Piccole cose di pessimo gusto

Tempo fa in una delle mie gironzolate in web sono arrivata a conoscenza della presenza del mio primo libro edito, una silloge di racconti intitolata “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile”, Nulla Die (2012), in formato pdf ma anche epub ed emobi previo registrazione su più di un sito straniero. Ovviamente nessuno mi ha chiesto il permesso di poterlo inserire né lo ha fatto con l’editore. Non saprei dirvi neanche se alla fine tutto questo possa essere ricondotto a un’operazione molto più elementare, finalizzata alla mera raccolta dei dati sensibili di coloro che, attratti dalla promessa di poter scaricare gratuitamente materiale di varia natura, accettano di loggarsi inserendo i propri dati.
Ho, però, pensato di proporvi qualcuna delle sei storie della raccolta ancora inedite quanto meno virtualmente. Mai, cioè, diffuse da me a mezzo digitale.
La mia prima proposta di lettura è una storia intitolata “Piccole cose di pessimo gusto”, scritta e arrivata in finale in un concorso letterario di un po’ di anni fa prima di essere data alle stampe. È la storia di Celeste, attempata proprietaria di un negozio di articoli usati e di modernariato che dalla prospettiva privilegiata delle sue vetrine guarda al suo personale microcosmo e ai personaggi che lo popolano con leggerezza, ironia e grande indulgenza. Accanto a lei Willy, compagno inseparabile delle sue giornate, e il fluire lento ed equilibrato della vita  “come acqua di fiume che va al mare”.


