di riprovarci, stimolata anche dagli apprezzamenti dei miei amici virtuali. Ho poi pensato di partecipare ad alcuni concorsi letterari, un po’ per provare a sperimentare nuovi approcci scrittori ma anche, forse, per chiedere qualche conferma, per mettermi alla prova. E’ andata bene e  a questo punto ho pensato di continuare per questa strada …

D) Qual è stato il suo percorso di studi?

R) Mi sono laureata in Lingue e Letterature Straniere nel 1987 con una tesi di letteratura inglese su Thomas Hardy. All’epoca si parlava di analisi testuale. A me sembrava una cosa meravigliosa sviscerare e analizzare nel profondo un autore come il mio che ho amato tantissimo. Anche se in realtà il primo esame dato all’università è stato quello di Filosofia. Ho poi alle spalle un tipo di preparazione a indirizzo pedagogico-didattico che ha segnato i miei primi passi nel mondo del lavoro nella scuola primaria. Esperienze di studio e di lavoro all’estero hanno completato la mia formazione. Vivere in altri paesi ti apre la mente e ti fa vedere le cose certamente in una prospettiva privilegiata. Un percorso sui generis, variegato, come del resto le letture che mi concedo: anche in questo mi piace leggere di tutto,  senza remore o pregiudizi.

D) Quando e perché ha iniziato a scrivere?

R) A otto anni, un romanzo su un vecchio diario scolastico. Si intitolava “La fanciulla del West”. A lieto fine, chiaramente.  In tempi più recenti, invece, il mio primo racconto breve ufficiale è certamente ‘Il volo dell’aquilone’ (nel post precedente, n.d.a.), arrivato in finale al XII Concorso Letterario bandito dalla biblioteca di Poggio dei Pini di Capoterra (CA) nel 2008. Da bambina scrivevo per raccontare; oggi credo di farlo per lo stesso motivo, soltanto con una consapevolezza maggiore, più sottile: quella di vedere riflessa nel lettore la tua stessa sensibilità. Quando ciò accade per uno scrittore è il riconoscimento migliore a cui si possa aspirare

D) In termini umani, cosa significa per lei scrivere?

R) Una volta le avrei risposto parlando dell’effetto terapeutico della scrittura; adesso  aggiungo che scrivere è anche un atto di passione, di puro divertimento

D) Quali sono i suoi libri del cuore?

R) Domanda difficile …Tutti i libri della Austen. “Via dalla pazza folla” di Hardy. “Quel che resta del giorno” di Ishiguro. Ma anche i libri di Brunella Gasperini, “Tutti i nostri ieri” della Ginzburg e molti altri ancora …

D) E quelli che non leggerebbe mai?

R) Ho già detto che mi piace sperimentare e quindi provo comunque a leggere di tutto; se, tuttavia, capita che io abbandoni la lettura di un libro non me ne faccio una colpa: la lettura è un piacere e tale deve rimanere

D) Il libro più bello che ha letto negli ultimi tre anni?

R) “La ragazza con l’orecchino di perla” della Chevalier

D) E quello che meno le è piaciuto?

R) Devo proprio dirlo?

D) Qual è il rapporto con la sua regione e con la sua terra?

R) L’Abruzzo mi ha adottata a pieno titolo ed è qui che ho scelto di far nascere i miei due figli e di stabilirmi. Tralasciando il periodo dei miei studi, condotti qui a Pescara,  vi abito da 23 anni. Continuo a mantenere un filo sottile ma robusto con la Puglia, mia regione di origine, in cui vivono i miei genitori. Nei miei racconti, infine, per par condicio do voce a entrambe. In fondo, la Lucia di oggi è il prodotto finale di un mix bilanciato dell’una e dell’altra realtà

D) Cosa le piace e cosa non le piace dell’editoria odierna italiana?

R) Credo sia interessante notare oggi molta più attenzione, da parte delle case editrici, verso gli autori esordienti. E ovviamente sto parlando di editoria non a pagamento e di editori lungimiranti. Ciò determina un’offerta a volte sovrabbondante, ma in questi casi ” melius abundare quam deficere”, non trova?