Piccole cose di pessimo gusto

Il mio tè al bergamotto corteggiata da Willy che mi gira intorno aspettando paziente di ricevere come di consueto il suo pasticcino è il primo piacere della giornata. Davanti alla porta finestra del tinello, lo sguardo attento al viavai discreto che anima di prima mattina questo corso di provincia, intervallato simmetricamente a destra in banca da platani secolari, ora ricoperti di fogliame e inflorescenze grazie a una primavera prodiga che non ha mancato al suo appuntamento. Seminascosta da un ramo più folto degli altri c’è la mia botteguccia di piccole cose di pessimo gusto. Attraverso le maglie larghe della serranda si lascia intravedere con ingenua sfrontatezza tra le saracinesche massicce dei negozi che la circondano, dotate di sofisticatissimi antifurto e di altrettanto imponenti chiusure interrate. Scegliere di proteggerne la vetrina con questa sorta di armatura non è stata decisione facile; la percezione di forzare quasi, con questa imposizione, gli infissi una volta laccati d’azzurro, ora sbiadito celestino, e la stessa insegna di legno dipinto che non ho mai aggiornato, una di quelle che una volta usava difficili ora da trovare in giro, mi ha perseguitata a lungo. Eppure ho dovuto arrendermi al progresso e alla necessità; la mia unica consolazione è che ben tirata in alto scompare quasi nell’intercapedine del muro e almeno fino all’ orario di chiusura serale posso fingere che questa bottega sia rimasta la stessa di 30 anni fa, quando volendo imprimere una svolta decisiva nella mia vita ho deciso di aprirla, rilevandola dagli eredi impazienti di un robivecchi passato serenamente a miglior vita. Quasi le sette e trenta. Rebecca, zainetto semivuoto in spalla, attraversa la strada diretta alla fermata dell’autobus. Senza motorino, come a volte capita. Sua madre deve essere fuori città altrimenti tra una reprimenda e l’altra non avrebbe mancato di darle un passaggio. Ed ecco sopraggiungere a ritmo serrato il ragionier Romoletti, volpino al seguito virgola di corvée già di primo mattino. Per poter scorgere anche la biondissima Ewa Ruslanova, terzo piano interno sei, e completare quindi l’appello dei miei beneamati coinquilini dovrò aspettare ancora un po’. Afferro le mie cose e mi appresto a scendere in negozio, cercando di fare mente locale ordinando per priorità le tante incombenze che mi aspettano. Willy mi precede con sveltezza, avendo di tanto in tanto il buon gusto di voltarsi per accertarsi che lo segua. Abito in questo palazzo dalla nascita, avvenuta un po’ di che decenni fa ma sfido chiunque a indovinare la mia età. Tutti mi conoscono come la signorina Celeste dell’interno due del secondo piano; una sorta di istituzione, amata e al contempo cordialmente detestata per la controversa abitudine che ha di farsi gli affari altrui. Accanto a me Rebecca e la sua famiglia. In realtà la loro è più che altro una triade che si scompone e ricompone a ondate, quando il capofamiglia, uomo in carriera giacca, cravatta e cellulare di ultima generazione alla mano, viene deposto davanti al portone dai pesanti battenti di bronzo da uno dei tanti taxi gialli cittadini. Il tempo di trattenersi qualche giorno inframmezzando la propria comparsa con performance sportive all’alba in tuta al vicino parco e inviti a cene di rappresentanza con sua moglie Agata. Fino alla prossima partenza da quello che probabilmente per lui è diventato una sorta di box ove ricevere assistenza e cure essenziali prima di riprendere a gareggiare in pista. Da tempo Rebecca, loro unica figlia, ha deciso di non seguirli più e può capitare che da brava diciassettenne esca per proprio conto, a volte trasgressivamente abbigliata in compagnia di amici automuniti o sul suo scooter, casco ben calzato ma non allacciato sui capelli ricci, lunghi e ramati. Evidente che sia la ricerca di un baricentro che le permetta di contrastare vittoriosamente una forza di gravità spietata e invasiva. A spasso col mio Willy qualche tempo fa l’ho vista rientrare ora tarda a bordo di una di quelle macchinette inconsistenti simili ad automobiline in circolo sulla pedana della giostra di un’antica fiera di paese. Ci ha messo un po’ a scendere in bilico su tacchi vertiginosi stretta in un tubino nero e luccicante. L’ho udita ridere sonoramente ma non con gli occhi. Un ragazzo, sceso con lei, l’ha abbracciata con troppa cordialità prima di essere respinto scherzosamente ma con decisione. Pochi secondi per sfuggire anche un bacio preteso a tutti i costi con l’ultimo barlume di disinvoltura residua e un saluto blando con la mano. Poi la necessità di appoggiarsi pesantemente al muro color ocra del palazzo per una manciata di minuti, quasi a cercare sostegno, prima di frugare nella borsina per le chiavi e sparire inghiottita dall’androne buio di casa. L’ultimo riflesso dei lampioni sferici dalla luce aranciata me l’ha mostrata pallidissima sotto il trucco forte e pronunciato. Il giorno dopo Agata, tailleur e tacchi a spillo, è riemersa al mattino in solitudine, parlottando concitatamente al cellulare prima di saltare in macchina e partire a razzo. Lavora in un importante ditta ed è addetta alla selezione del personale. Dicono che sia molto brava in questo. Le chiamano cacciatrici di teste e forse lo sono davvero. Lampante che per lei il lavoro sia ben più che una fetta dell’esistenza; Certo è che come madre non credo riscuota ultimamente lo stesso successo E altrettanto chiaro è che ciò le dia enormemente fastidio. Rebecca in t-shirt e slip l’ha osservata a lungo allontanarsi nel traffico dai vetri del soggiorno minimal chic. Poi, guardando in basso, si è accorta forse della mia insistenza nel pulire la vetrina del mio negozietto e si è ritirata, sparendo dietro la confortante penombra di pesanti tende oscuranti sino al pomeriggio. Appena in tempo per evitare con un’uscita davvero tempestiva il rientro di sua madre assieme un ulteriore sequela di presumibili noiosissime recriminazioni. La mia vera spina nel fianco è tuttavia Maria Rinaldi in Romoletti, icona del peggior matriarcato che possa oggi sopravvivere con assurdo paradosso in una società in cui è e spesso bieco maschilismo e non altro a prevalere nel contrastato mondo delle relazioni interpersonali. Chiedo venia se non riesco a nutrire nei suoi confronti la benché minima ombra di indulgenza. Sposata con un figlio che di rado visita il lucidissimo quartierino al terzo piano in cui si è da tempo immemore insediata, ben presidiato da un paio di kentia fiorenti al lato del portoncino e da un penetrante odore di cera che ti avviluppa con forza già nell’attimo in cui varchi il portone d’entrata al pianterreno. Sarà forse una spiccata allergia al succitato prodotto, o più verosimilmente una sola intolleranza verso una moglie così intransigente a far trascorrere a suo marito, in pensione ormai da un paio d’anni, buona parte del proprio dilatatissimo tempo altrove? Giustificato ampiamente da un succedersi trafelato di commissioni di vario tipo interrotte tuttavia da ritirate regolamentari coincidenti con l’orario dei pasti. Certo è che i paramenti della sala da pranzo sono in continuo movimento, come agitati da un venticello dispettoso, nel sorvegliare di continuo entrate e uscite dei condomini da mane a sera. Manco a dirlo, io e Maria Romoletti da tempo navighiamo su imbarcazioni separate in un mare di costante bonaccia, impegnate a mantenere una sorta di tregua perenne in cui non vi è più posto come in passato per rivendicazioni veementi e scaramucce quotidiane. Lei sembra aver accettato il mio stato consolidato di singletudine; credo perfino abbia archiviato il ricordo di alcune mie discutibili e disdicevoli frequentazioni maschili pregresse. Tornare a essere donna onesta mi ha riabilitata al suo poco lungimirante sguardo placando la sua sete di gossip a buon mercato. Grazie anche a Ewa. Ewa che riceve nel suo appartamento distintissimo uomini in giorni feriali e festivi dedicati al relax pomeridiano, alla messa domenicale, allo spettacolo di varietà televisivo del sabato sera. Ewa biondissima e dalla silhouette invidiabile che nulla ha a che vedere con la sua pettoruta e panciuta dirimpettaia infagottata in abiti strizzatissimi che sfortunatamente lasciano pochissimo all’immaginazione mostrando più del dovuto i segni e lo sfacelo del tempo trascorso. Il fatto è che Maria si è messa in testa di competere con la giovane escort nell’istante in cui ha percepito (sia pure tardivamente!) un bagliore luccicante sospetto negli occhi nerissimi e mobili del suo consorte al passaggio della “signora delle camelie”, espressione quanto mai indicativa del climax di disdegno e pruderie da lei in merito raggiunti. Non so se Ewa sia al corrente di tanta palese disapprovazione. So soltanto che i suoi sorrisi sono tutti per Amedeo Romoletti e che quest’ultimo farebbe carte false anche solo per invitarla a prendere un caffè alla Premiata Pasticceria dell’angolo, se soltanto l’attività continua di pressing della sua ingombrante metà gli concedesse un po’ di sosta.
Ho conosciuto Ewa in un sonnolento pomeriggio estivo in cui la calura aveva suggerito a molti miei colleghi di non aprire bottega. Io ero la presa con abat-jour anni 50 che proprio non ne voleva sapere di sposarsi con un nuovo paralume di stoffa, tra i guaiti del povero Willy, infastidito dai miei sbuffi continui, e l’ansimare sofferente di un vecchio ventilatore che non mi decido mai a buttar via impegnato con decorosa fatica ad assicurarci un po’ di frescura e a sollevare anche un bel po’ di pulviscolo tutt’intorno. Lei ci aveva osservati a lungo dall’esterno oltre a rimirare le tante mercanzie disposte in artistico disordine sulle mensole di legno in vetrina; poi, presa da una sorta di impulso irrefrenabile aveva sospinto con decisione la porta d’entrata facendone tintinnare sgomento il campanello. Al mio benevolo assenso a vagabondare tra cumuli di anticaglie e oggetti di modernariato, la sua attenzione si era alla fine focalizzata su una tazzina da cioccolata disseminata di delicatissimi roselline dal tenue colore racchiusa in una teca con cui generalmente proteggo i miei tesori più preziosi. Il suo viso, quel giorno insolitamente prima del trucco sapiente a cui ci aveva abituati, si era di colpo rasserenato. Per un bel po’ avevamo conversato di samovar e tè preparati all’orientale e all’occidentale; della sua vita di bambina solitaria trascorsa in un casermone alla periferia di Kiev, di sua madre abbruttita dalle lunghe ore di lavoro in fabbrica e di un padre che non riusciva a liberarsi della curiosa abitudine di bersi tutta la paga settimanale in vodka il venerdì sera. Aveva rimarcato coraggiosamente ma con una forma di pudore latente quest’ultimo particolare della sua vita passata, per poi riprendere  vigore e consistenza nel dichiararmi con orgoglio di essere in possesso di una laurea in materie umanistico-letterarie con cui era arrivata in Italia prima di considerare di far fortuna in modo più veloce come accompagnatrice di lusso (in realtà si era definita disinvoltamente hostess e io e Willy, incantati da quel flusso interminabile di frasi, avevamo bonariamente avallato questa versione). Di punto in bianco a metà di un’altra complicatissima narrazione dei tempi andati mi aveva chiesto a bruciapelo il prezzo della porcellana. Pretendendo di non volere resto dalla banconota di grosso taglio poggiata con noncuranza sul vecchio registratore di cassa. Alla fine eravamo arrivate a un compromesso: la tazzina fiorata con piattino e un minuscolo sole di ottone beneaugurante che proprio quella mattina avevo terminato di lucidare a specchio con molto olio di gomito. Sarà stato un caso forse no, ma il lunedì successivo uno dei tre avvocati dello studio legale associato al primo piano, quello di fronte la compagnia assicurativa, aveva sospinto la porta del mio negozietto con garbo, chiedendomi di procurargli, se non mi era di troppo disturbo, un grammofono de “La voce del padrone”, naturalmente se non ne avessi già uno lì disponibile. Rispondendo negativamente alla sua seconda richiesta, gli avevo tuttavia assicurato che ne avrei fatto lo scopo primario del mio successivo giro domenicale per fiere di paesi e vecchi negozi di rigattiere. Poi gli avevo regalato a mo’ di anticipazione un disco in vinile inciso solo da un lato di un famoso tenore italiano. Una ghiottoneria da gourmet. Lui ne aveva a lungo accarezzato la copertina sbrindellata e ingiallita dal tempo e con un sorriso che gli aveva disteso il giovane viso abbronzato incorniciato da capelli neri precocemente brizzolati era andato via con passo più lieve ripromettendosi di ripassare a breve. Durante le nostre interminabili conversazioni telefoniche notturne, tipiche di tutte le persone che a un certo punto della loro vita cedono al vezzo di stentare ad addormentarsi, Norina mi ripete spesso che forse dovrei andare anch’io a vivere in campagna. Norina è mia sorella. Dopo essere rimasta vedova ha scoperto di avere una profonda vocazione per la preparazione di manicaretti gustosissimi, confetture marmellate di frutta, torte, pasticci in crosta e pane ammassato lievitato naturalmente. Ottenuto il placet di sua nuora si è stabilita nell’agriturismo aperto da suo figlio, prendendo a curare erbette e polli con una dimestichezza davvero insospettabile per una signora sino a poco tempo prima dedita unicamente alla coltura di gerani e calendule da balcone e alla cura di inoffensivi canarini in gabbia. A volte confesso di pensarci seriamente. Ci ho riflettuto a lungo mesi addietro dopo aver ricevuto a orario di chiusura una strana e inquietante visita; due personaggi singolari, a cui le mie cose di poco gran conto non avrei mai creduto potessero interessare, sono entrati nonostante avessi diligentemente posto il cartello in cui annunciavo che per quella giornata le vendite erano terminate. Hanno preso a gironzolare svogliatamente nel poco spazio libero non occupato dalle tante merci affastellate, alcune da me riportati al loro splendore originario altre semplicemente in attesa che me ne prendessi cura. Il più alto ha lasciato che fosse il suo amico a terminare quell’esame sommario, restando con le braccia conserte a scrutare i pochi passanti di quella brumosa serata di gennaio. Quest’ultimo, capelli abbondantemente cosparsa di brillantina o qualcosa di simile, a un certo punto mi ha sorriso in modo strano e, accendendo un cerino, l’ha lasciato cadere sul pavimento ai miei piedi, provocando l’abbaiare furioso del mio Willy che non avrebbe mancato di avventarsi indignato se soltanto io glielo avessi permesso invece di tenerlo stretto tra le mie braccia, batticuore contro batticuore. Alla fine con una smorfia mi ha salutata annunciandomi che loro sarebbero certamente ripassati prima di dileguarsi in strada. Fortunatamente l’episodio non ha avuto strascichi di sorta. Probabilmente la mia merce non ha risvegliato abbastanza la loro cupidigia o forse qualcosa li ha, almeno per il momento, spinti a cambiare idea.So come possono andare a finire certe cose. Il negozio di ferramenta di Remo, le pareti annerite dal fumo e  dalle fiamme a meno di un isolato più in là, è stato per tutti gli abitanti del quartiere un segnale forte e chiaro. Come dimenticare lo sguardo di sua moglie Elena, umido e sofferente, nell’atto di appendere un cartello di fittasi sull’unica vetrina rimasta integra dopo il fattaccio? È stato un vero miracolo che nessuno ci abbia rimesso più del dovuto E che soprattutto Remo si sia doverosamente ricordato di rinnovare la polizza antincendio scaduta soltanto alcuni giorni prima, lui così incline a procrastinare per atavica pigrizia e scarsa memoria incombenze di tal fatta. L’unica percezione chiara riguardo alla mia vita è ,tuttavia, almeno per ora, quella di continuare a vivere in questo quartiere una volta così brulicante di vita e di umanità fino a quando sarà ancora possibile farlo. Non mi sento talea come Norina; io al mio vasetto di coccio minuscolo, forse obsoleto e un po’ vetusto ci tengo ancora e non ho voglia di abbandonarlo per provare ad attecchire in terreni nuovi magari più fertili ma così lontani da questo microcosmo tagliato su misura addosso a me come una seconda pelle. So che l’acqua di fiume va al mare e che non è in potere di nessuno arrestarla o talvolta semplicemente deviarne il corso. Tuttavia può capitare di imbattersi in pezzi di legno o rami levigati dall’impeto della corrente o addirittura scavati e scolpiti mirabilmente. Veri e propri tesori della natura disseminati con apparente noncuranza dal destino sul nostro percorso perché ciascuno di noi possa, volendo, apprezzarli portandoli via con sé. Per rimirarli in compagnia di altri o semplicemente per accarezzarli con gli occhi alla fine di quelle giornate che molto hanno delle guerre di trincea combattute zolla dopo zolla con lo sguardo fisso all’orizzonte. Giorni addietro mi sono procurata un fantastico fonografo a valigetta per l’avvocato dal viso stanco. Ho anche pensato di regalarli l’altra tazzina da cioccolata compagna di quella decorata a minuscole rose azzurre che conservo nel retrobottega con cura. E farò in modo che Ewa sappia che c’è un’altra persona al mondo altrettanto degna di aspirare come lei a cose uniche e grandi. Forse è con lo stesso scopo recondito che ho nascosto un piccolo cristallo di rocca nel pacchetto dell’agendina in pelle acquistata da Rebecca per il compleanno di sua madre. Le terrà compagnia discreta allontanando da lei pensieri negativi e ombre minacciose, riportandola con levità ai primi soli di questa bella stagione, ancora una volta di ritorno, pur se con qualche incertezza, per rallegrarci con semplicità. Confesso di non aver studiato abbastanza il caso del povero Romoletti; credo che il suo sia un affare ben più complicato di quanto di primo acchito non appaia. Sarebbe bello chiudere sua moglie con la sua aria boriosa di ostentata sicurezza in una gigantesca bolla di sapone e, soffiando con dolcezza, spingerla lontano sino al punto di non ritorno chiedendo al vento di portarla via con sé definitivamente. Credo purtroppo che ciò non sia al momento possibile. Ma la speranza, vi ricordo, è l’ultima dea. E il nostro scirocco invernale, che soffia dal mare sino a raggiungere con un sospiro il profilo della Bella Dormiente, con le sue folate possenti e purificatrici, capaci di far piazza pulita delle nuvole più ostinate anche nelle giornate di grigio uniforme, resta pur sempre un formidabile e unico alleato.