D) Cosa le piace e cosa non le piace del panorama culturale italiano d’oggi?

R) La frattura che talvolta si viene a creare tra creatori di cultura e fruitori. Un prodotto culturale dovrebbe davvero essere alla portata di tutti ma questo non sempre accade. E’ probabile che sia questione di educazione insufficiente in tal senso, certamente. Ed è un pensiero  terribile; in fondo, come un conosciuto slogan recita, “Sapere è Libertà”, sempre

D) Come è arrivata alla pubblicazione del suo lavoro?

R) Con un’opera certosina di ricerca della casa editrice ideale. In questo ero piuttosto determinata a non incappare, per il mio primo lavoro “serio”, nell’editoria a pagamento

D) Cinema: qual è il suo film preferito?

R)  “Camera con vista “ di James Ivory di qualche anno fa e, più di recente, “Il discorso del re” di Hooper. Sono, infine, un’ammiratrice fedele di Ozpetek

D) Musica: la canzone del cuore?

R) “Fotografie”, di Claudio Baglioni, pur non essendo una sua fan. Per una serie di ragioni troppo lunghe da spiegare

approfondimento NARRATIVA

D) Ha frequentato corsi di scrittura creativa?

R) Non ne ho mai avuto la possibilità ma mi avrebbe fatto piacere farlo, tempo permettendo.

D) Ritiene siano utili?

R) Parlandone in termini teorici, potrebbero certamente aiutare a migliorare uno stile narrativo ancora allo stato embrionale

D) Quale ritiene sia l’aspetto più complesso della scrittura narrativa?

R) Più che buttare giù un canovaccio di una storia, il lavoro di labor limae, di editing, che lo segue. Rendere, cioè, comprensibili al lettore le tue idee, ciò che vuoi trasmettere agli altri. Spesso ciò non accade; l’autore, cioè, crede di averlo fatto anche se poi in effetti non è così. Un’opera letteraria deve essere a mio avviso fruibile per tutti, con pochi chiaroscuri. Suggerire, certamente, ma farlo con chiarezza d’intenti

D) Come scrive: su carta o al computer? Di giorno o di notte? In solitudine o fra altre persone? Segue “riti” particolari?

R) Decisamente al pc: è più comodo e mi dà la possibilità di ordinare le idee meglio che su un foglio di carta. Di giorno a mente fresca e sicuramente in solitudine, aiuta a concentrare maggiormente e a far fluire con maggior facilità il pensiero

D) Come è nata in lei l’idea di raccontare quel che ha raccontato nel suo libro più recente?

R) “Succo di melagrana” nasce dall’idea di parlare in concreto e con positività di storie di donne. Credo che oggi ce ne sia un gran bisogno, a volte in uomini e donne si percepisce chiaramente una gran confusione circa i  ruoli da  assumere da parte di entrambi nella quotidianità più spicciola. Nel nostro Paese sopravvive ancora una certa predisposizione a incapsularsi in ruoli ben definiti, incernierati; non è così che dovrebbe essere, in una società che si possa definire realmente democratica e paritaria

D) Cosa significa per lei raccontare una storia?

R) E’ come incamminarsi per un sentiero che potrebbe portarti alla fine da tutt’altra parte. Sai che raggiungerai comunque la meta che ti sei prefissata ma non sei in grado di calcolare la tempistica che ti servirà per farlo né stabilire con precisione i luoghi che visiterai

D) Preferisce cimentarsi col racconto o col romanzo?

R) A differenza di molti che considerano il racconto una forma narrativa minore io credo, invece, che possegga per il lettore una fruibilità maggiore, più immediata. Dal punto di vista tecnico, con il racconto non puoi rischiare di far cilecca, devi comunque provare a dare forma a una storia compiuta in un arco di tempo ben preciso. Nel romanzo, invece, puoi permetterti di giocare al recupero senza correre eccessivi   rischi: per quello che non hai saputo delineare con decisione sino ad ora c’è sempre tempo di farlo in seguito, nel prosieguo della storia

D) Ci dia una sua definizione dell’uno e dell’altro?

R) Il racconto è come la scena di un film: intenso, coinvolgente, una scheggia  di esistenza. Il romanzo è il film. Ci sono scene di film che non si dimenticano e film che vorremmo non avere mai visto

D) Come ha scelto il titolo del suo libro più recente?

R) Il titolo “Succo di melagrana” si ispira al titolo della poesie  che costituisce il prologo dell’intera silloge. E’ una specie di anteprima che anticipa al lettore la sensibilità dell’autrice del libro

D) Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?

R) Se contiamo dalla stesura del primo dei sei racconti, tre anni. In realtà  le sei storie sono state elaborate in periodi diversi della mia vita ma è come se tutte fossero un tassello di quello che è il puzzle della mia avventura scrittoria

D) Ha vinto premi letterari?

R) Il secondo posto alla IX edizione del premio letterario Anna Vertua Gentile nel maggio del 2011;  per il resto sono stata segnalata o finalista in svariati premi letterari. Se, tuttavia, chiede al mio editore se ciò ha influito sulla sua decisione di pubblicarmi, le risponderà di no

D) Crede nei premi letterari?

R)  Ce ne sono di molto validi e di estremamente inconsistenti; personalmente diffido di quei concorsi letterari che chiedono, in cambio della partecipazione, l’esborso di onerose “tasse di lettura” o “spese di segreteria” non bene identificate e chiaramente a fondo perduto

Ha altri progetti in cantiere?

R) Un progetto importante che sto portando avanti pian piano. La fretta di terminare a volte può consigliarci davvero male. E poi non dimentichi che la scrittura per me al momento è un passatempo felicissimo, nella mia vita accanto ad altre cose altrettanto meritorie e importanti

Questo articolo è stato scritto da Tommaso Maria Lovato il 22 luglio 2012
Link dell’intervista:
http://www.libriescrittori.com/intervista-alla-scrittrice-lucia-guida/

” Conversation Avec le Jardinier “, P.A. Renoir

Prime volte: ” Il volo dell’aquilone “

Nei ricordi di un autore c’è sempre posto per una prima volta importante.

La mia risale all’autunno 2008, periodo in cui decido di inviare un mio racconto breve al XII  Concorso letterario Nazionale della Biblioteca di Poggio dei Pini di Capoterra (CA). Come buona parte delle mie storie il racconto nasce di getto prendendo spunto dalla rielaborazione di ricordi d’infanzia di una persona amica. Questo mio secondo tentativo “concorsuale” va a buon fine: a fine novembre ricevo una mail in cui mi si comunica che sono tra i finalisti del contest letterario e vengo invitata alla premiazione. Non parteciperò mai a quell’evento ma lo stimolo ad andare avanti per questa strada è troppo invitante perché io non sia tentata di coglierlo e di farlo mio.

Per voi, oggi, questa storia legata al filo sottilissimo ma robusto di un aquilone: quello di Valerio e del suo primo giorno di scuola.

 

 

Il volo dell’ aquilone 

Valerio era il terzo di quattro figli. Era arrivato in sordina all’ alba di  un mattino di dicembre, terzogenito di una tipica famiglia di una città di provincia come tante. Una famiglia in cui spiccavano il rigore di un padre che si era fatto da sé  e la docilità di una madre che si era sposata per sistemazione e forse con poco amore. Valerio era stato accolto con la naturalezza con cui si accoglievano tutti i figli nati sotto la solidità di un tetto coniugale; sua madre gli si era dedicata con la dovuta devozione, quella che ci si aspetta da una brava madre, crescendolo con affetto contenuto alternato a momenti di tenerezza estrema in cui lui diventava centro del suo fragile universo femminile e fulcro verso cui pareva si accentrassero  tutte le aspettative di moglie palesemente insoddisfatta. Quindi, inaspettatamente, a distanza di circa quattro anni era nato Tancredi, spodestandolo del privilegio di piccolo di casa e portando con sé altri elementi destabilizzanti nella serenità e nelle certezze, poche, di quella “ donna del dovere “.