Lucia Guida

La moglie del mercante (Boris Michajlovič Kustodiev, 1918)

Madri per sempre

Si diventa madri poco a poco e la progettualità che ha spinto ogni donna a sceglierlo è solo il primo, infinitesimale passo di un percorso che non le abbandonerà mai. E che durerà per una vita intera.

In questo estratto Marina Federici, protagonista del mio romanzo “La casa dal pergolato di glicine”, Nulla Die, (2013) si abbandona ad alcune riflessioni davanti a un dipinto antico raffigurante una maternità nella Chiesa Madre di Todi. Pensando a se stessa per la prima volta come madre e accettando di esserlo per sempre, nel bene e nel male.
Buona lettura a tutti

Lucia

‘Marina contemplò assorta quel volto estatico di Madonna con Bambino nel frammento di affresco che, a beneficio dei numerosi visitatori e abitanti del luogo, aveva sfidato secoli e secoli prima di toccare anche il suo cuore. La salita alla Chiesa Madre era stata faticosa, affrontata gradino dopo gradino, pian piano, in quel primo mattino di agosto in cui pochi erano ancora i turisti ad affollare la piazza sottostante. Sua madre avrebbe desiderato accompagnarla, ma lei non aveva voluto. Essere circondata dall’amore dei propri cari era una cosa impagabile, ma l’intento principale con cui lei si era recata a visitarli era quello di fare un po’ di luce in se stessa. Decidere di riscoprire le bellezze di quella cittadina medioevale, incantevole e intrisa del suo vissuto infantile

e adolescenziale, poteva essere un’ottima scusa per ritagliarsi qualche frammento di autonomia che potesse sfuggire alla seppur affettuosa ma eccessiva sollecitudine dei suoi genitori.

Aveva deciso di tenere il bambino.

Quel miracolo piovuto dal cielo in un frangente così complicato era un chiaro invito a guardare con attitudine positiva alla vita, dandole senso e concretezza, vivificandola di nuova linfa vitale. Sua madre, con l’intuito di tutte le madri del mondo, aveva già preso a sospettare qualcosa, notando il suo scarso appetito al risveglio e la sua insolita propensione a prendersi piccole pause di riposo nell’arco della giornata da cui attingere energie extra per arrivare, senza eccessiva fatica, alle prime ore della sera, quelle in cui non sempre riusciva a dare il meglio di sé. Nella tranquilla routine di suo padre, eternamente confinato nel suo studio, il suo arrivo aveva apparentemente fatto poca breccia. Lui era certamente contento di rivederla e il suo abbraccio rude gliene aveva data conferma, ma le sue esternazioni si fermavano lì e dopo una decorosa parentesi di convenevoli condivisi con sua moglie era tornato alle sue occupazioni di studioso di storia antica, lasciando che fossero gli altri a fare gli onori di casa.

Seduta all’estremità di un banco lucidissimo di legno Marina rivolse nuovamente lo sguardo a quell’immagine sacra femminile di altri tempi, notando con stupore come questa si limitasse a sorreggere in braccio il suo pargolo rivolgendosi a lui con un’amorevolezza che le parve quasi empatica. Sembrava quasi presagire il carico di sofferenza umana che l’avrebbe condotto via da sé, facendole assaporare soltanto per pochissimo le gioie della maternità. La Madonna e un Cristo minuscolo, in erba; una donna e un bambino come tanti senza un padre accanto; era la giusta dimensione, esclusiva e incondizionata, tra una madre e un figlio. Si toccò il ventre, cercando di stabilire un contatto con la creatura che vi era custodita. Le chiese scusa per la confusione che sentiva dentro di sé e, nello stesso tempo, la rassicurò sulla sua piena volontà di fare presto chiarezza. A un figlio, sia pure in nuce, tutto ciò era dovuto, si disse, augurandosi di trasmettergli quella serenità necessaria per potergli far decidere di restare con lei sino alla nascita, nel calore confortevole del suo grembo. Con gioia assurda sentì un moto d’affetto incredibile per il suo bambino e un coinvolgimento insperato per tutto ciò che lui, con il suo arrivo, avrebbe rappresentato per entrambi.’  *

*in Lucia Guida, (2013), La casa dal pergolato di glicine, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

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“La Speranza”, Gustav Klimt

Dov’eravamo rimasti?

È dalla metà di febbraio che non aggiorno il mio luciaguidawordpress.com, au feminin thinking and writing, con racconti, resoconti di eventi e recensioni e quant’altro mi collochi da qualche parte, spazialmente e temporalmente, come autrice. In realtà di cose da fare ce ne sono state tante.

Provo, allora, a fare il punto della situazione con voi.

Domenica 15 febbraio ho presentato al Justen Club di Pescara il mio “Pergolato” assieme ad autori di spessore come Lucio Vitullo e Stefano Carnicelli. Padrini d’eccezione Luigi Blasioli, jazzista pescarese di altissimo livello  e la poliedrica Cinzia Rossi, autrice di prosa e poesia.

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Da sinistra Stefano Carnicelli, Lucia, Luigi Blasioli, Lucio Vitullo e Cinzia Rossi. Foto di Giada Di Blasio

È stato pubblicato sul numero di settembre/dicembre 2014 di “Fortore”, Rivista di Cultura, Esperienze Informazione edita dal Circolo Culturale “88” di Roseto Valfortore (FG), il mio resoconto della giornata di premiazione del Premio Lupo 2014. Se avete voglia di rileggerlo, lo trovate qui.