Valerio aveva gestito con apparente piena accettazione la nascita di quel bimbo. A lui era subito sembrato troppo piccolo e un po’ bruttino, inspiegabilmente circondato dalle cure continue della zia paterna, ufficialmente giunta in quella casa per dare una mano ma in realtà anche per aggiungere  il peso della propria autorità a quella paterna, appesantendo l’animo di quella mamma già greve di stanchezza non solo fisica. I suoi fratelli maggiori, invece, avevano preso l’intera faccenda con disposizione diversa; Alberto con la leggerezza che stemperava in tutte le cose che faceva e le iniziative che intraprendeva,  Maria Paola  con il giudizio e la saggezza che la caratterizzavano da sempre e la rendevano figlia prediletta in modo indiscusso del papà. Al bimbo non era rimasto altro che dissimulare un profondo e antico dolore con l’ apparente pacatezza che pareva tutti si aspettassero da lui. In quella famiglia, simile ad una compagnia di guitti, a ciascuno era richiesto di ricoprire un ruolo ben preciso e costante nel tempo; e il suo, appunto, era quello di figliolo incredibilmente disponibile e buono, pronto a modellarsi al canovaccio necessario al momento riproponendo comportamenti pregressi già con successo sperimentati senza improvvisazioni di sorta.

Le sue giornate di bimbo sensibile e creativo procedevano sempre nello stesso modo, segnate dal carattere burbero di quel padre dalla personalità ingombrante e dall’apparente duttilità di quella donna  affannosamente presa dalle mille incombenze proprie del ruolo che le era stato chiesto di impersonare; in un sottofondo dai colori tendenti al cupo, delineato dall’irruenza dei modi paterni, fatto di tempeste vere o presunte e mai mitigato dalla vivacità di un arcobaleno femminile che potesse addolcirlo.

A un certo punto della sua giovanissima vita aveva scoperto le infinite potenzialità racchiuse in una matita e una manciata di colori,  prendendo a dare sfogo, attraverso disegni complicatissimi e ricchi di particolari minuziosamente tratteggiati, a quel groviglio di sentimenti inespressi presente nel suo cuore infantile che mai nessuno aveva pensato di portare in superficie con parole amorevolmente invitanti al dialogo. Immagini vivaci e coloratissime avevano assunto infinite forme nello spazio quadrettato di un foglio, contribuendo a rasserenare i suoi momenti più critici e sublimando energie vitali che altrimenti sarebbero andate a sfociare in frustrazione, impotenza e rabbia. Sua madre aveva notato questo cambiamento, soffermandosi per un po’ sulle cause che lo avevano prodotto. Concludendo, infine, velocemente le sue riflessioni con una carezza lieve e distrattamente conciliante. Un’ abitudine, quella di pasticciare con le matite, che portava talvolta Valerio al punto di dimenticare perfino di mangiare per dedicarsi a quel nuovo passatempo da lei giudicato oltre modo singolare con stupore e meraviglia e assecondato con materna indulgenza. Assai diverse, naturalmente, le conclusioni cui era giunto suo padre; il disegno era da quest’ ultimo sempre stato giudicato un’arte minore, superflua, minimale. Ben altro rispetto alla letteratura, alla matematica o alla storia. Forme d’espressione o discipline di maggior spessore, assolutamente non paragonabili per consistenza a pittoreschi ghirigori colorati. Ma stavolta Valerio aveva tenuto duro, riaffermando silenziosamente la sua volontà di esternazione e all’ austero genitore non era rimasto che brontolare per un periodo limitato di tempo circa l’ inutilità di coltivare precocemente simili passioni, per poi terminare con l’allinearsi, sia pure partendo da diversi presupposti, alla tollerante posizione materna. E si era giunti a quella fatidica data, a quel primo ottobre che avrebbe sancito il suo ingresso ufficiale nel mondo degli adulti con la sua entrata nella scuola elementare. Il padre l’ aveva accompagnato in silenzio in quell’ aula gremita di banchi con la pedana e segnata dai singhiozzi di qualche bambino incapace di contenere la propria paura del nuovo, lasciando che quel maestro dall’ aspetto severo, da lui conosciuto e stimato personalmente come persona integerrima e di autorità,  attribuisse a quel nuovo scolaro il posto che gli sarebbe toccato per tutto l’anno scolastico. Per un istante, un solo istante, Valerio aveva chiuso gli occhi trattenendo il fiato per evitare di indulgere in  quelle che sarebbero state considerate, ne era certo, esagerate manifestazioni emotive. Un solo istante che, però, racchiudeva un mondo di pensieri, primo tra tutti quello dell’ aquilone di carta di seta da lui confezionato il giorno precedente e che non aveva potuto far volare per la pioggia, piangendo silenziosamente e di nascosto nella rimessa per liberarsi della frustrazione di quel piccolo piacere negatogli dalle circostanze della vita.