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A metà marzo, e precisamente venerdì 13 ho presentato la silloge di racconti “La precisione dell’acqua” di Chiara Novelli, scrittrice, artista e poetessa fiorentina alla Mondadori di Pescara

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Chiara Novelli e Lucia, foto di Maria Luisa Abate per Pescara News

Uno sciopero di Trenitalia, di cui ero totalmente all’oscuro (!) mi ha impedito di raggiungere Aulla (MS) per essere premiata per il mio “Pergolato” per il IV posto ex-aequo del Concorso Internazionale Alessandra Marziale – Val di Vara. Per cause di forza maggiore ho felicemente ripiegato, domenica 16 marzo, sulla bellissima mostra di Escher ospitata a Palazzo Albergati a Bologna sino a maggio p.v., confidando in Posteitaliane per ricevere pergamena e medaglia che avrei dovuto ricevere dal vivo

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Gli antichi amori, ripagati alla grande, non si scordano mai: partecipazione alla Serata della Bellezza Sovrumana, promossa da “Risorse SovrUmane ASD Ricerche Teo-Antroposofiche e benessere di Pescara”, a cura di Patrizia Splendiani e Katia Granata, operatrici olistiche, con un evergreen della mia produzione scrittoria, il racconto “Bella, bella, Bella” venerdì 28 marzo 2015 , e conclusione poetica di un pomeriggio artistico ospite di Rossella Circeo, eclettica creatrice di opere di maiolica, vetri e pietre semipreziose, con la lettura di “Succo di melagrana”, componimento in versi sciolti prologo dell’omonima mia raccolta di racconti edita dalla Nulla Die nel suo Atelier di Pescara domenica 29 marzo.

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photo by moldrek.com

Non pensiate che sia tutto finito qui.

In cantiere ci sono altri progetti, letterari e non, di cui non parlerò scaramanticamente fino a quando non sarò sicura della loro concreta realizzazione, com’è mia abitudine. Mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato.

Auguri belli di Buona Pasqua a tutti.

Che queste giornate di festa siano occasione concreta e propizia di relax per tutti noi.

Un bacio e a presto

Lucia

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foto presa in web

Presentazioni d’autore: “La pietra di Cesare” di Maurizio Milazzo

Cari amici, qui di seguito troverete la mia recensione dell’ultima fatica letteraria di Maurizio Milazzo, autore romano, di cui avevo avuto in anteprima notizia in occasione della presentazione romana del mio “Pergolato”, avvenuta il 23 maggio 2014 presso la Shakespeare & Co. di Vincenzo Libonati.
Buona lettura e a presto

Il romanzo

“La pietra di Cesare” è il secondo romanzo di Maurizio Milazzo pubblicato per la casa editrice siciliana indipendente Nulla Die. Fa parte di una saga disvelata poco a poco dal suo autore che vede come protagonista Nicola Enaldi, questa volta nei panni di un talentuoso informatico ventenne alle prese con un intrigo a metà tra il paranormale e il fantascientifico con risvolti di tipo giallistico.

La storia si svolge ai nostri tempi ed è incentrata sul personaggio principale di “Strada facendo”, qui ritratto all’inizio della sua affermazione professionale e personale, affiancato da Giulio e Simone, suoi colleghi di lavoro presso la Datatrace S.p.A., società di servizi informatici romana. Nicola è uno studente lavoratore ben deciso a farsi strada da solo, senza agevolazioni che gli provengano dal fatto di avere un padre azionista  di un’industria farmaceutica in cui lui potrebbe certamente trovare occupazione attraverso corsie privilegiate. Grazie alla sua intraprendenza e alla voglia di fare giustizia per sé e per i suoi compagni di lavoro, come lui preoccupati di essere messi in cassa integrazione o trasferiti,   uscirà a venire a capo di un intrigo di tipo finanziario in parte procuratogli dal fatto di aver accettato di aiutare Aulo Tiberio Manlio, centurione della Nona Legio Hispana, giunto a Roma nel terzo millennio grazie ai poteri magici di un amuleto donatogli da Giulio Cesare, suo capo, per catturare Sesto Nasone, l’unico congiurato romano riuscito a sfuggire alla vendetta dei fedelissimi di Cesare grazie a un frammento della stessa pietra magica, carpito con l’inganno all’augusto condottiero nel giorno della sua uccisione.

Nicola e Aulo Tiberio Manlio scopriranno che il loro antagonista ha assunto camaleonticamente le fattezze di “Bellicapelli”, famoso politico locale e incarnazione della politica più becera e opportunistica che possa esistere, cercando di fermarne le malefatte e attirandosene l’ira funesta.

Il romanzo di Maurizio si divora con grande facilità, spingendo il lettore ad andare avanti per poter sapere “come andrà a finire”. Molti gli spunti di riflessione su aspetti salienti della nostra quotidianità offerti dal suo autore: uno tra tanti, quel sottile senso di precarietà alla base del nostro vivere spicciolo, che contribuisce a rendere transitorie tutte quelle cose che una volta duravano per sempre, come un posto di lavoro modesto ma conquistato con fatica. Il narratore si impegna a traghettare ciascuno di noi con estremo garbo attraverso il dipanamento di un intreccio solo all’apparenza facile e scontato, mirando a verificare come, nel corso dei millenni,  in questione di potenziale umano e relazioni interpersonali  sia davvero cambiato poco se peccati capitali come l’ambizione, la sete di potere, un certo “delirio di onnipotenza” propri di tutti coloro che vorrebbero prevaricare i propri simili per assicurarsi, a discapito degli altri, condizioni di vita migliori, siano sempre lì, pronti a venir fuori e a connotare con spietata negatività chi se ne lascia consapevolmente ammantare trasformando la propria esistenza in un modus vivendi d’assalto.

La positività e l’elemento salvifico non mancano: risiedono nella trasparenza dell’ingegner Fiore, preoccupato per il benessere dell’azienda per cui lavora piuttosto che di procacciarsi un’opportunità professionale ghiotta e maggiormente remunerativa altrove; in Mara, amica di vecchia data di Nicola, complice e affidabile senza troppi se e ma; nella lealtà di Giulio e Simone, consapevoli di dover giocare una partita dura e pericolosa per dare manforte all’azienda che ha conferito loro dignità professionale; nel profondo senso del dovere di Aulo Manlio, pronto a inseguire in epoche temporali differenti il suo acerrimo nemico  piuttosto che rischiare di disattendere il compito che si è prefisso di portare a termine: catturarlo e punirlo in modo esemplare.

L’autore

Maurizio Milazzo è nato a Roma nel 1968, si occupa di Sistemi di Pagamento per la Pubblica Amministrazione. Socio della Free Lance International Press, collabora con giornali e riviste, scrive e conduce programmi radiofonici e televisivi su network locali. Da presidente della Promoit Onlus persegue progetti di solidarietà. Nel 2009 pubblica la raccolta di racconti “Sogno o son destro? Incubi di un mancino”. Nel 2012 pubblica in e-book i racconti “Rompete le righe… ma anche i quadretti” e nel 2013 il suo primo romanzo, “Strada facendo”, per le Edizioni Nulla Die.

Maurizio Milazzo, La pietra di Cesare, ISBN: 9788897364962   € 16,00

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The First Time – La prima volta da autrice. Intervista al “Democratico”

Ieri sera mi è capitato di rileggere la mia prima intervista “seria” rilasciata da autrice al web magazine “Il Democratico”. Era il 26 gennaio 2012 e il mio primo libro, la silloge di racconti “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” era appena stato dato alle stampe. Al di là della foto a corredo, che mi ritrae in “posa da affabulatrice” mostrandomi certamente più giovane ( e, magari, forse meno disincantata riguardo alle faccende legate al mondo dell’editoria e alla pubblicazione di un libro di quanto a oggi io sia ), mi sono soffermata a leggerla con un pizzico di attenzione in più. Giusto o sbagliato che sia mi sono rivista appieno: il tempo è trascorso ed è un dato di fatto. E molte cose della mia vita, personale e di autrice, sono cambiate. Restano tuttavia invariati i capisaldi esistenziali, quelli conquistati  in qualche circostanza a denti stretti. Sono ancora in cammino, poco ma sicuro, portando nel mio fardello quotidiano quelle certezze sulle cose e sulla gente sedimentate e poi gelosamente custodite in me stessa, quasi a darmi forza e a spronarmi ad andare avanti, quando il percorso da intraprendere diventa più faticoso e meno agevole.
Un abbraccio a tutti e buona lettura

 

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Incontro con la scrittrice Lucia Guida

 

Abbiamo incontrato nella città dannunziana la scrittrice emergente Lucia Guida, docente di Lingua Inglese: è una splendida quarantenne che ci accoglie nel suo appartamento nella zona dell’università per sorseggiare un tè al bergamotto rigorosamente inglese. Il soggiorno che ci ospita, luminosissimo, ci regala lo spettacolo incantevole di Majella e Gran Sasso al tramonto appena velati dalle nuvole. La sua prima raccolta di racconti “Succo di melagrana. Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” edito da Nulla Die sta raccogliendo il crescente favore del pubblico e recensioni molto positive.  Fra libri, appunti e ricordi di famiglia la prima domanda è d’obbligo: come si diventa scrittrici?

Da un grande amore per la lettura nato precocemente grazie a mio padre e dalla voglia di scrivere storie che ho avuto sin da bambina. Credo che i miei conservino per ricordo ancora qualcuna di queste mie ‘produzioni’. La vita, poi, mi ha portato a scelte importanti come le mie prime esperienze lavorative, all’estero e in Italia, la maternità, che mi hanno fatto temporaneamente accantonare questa mia passione. Scrivere richiede tempo e una certa dose di serenità, anche interiore, almeno questa è la mia opinione. Ho sempre continuato a leggere moltissimo e a scribacchiare postando in un blog i miei ‘appunti di viaggio’, riflessioni sul mio quotidiano più spicciolo…“

Sul suo profilo facebook abbondano citazioni letterarie: colpisce una di Alessandro Baricco tratta da “Questa storia” che recita: “Sono una donna felice, come lo dovrebbe essere qualunque donna nel riverbero di questa età luminosa. Ho debolezze eleganti, e cicatricicharmantes. Non ho più illusioni sulla nobiltà delle persone, e per questo so apprezzare la loro inestimabile arte di convivere con le proprie imperfezioni. Sono clemente, alla fine, con me stessa e con gli altri.” Davvero lei si riconosce in questa frase?

“La citazione è di uno degli autori preferiti miei e di mia figlia. Mi ci riconosco per intero, soprattutto nel riferimento a quelle che l’autore chiama ‘cicatrici charmantes’: vivere appieno è mettersi in discussione e  parimenti accettare anche il rischio di soffrire o di scoprire di se stessi ‘verità scomode’. Credo che questa consapevolezza di fondo, talvolta raggiunta a caro prezzo, ci renda a un certo punto del nostro percorso di vita molto più affascinanti cha a vent’anni e forse più indulgenti verso le fragilità proprie e altrui.“

I suoi racconti descrivono con abilità e disincanto storie femminili
dove spesso le protagoniste vivono amori difficili e contrastati. La sensibilità femminile si scontra inevitabilmente con l’istinto maschile?

“Diciamo che noi donne abbiamo generalmente modalità comunicative verbali maggiori rispetto agli uomini; che investiamo nel sentimento piuttosto che nell’operatività concreta, modalità privilegiata, invece, da voi. Poi ci sono anche moltissimi uomini che hanno scelto di riconoscere (e di accettare!) la parte femminile che è in loro, quella fatta di sensibilità. Come d’altro canto moltissime donne, soprattutto di ultima generazione, che hanno fatto della propria razionalità e lucidità, una volta appannaggio prettamente maschile, un punto di forza del loro agire. Ideale sarebbe, magari, una sorta di complementarietà: accettarsi gli uni e gli altri per quello che si è realmente, per quello che si ha concretamente da offrire, al di là di tipizzazioni ahimè ancora prevalenti nel sentire comune. Una piccola sottolineatura, infine, sulle vicissitudini sentimentali delle protagoniste delle storie: vivono certamente situazioni difficili in cui non c’è sempre posto per l’happy ending, ma alla fine le scelte a cui arrivano sono scelte permeate di speranza, di positività.“

Certe atmosfere del Sud sono lo sfondo privilegiato della sua scrittura. Le sue origini hanno influenzato il suo immaginario emotivo e letterario, ha utilizzato anche spunti del suo vissuto?

“A me piace pensare di essere quella che sono grazie anche alle mie origini e ai valori trasmessi dalla mia terra per il tramite della famiglia. Nei miei racconti, e quindi anche nei sei proposti in ‘Succo di melagrana’, c’è più di uno spunto appartenente al mio vissuto: appunto una storia di famiglia, quella della bambinaia di mia nonna materna nel primo, ad esempio. Ma anche situazioni concrete altrui rivisitate in un’ottica di verosimiglianza in cui, però, c’è sempre posto per una conclusione diversa, personale.“

Quali letture sono state importanti nella sua formazione di scrittrice, considera alcuni modelli imprescindibili per chi voglia accostarsi alla scrittura?

“Da apprendista affabulatrice quale io mi reputo non ho purtroppo potuto avvalermi di corsi di scrittura creativa. Ho sempre, però, letto moltissimo senza limitazioni temporali di sorta con particolare riguardo alla narrativa italiana e straniera; se penso a dei modelli me ne vengono in mente diversi: Thomas Hardy, Jane Austen ma anche Natalia Ginzburg. Sidonie Gabrielle Colette, magari oggi poco apprezzata, Honoré de Balzac. Piacevolissimi i romanzi di Gianrico Carofiglio, scrittore barese di eccellenti legal-thriller, di cui sono una grande estimatrice caratterizzati da uno stile sobrio, essenziale: diretto.“

Ha sempre un libro sul suo comodino e quali libri porterebbe con sé su un’isola deserta per non sentirsi mai sola?

“Il libro attualmente sul comodino è ‘Adamo ed Eva’ di Mark Twain, incentrato sull’eterno conflitto tra uomo e donna, consigliatomi da una cara amica divoratrice di libri come me. Sull’isola deserta porterei decisamente tutti i romanzi di Jane Austen, da me collezionati con certosina pazienza, possibilmente in edizione originale.“

La scrittura al femminile anche in Italia sta conoscendo una stagione di notevole consenso di pubblico. Ama oppure odia qualche autrice in particolare?

“ Consenso e gradimento del pubblico credo siano un omaggio più o meno velato alla grande sensibilità femminile. Ho un ricordo molto tenero dei romanzi di Brunella Gasperini, divorati da adolescente. Credo di non odiare nessuna autrice anche se è capitato talvolta che non portassi a termine la lettura di qualche libro…“

Erotismo e letteratura spesso vanno d’accordo: lei stima più le scrittrici audaci o quelle socialmente e politicamente impegnate?

“Ammiro fortemente chi in maniera aperta e senza pruderie di sorta fa dell’erotismo e della femminilità più intima materia dei propri libri incarnando desideri e fantasie profondi del lettore, anche se le mie simpatie vanno per tutte quelle donne che sono impegnate nel sociale  e nella politica. Sono una bella spinta alla riflessione pubblica, al ruolo della donna nella società e alle sue infinite potenzialità … “

Le donne nel Belpaese non sono mai abbastanza presenti in politica, nel mondo del lavoro e purtroppo anche della cultura. Abbiamo un atavico complesso maschilista?

“Una risposta sincera, scevra da posizioni oltranziste? Io credo di si e lo dico con infinito dispiacere, con quella sottile sofferenza femminile che si prova nell’avere quotidianamente la sensazione di “non essere mai abbastanza” e, di conseguenza, dover faticare il doppio, il triplo per convincere chi si ha di fronte della propria intelligenza e valore intrinseci. In situazioni complesse e straordinarie  come in episodi di vita vissuta e spicciola.“

Pescara è stata a lungo al centro della drammatica scomparsa di Roberto Straccia, lo studente trovato poi morto sul lungomare di Bari. Come ha vissuto questa vicenda piena di ombre che ha smosso una città intera?

“Sono d’accordo, è una vicenda ancora piena di ombre, di chiaroscuri in cui è difficile intravvedere linee precise. Mi ha colpito la determinazione della famiglia di Roberto nello sperare sino alla fine in una conclusione diversa, più umana. Come madre credo che non vi sia al mondo dolore peggiore e contro natura di quello della perdita prematura di un figlio.“

Si dice spesso che i giovani figli di internet non amino leggere: lei oltre che insegnare è anche madre di due figli. Crede che gli italiani siano inguaribilmente pigri o che i docenti non sappiano motivare abbastanza?

“Dovrei rispondere da prof o da mamma? Scherzi a parte, credo di avere spezzato più di una lancia a favore della lettura. Che nell’invogliare in tal senso i propri figli servano innanzi tutto buone pratiche genitoriali:  un buon libro come regalo quale alternativa al più costoso e gettonato video gioco del momento… Ma la lettura come buona abitudine necessita anche di insegnanti sensibili e attenti che sappiano proporre ai propri alunni titoli stimolanti, che li crescano con il gusto della carta stampata. Insomma, che alla teoria più raffinata corrisponda una pratica di sostanza a 360°.“

Vivere e lavorare nella città di Gabriele d’Annunzio ed Ennio Flaiano non la condiziona in qualche modo, scrivere nella città di due mostri sacri non le crea un certo imbarazzo?

“No, affatto. Mettiamola così: la mia è la stessa ammirazione che una brava donna di casa prova di fronte alle raffinatezze preparate da uno chef rinomato. Non c’è contrasto né imbarazzo, dal momento che l’una e l’altro sono impegnati in ambiti differenti. Ciò non toglie che la brava donna di casa non possa cimentarsi nella preparazione di una prelibatezza: non raggiungerà magari la perfezione del primo, ma si divertirà e imparerà senz’altro qualcosa, che poi è, forse, la cosa più importante.“

Sta preparando un seguito alla sua prima silloge di racconti o preferirà  cimentarsi con un romanzo vero e proprio? Vuole darci qualche anticipazione.