Ci aveva lavorato con lena per ben due giorni, cercando di addolcire in tal modo il pensiero dei doveri scolastici prossimi a venire. In un cassetto del tavolino da cucito della madre aveva scovato diversi fogli di carta da modello chiedendole il permesso di utilizzarli per quella nuova impresa ed ottenutolo vi aveva riversato con impeto e passione tutta la sua energia creativa, decorandolo pazientemente e amorevolmente con le sue matite e facendo ampio uso di colla di farina e acqua. Al contadino che curava l’ orticello di casa aveva sottratto delle asticelle sottili di bambù destinate alla coltivazione degli ortaggi, incrociandole con precisione ingegneristica e legandole con lo stesso spago con cui  aveva assicurato l’ aquilone ad un rocchetto di legno.

E poi aveva atteso che una giornata di sole e tepore annunciasse il mattino successivo.

Ma così non era stato, ed un imprevisto maltempo aveva segnato il suo risveglio assieme alla proibizione assoluta di recarsi nei campi ormai fangosi e pieni di pozze d’ acqua piovana.

A lui non era rimasto che sperare inutilmente che  il tempo si rimettesse al bello, col visetto appiccicato al vetro della portafinestra del tinello. Il miracolo non si era però compiuto.

Con incredibile forza d’ animo aveva terminato di pranzare spiluzzicando distrattamente e attirandosi i commenti poco piacevoli del fratello maggiore. Ma a pasto ultimato e non appena tutti  avevano smesso di dedicargli un’ attenzione in quel frangente davvero indesiderata e scomoda, era scappato in cortile e corso via nel suo rifugio segreto. Per dare finalmente libero sfogo al suo dolore immenso.

Consapevolmente privo del conforto lieve e dell’ empatia gentile di una voce adulta qualsiasi che gli spiegasse come quella domenica era soltanto principio di autunno e non castigo divino per improbabili colpe precedentemente commesse.

Eppure ad un tratto era stato proprio il pensiero di quel mancato divertimento a tirarlo su di morale e a rendere sopportabile quella giornata di pura sofferenza.  Come un viandante assetato in un deserto inospitale  cerca di scorgere in lontananza l’immagine rarefatta dell’ oasi per rinfrescare il proprio spirito affranto, l’ idea di quell’ aquilone in paziente attesa e tuttavia pronto a  spiccare il volo in qualsiasi momento, condotto dalla sua manina e da un vento gentile e favorevole, aveva avuto il potere di rasserenarlo e di dargli speranza nuova. Portandolo con sé ed in alto, con benevolenza,  verso una concreta e possibile via di fuga, a distanza di anni luce da quel presente di così poche soddisfazioni e di molti affanni.

Lucia Guida

” Un volo di aquiloni “, Pietro Lerda