“Per scaramanzia non anticipo niente, ma come ho già detto ad altri, dopo questa prima silloge di racconti non intendo mettere limiti alla Provvidenza. Ricorro a un’altra citazione, questa volta di Daniel Pennac che recita: ‘Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare.) Rubato a cosa? Diciamo, al dovere di vivere’. Bello è quando al dovere/piacere di vivere si riesce a coniugare la soddisfazione sottile di sviluppare un’idea fino a vederla concretizzarsi in una storia compiuta.“

Grazie per il tè, squisito davvero, come i biscotti preparati con estrema cura, una ricetta segreta naturalmente. Il sapore di melagrana li ha resi ancora più delicati!

“Le ciambelline sono un felice connubio di tradizione culinaria abruzzese e pugliese. La melagrana una piccola e gradevole concessione scaramantica e innovativa all’oggi…“

 

Martino Cristiano*

* Il link originale dell’articolo lo trovate qui

 

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Presentazioni d’autore: “Strada Facendo” di Maurizio Milazzo

Maurizio Milazzo è un autore romano pubblicato dalla Nulla Die di Piazza Armerina (EN), da me conosciuto in occasione dell’edizione di Più Libri Più Liberi 2013. “Strada facendo”, edito nel 2013 e da me qui recensito, è il suo romanzo di esordio.
Dello stesso autore “La pietra di Cesare”, romanzo storico umoristico di imminente pubblicazione.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

 

Immaginate di dover fare un viaggio sostanzioso, da Roma a Großostheim Ringheim Flughafen per esempio, magari per riabbracciare nuovamente la donna della vostra vita, conosciuta in un’occasione singolarissima, nella citta che è la vostra e a casa dei vostri genitori dai quali non capitate spessissimo. 

E’ quello che accade a Nicola Enaldi, giovane impiegato romano, ben deciso a compiere un tragitto di tutto rispetto in autostrada, casello dopo casello, accompagnato da un’ottima colonna sonora musicale, varcando  ben due confini nazionali alla ricerca di un sogno che sta per concretizzarsi dopo un lungo tempo di attesa e di riflessione.

La strada è certamente lunga e quale occasione migliore per Nicola di frugare nella sua memoria rivisitando quei luoghi appena sfiorati e annunciati da un cartello stradale, riassaporandone i ricordi e gli aneddoti ad essi legati, curiosità di vario genere incluse; ma anche riascoltare per radio, grazie a un più che tempestivo DJ,  canzoni della sua adolescenza e del suo tempo presente, ben allineate in mente a segnare momenti passati, resi piacevoli da un senso di amarcord vivido, a tratti struggente come sanno essere quelle cose che ti sono rimaste dentro pur non essendo più temporalmente alla tua portata.

Assonanze scherzose, aneddoti gustosi e immagini ancora intense nella mente di questo viaggiatore che ha deciso di raccontarsi in prima persona, non rinunciando tuttavia a segmenti di narrazione “seri”, da narratore onnisciente in terza persona, finalizzati a descriverci Nicola nei momenti cruciali di quest’esperienza: per esempio nell’atto di decidere qualcosa che non sia semplicemente una variazione su tema di un percorso prestabilito. Pensieri e riflessioni si rincorrono, ritmando il tempo di questa storia dalla durata di poco meno di un giorno, a ridosso di un perno cardine del nostro millennio, l’11 settembre 2001, segnando la fine e il principio di un tempo nuovo, forse più consapevole, certamente più disincantato, per quest’uomo alla riscoperta di se stesso ma anche, forse, per tutti noi.

“C’è sempre un forse nella vita … forse” è tra le frasi preferite di Nicola; una sorta di motto scaramantico che lui ama ripetersi per mettersi a riparo dagli inconvenienti dell’ultim’ora, mai come in questo frangente dal sapore realmente profetico. Per incontrare Alina gli toccherà, infatti, percorrere un bel po’ di strada in più, prolungando la chiacchierata con la propria anima sino ad arrivare a Berlino, dal momento che l’attentato alle Twin Towers newyorkesi ha influito, sia pure in misura infinitesimale ma certamente con concretezza, anche sul suo destino e su quello della sua ragazza.

Maurizio Milazzo si diverte a giocare sulla curiosità del lettore, in alcuni casi soddisfacendola con dovizia di particolari e cesellando pagine degne del miglior monologo interiore in cui, talvolta, c’è solo l’imbarazzo della scelta per poter passare da un argomento all’altro. Lasciando al lettore, tuttavia, la possibilità di completare degnamente questa narrazione con un finale a scelta, adattabile (mi piace pensarlo!) all’indole del suo pubblico.

Lo stile è fresco, frizzante, mai eccessivo, dando a chi legge l’impressione di una guida sapiente ma pronta ad adattarsi al percorso intrapreso, tra rettilinei e curve, per portare sino alla fine del tragitto chi ha voglia di spiccare, Nicola al fianco, voli di pensiero fatti di buonsenso, saggezza esperita, semplice e bonario fatalismo  privo di rassegnazione e ricco di costruttività.

“Roma, Berlino, cosa importa il luogo per due persone che si amano? “ è una delle conclusioni a cui l’autore arriva, lasciandoci intravvedere un finale connotato positivamente, ma ricordandoci comunque di tenere bene a mente la differenza che passa tra “viaggiatore” e “turista” , il primo ben deciso ad assaporare le mille sfaccettature dell’esistenza e il secondo impegnato, viceversa, a recitare , evitando di prendere attivamente posizione per vivere e agire.

 

 

L’autore

Maurizio Milazzo è nato a Roma nel 1968, si occupa di Sistemi di Pagamento per la Pubblica Amministrazione. Socio della Free Lance International Press, collabora con giornali e riviste, scrive e conduce programmi radiofonici e televisivi su network locali. Da presidente della Promoit Onlus persegue progetti di solidarietà. Nel 2009 pubblica la raccolta di racconti “Sogno o son destro? Incubi di un mancino”. Nel 2012 pubblica in e-book i racconti “Rompete le righe… ma anche i quadretti”.

 

Maurizio Milazzo, Strada facendo, ISBN: 9788897364696, € 10,00

 

 

NB: Il link originale della presente recensione è qui

Succo di melagrana

 

 

 

“Succo di melagrana” è un mio componimento poetico in versi sciolti da cui prende il nome la mia prima opera da solista, una silloge di  sei racconti in cui narro storie di donne in bilico tra passato e presente, pubblicata dalle edizioni Nulla Die di Piazza Armerina a principio del 2012.

E’ un ritratto al femminile di ciò che ciascuna donna potrebbe diventare a un certo punto del cammino intrapreso grazie alla consapevolezza acquisita in itinere.

La melagrana, agrodolce e succosa, poco appariscente ma in realtà scrigno dell’essenza femminile per antonomasia, viene da me indicata come frutto privilegiato per rappresentarci a tutto tondo al mondo intero

Buona lettura

 

 

Succo di melagrana

 

Mi chiedi come sono

e insisti per saperlo.

Io sono io

e non so spiegarlo

talvolta neanche a me.

Sono tessuto leggero di

pashmina del Kashmir,

morbida e avvolgente dal

disegno piccolo e ricercato,

e non pezza di velluto di seta

sfrontatamente

impositiva;

sono argento indiano

lavorato con turchese o

ametista

e non trilogy di brillanti

in elegante confezione regalo.

Sono sottobosco d’autunno

dorato

e non esplosione di verde rigoglio

Sono tramonto che sfuma nel blu violetto della sera

o alba che tinge appena di luce e colori

tenui l’orizzonte

e non mezzogiorno accecante

e torrido.

Felice di essere così,

A volte anche senza parole,

mai più senza speranze

o amore verso me stessa.

Con una piantina

da crescere sul mio balcone,

o un fiore da curare,

in un goccio d’acqua

in un vaso di vetro

colorato

in camera

da me.

Succo agrodolce

di melagrana

che ti disseta

con discrezione

lasciando traccia

vermiglia

indelebile

sulla tua mano.

 

L. Guida *

“Succo di melagrana” in Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

 

in foto immagine di Persefone presa dal web

Presentazioni d’autore: “Gli imbecilli? Stanno tutti bene” di Giuseppe Cagnato

“Gli imbecilli? Stanno tutti bene” è il romanzo d’esordio di Giuseppe Cagnato, autore di Nulla Die, casa editrice  per la quale ho pubblicato i miei primi due libri da solista. Anche in questo caso la passata edizione di “Più Libri Più Liberi” è stata occasione “galeotta” per conoscere dal vivo Giuseppe, nella vita progettista e arredatore, partecipando assieme ad altre penne nulladieane a una bella e nutrita tavola rotonda domenica 8 dicembre 2013.

“Gli imbecilli? Stanno tutti bene” è stato pubblicato a fine 2012 per la collana lego narrativa.

La recensione è presente anche mio spazio  potpourri di LiberArti Social Reader Writer Artist.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

Umberto è impiegato in uno studio di architettura come travet competentissimo ma sottostimato e sottopagato; a un certo punto della sua vita ha la ventura di apprendere la notizia di un’offerta di lavoro piuttosto singolare. Vanda, imponente ed evocativa signora di una certa età, in bilico tra l’omonima soubrette del teatro di rivista  e Moira Orfei, è alla ricerca di un custode sui generis che faccia da supervisore e, per certi versi, moderi le intemperanze degli inquilini di un condominio di provincia di cui possiede la totalità degli appartamenti. Una sorta di ago della bilancia a cui delegare la grossa responsabilità di segnalare il più meritevole per ottenere in eredità, a fronte di bontà, sensibilità e onestàda questi accertate e certificate, in caso di una eventuale dipartita della ricca proprietaria, la totalità delle unità immobiliari.

Alla ricerca spasmodica di una svolta in positivo nella sua vita, connotata da cieli più blu e aria maggiormente rarefatta di quella sino a oggi respirata, Umberto decide di accettare la sfida e trasferirsi nel palazzotto, apprestandosi a condividere di buon grado le storie più o meno dolenti della variegata umanità che lo popola. Ciascuno, infatti, ha deciso di celare al nuovo arrivato la propria intima natura con maggiore o minore sapienza, anche perché la notizia che sarà proprio lui a decidere di segnalare l’erede più papabile a Vanda si è già diffusa attirando, tra l’altro, le proteste veementi di un monsignore, tale don Tarcisio, infastidito dalla prospettiva oramai sempre più concreta, di perdere il lascito a Santa Romana Chiesa delle proprietà dell’esuberante vecchina.

La convivenza a stretto giro con i coinquilini del palazzotto di via Europa, angolo via Terranova, non è delle più facili.

L’idea di un’eredità insperata ha, infatti, portato a galla ogni sorta di conflitto e divergenza, dando corpo e sostanza al più infinitesimale granello di sabbia fino a farlo diventare una montagna pronta a travolgere chiunque si incaponisca a scalarla. E il povero Umberto, che avrebbe voluto intravvedere qualcosa di più di una maschera menzognera, di una forma mero specchio di sostanza, nelle sembianze degli undici inquilini, finisce col metabolizzare questo coacervo di emozioni e sensazioni contrastanti, spesso negative, in un’incipiente colite che lo spinge a meditare di gettare via la spugna.

Venendo meno al suo proposito iniziale, Umberto non ce la fa a fronteggiare con la giusta ironia questa singolar tenzone ed ecco la vita venirgli incontro per livellare, per buona pace sua e magari, inconfessabilmente, della stessa Vanda, meno per qualcun altro, la situazione oramai ingestibile e in piena caduta libera. Con un botto finale, metaforico e letterale, che finisce col collocare fuori gioco vinti e vincitori, spingendo il malcapitato custode in primis a tentare nuove strade, con geniale e provvidenziale lungimiranza. Quella di un novello e sapiente apprendista affabulatore, pronto a ripartire da zero e ad accettare di scommettere ancora su se stesso, almeno per quella parte di destino che gli è dato, in qualche modo, di dirigere autonomamente.

Nel condominio di semiperiferia al centro della narrazione c’è spazio per molte delle contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca: vestigie di discriminazione razziale e sessuale, moralismo a buon mercato e condanna per chiunque cerchi di affermare la propria individualità, foss’anche attraverso pratiche new age considerate con sospetto prima di essere bollate come amorali. La forma di non omologazione più genuina è, forse, quella sancita con sconcertante candore dalle azioni di una coppia di anziane, Norina e Irma, pronte a mettersi in gioco, a torto e a ragione, con le loro strampalate e paradossali soluzioni, nelle vicende routinarie dei loro coinquilini con maggiore efficacia degli altri, certe di contribuire sempre e comunque al bene comune.

La scrittura di Giuseppe Cagnato è asciutta, incisiva e graffiante, evidenziando in modo lucido e, per certi, versi ironicamente spietato l’umana fragilità dei tanti personaggi che porta in scena. La sensazione è di un atteggiamento globalmente empatico dell’autore con una scucitura piccolissima, ma tuttavia significativa, di autentica simpatia per il povero Umberto, all’inizio della vicenda ricco di aspettative, vanificate pian piano dall’imbecillità altrui, vigorosa come la miglior gramigna in un campo di grano. Una fiammella di speranza ( “maledetto sia chi la spegnerà per sempre!” ) è la considerazione finale, amara e dolente del protagonista, che tuttavia non demorde e continua a guardare avanti, spedendo in un plico a terzi la sua unica possibilità di salvezza da un mondo incaponito a continuare inderogabilmente per la propria strada.

 

 

L’autore

Giuseppe Cagnato, quarantottenne trevigiano di mestiere progettista e arredatore, appassionato di scrittura e lettura nel tempo libero, suggella con il romanzo “Gli imbecilli? Stanno tutti bene”, pubblicato a inizio del 2013, il suo esordio narrativo per i tipi della Nulla Die, casa editrice siciliana indipendente.

 

Giuseppe Cagnato, Gli imbecilli? Stanno tutti bene, ISBN: 9788897364559, € 16,00  

 

 

 

Alla fine del 2013

E’ un dicembre dolce e pacato quest’ultima finestra sul 2013.

Chiude un anno variegato e bizzarro, in cui ho potuto fare il punto di tante situazioni, professionali ed extraprofessionali. Tanta consapevolezza in più ma anche tanta gratitudine verso i molti eventi che lo hanno caratterizzato in positivo.

Per la scrittura, coltivata ancora come hobby accanto al mio lavoro full time di docente, dicembre mi ha portato belle novità e piccole ma importanti gratificazioni.

Ho partecipato per la seconda volta alla XII edizione di Più Libri Più Liberi, fiera della piccola e media editoria romana, contribuendo alla tavola rotonda “Amori e tradimenti. Quante letture?” organizzata da Nulla Die, la mia casa editrice. Per me e per le personagge dei miei scritti un vero e proprio invito a nozze.

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Il mio racconto “Destini” si è classificato al III posto al Premio Letterario “Le streghe di Montecchio” 2013; verrà pubblicato assieme agli altri due testi vincitori nel 2014 da Fefè Editore  e presentato nella cornice suggestiva di un evento patrocinato dal Comune e dalla Provincia di Viterbo.          A “Destini” sono molto legata: è la mia unica prova a oggi esistente di racconto lungo  (superiore alle 30.000 battute ) e una vera e propria chicca per una come me, scrittoriamente stringata  fino all’osso.

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Con alcuni amici virtuali scrittori c’è un progetto bellissimo , un’antologia di racconti incentrata sul ricordo di un giocattolo della nostra infanzia che mi ha coinvolta sin dall’inizio. Un piacevolissimo intermezzo scrittorio per ricordare ( e ricordarci! ) che c’è sempre posto per “odore e sapore di bimbo” nel nostro cuore. L’antologia è curata da Federica Gnomo Twins,  scrittrice e blogger assai versatile. L’immagine che posto qui di seguito è molto evocativa. Se faremo in tempo, sotto l’albero di molti, quest’anno, ci saranno piacevoli novità.

I giocattoli raccontano

Venerdì 13 dicembre, giorno per me speciale da una vita perché giorno del mio onomastico, presenterò per l’ultima volta in questo 2013 il mio bel “Pergolato” presso l’Emporio Primo Vere di Pescara. Se siete in zona siete i benvenuti!

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 Per il resto noi non mettiamo limiti alla provvidenza …

Un caro saluto a tutti e a rileggerci presto, magari con uno dei miei racconti brevi

Un dì di festa

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“Chop Suey”, E. Hopper (1929)

La vita di provincia è sempre complessa. Non puoi nasconderti in un anonimato comodo e complice e capita assai spesso che di te si sappia ogni cosa. L’esistenza di ciascuno diventa, quindi, una sorta di telaio in cui qualcuno ha provveduto parzialmente a tessere un ordito senza limitazioni di sorta. Finendo col lasciare più o meno inconsapevolmente troppo spazio ad altri per completarne la trama.

La mia proposta di lettura per voi è, oggi, il racconto breve “Un dì di festa”, parte della mia silloge “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” per i tipi della Nulla Die di Piazza Armerina (EN). La raccolta, in ristampa già dopo il primo mese di vita, è stata pubblicata all’inizio del 2012.

“Un dì di festa” è la storia pacata e molto verosimile di Tina ed Erminia, amiche, in un paese del Sud del secondo dopoguerra alle prese con la celebrazione della festa patronale.

Buona lettura

Un dì di festa*

 

… E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etate

Del mio dolore…

 

G. Leopardi, Alla Luna in Canti

 

 

 

L’essenza della sua giornata era tutta lì, in quella tazzina di caffè forte con poco zucchero, centellinata pian piano nel tinello schermato dalle imposte socchiuse. Avvolta nella vestaglietta di seta a rosolacci rossi e rosa morbidamente annodata in vita, Tina se la gustò sino all’ultimo goccio mescolato a una punta di zucchero rimasto e a pochi granelli di polvere scura sfuggiti al filtro della caffettiera napoletana. Troppo esigui per leggervi il futuro come sua nonna era solita fare. Pensò alla giornata senza di lui che l’attendeva e a tutte le altre giornate a venire simili a questa che si sarebbero inevitabilmente avvicendate. Quella settimana era stata la donna del sabato, ma in passato le era occorso di essere donna del lunedì o di un qualsiasi altro giorno feriale. Raramente festivo. Lui non avrebbe potuto. Aveva moglie e figli con cui celebrare ogni ricorrenza e festa comandata del calendario, a meno che non si trattasse di un urgente viaggio di affari che lo impegnava inderogabilmente dalla domenica sera. Ma capitava molto di rado. Il campanile della piazza principale del paese suonò otto rintocchi e lei si riscosse. Afferrò le due tazzine e le poggiò nell’acquaio in cucina. Poi andò in camera per abbigliarsi per recarsi al lavoro.

— Signora Tina, buongiorno, la salutò con deferenza Matteo il barbiere, in maniche di camicia e sull’uscio in pausa dopo il primo taglio e frizione della giornata.

— Buongiorno, Matteo, gli sorrise lei, la veletta appena abbassata nonostante l’aria calda e ferma già a quell’ora del mattino. E passò avanti, guadagnandosi rapidamente la strada tra le bancarelle del mercatino delle erbe e le ali di venditori estemporanei, senza fermarsi ai loro richiami. Aveva già quello che le bastava, per quel giorno non intendeva comperare nulla. Le imposte della merceria erano già aperte, segnale inequivocabile che Annina era arrivata e aveva aperto il negozio alla solita ora.

— Signora buongiorno.

— Buongiorno Annina … La ragazza continuò a spolverare diligentemente il bancone di legno chiaro su cui erano poste ben in fila scatole e scatoline di trine e gale, insistendo con foga per cancellare le ultime impronte lasciate dal giorno prima. A lei toccava ricevere gli acquirenti, inventariare le merci e ogni sera pulire il negozio. Quel venerdì, però, aveva terminato prima.

Pietro, il suo fidanzato, ora in servizio di leva, aveva avuto una licenza breve per tornare al paese per la festa patronale e lei aveva domandato il permesso alla signora di poterlo andare a prendere alla stazione.

— Pietro sta bene?, s’informò Tina. L’altra sorrise e disse che sì, lui stava bene ed era contento di essere giunto quasi a fine naia.

Tra poco meno di due mesi si sarebbe congedato e in casa da lei avrebbero potuto concretamente parlare di nozze. Già si vedeva, il lungo abito bianco di raso e un velo spropositato che finiva al termine della navata centrale della chiesa madre, al braccio di uno zio materno perché lei era orfana di padre e non aveva fratelli maschi.

Uno scampanellio deciso segnò l’ingresso della prima cliente e Annina storse il naso, riconoscendola. Era la signora Irma, moglie del farmacista. Avrebbe preteso l’impossibile, rivoluzionato il negozio e alla fine se ne sarebbe andata a mani vuote senza comprare niente. Sospirò rassegnata.

— Buongiorno, signora Irma, la accolse Tina ricevendo a mo’ di saluto un cenno del capo appena ingentilito da una smorfia che aveva ben poco di amabile. L’altra la studiò da capo a piedi, notando con estremo disappunto come in lei non vi fosse niente di sbagliato o eccessivo.

— Avrei bisogno di qualcosa per ornare la falda di questo cappellino …, esordì finalmente, esaminando con sguardo critico i barattoli di vetro colmi di fiori artificiali e ordinati nella scaffalatura con gusto impeccabile. Tina fece un segno impercettibile ad Annina, che aveva fatto il gesto di avanzare verso di lei. Ci avrebbe pensato lei a servire la signora e fu quanto fece. Alla ragazza non restò che riavvolgere con cura eccessiva della passamaneria che era stata momentaneamente accantonata in una valigetta di cartone sotto il bancone, sbirciando in contemporanea il via vai dei passanti, richiamati in strada dal bel sole di maggio. Nel frattempo erano entrate altre due clienti, madre e figlia, in cerca di certe applicazioni di pizzo con cui ornare il davantino di un abito. Annina le servì con competenza e gentilezza, compatendo la sua padrona ancora alle prese con quella donna sempre così indecisa. Poi fu un susseguirsi di persone arrivate alla spicciolata una dietro l’altra per gli ultimi acquisti per quel giorno speciale, da tutti pregustato e atteso con gioia. In cui ciascuno dei paesani avrebbe mostrato il meglio di sé rispolverando l’abito buono per lo struscio sul corso o per ascoltare ai piedi del palchetto in piazza la banda di un qualche paese limitrofo giunta appositamente per l’occasione. Oppure passeggiando mollemente per il viale alberato sfilando davanti ai banchetti della fiera pieni di merci di ogni tipo. A ora di pranzo entrambe erano sfinite, ma decisero comunque di riporre con cura ciò che non era stato possibile conservare al momento, prima di serrare definitivamente le imposte. Quel pomeriggio niente vendita. C’era la Madonna in processione attorniata da una miriade di santi e angeli, evento al quale non si poteva mancare. Annina prefigurò brevemente la serata che si sarebbe concessa al braccio del suo Pietro e che sarebbe culminata negli spettacolari e consueti fuochi d’artificio a notte inoltrata a ridosso della campagna. Anche lei si sarebbe pavoneggiata nel suo abitino a giacca color celeste polvere, borsetta e scarpine di capretto bianco. A quella toeletta aveva destinato i risparmi di qualche mese, aiutata da sua madre, abile sarta, col vantaggio di poter acquistare a buon prezzo stoffa e accessori nel negozio in cui lavorava.

— A lunedì, salutò alla fine, dopo aver riposto l’ultimo rotolo di gros-grain nel cassetto, chiedendosi fugacemente come la sua datrice avrebbe trascorso quel breve intermezzo di festa.

Ma fu un attimo solo e la ragazza chiuse dietro di sé la vetrina con lievità, allontanandosi al fianco del suo Pietro, in paziente attesa, una sigaretta dopo l’altra, all’angolo della via. Tina li accompagnò con uno sguardo comprensivo e indulgente, senza la minima ombra di livore. Avevano tutte le carte in regola per essere felici. Erano giovani, ansiosi di vivere e pieni di speranza. Perché la vita non avrebbe dovuto accontentarli?

Di ritorno a casa, si fermò a bussare al portoncino di Erminia, la sua amica più cara. Una delle poche che non l’aveva giudicata per le sue scelte di vita più recenti in quel paesino di provincia in cui tutti amavano a dismisura passare minuziosamente al setaccio la vita altrui sorvolando per contro con troppa leggerezza sulle proprie debolezze.

— Tina, accomodati.

L’altra si affrettò per la scalinata ripida e scomoda che portava al primo piano e a un disimpegno su cui davano tinello, cucina e uno studiolo in cui Erminia preparava le sue lezioni. Era professoressa di lettere e aveva studiato all’università, cosa ragguardevole e degna di nota. Non si era mai sposata. Qualcuno insinuava che fosse rimasta legata al ricordo di un amore di gioventù. Si era tanto parlato di quel fidanzamento in semi clandestinità col medico condotto, osteggiato dalla famiglia di lui. Alla fine il dottorino aveva preferito a lei una ragazza di famiglia facoltosa che aveva assolto con premura e coscienza ai suoi doveri di moglie portando una dote cospicua e dandogli cinque figli. Le due amiche presero accordi per la serata. Si sarebbero incontrate dopo la consueta siesta pomeridiana. Il caldo e le rondini non avevano mancato all’appuntamento annuale caratterizzando con la loro presenza quella ricorrenza che per tutti era celebrazione religiosa e rito propiziatorio per la bella stagione oramai imminente. Tina si alzò dalla poltroncina capitonné e voltandosi le annunciò con noncuranza che lui era ripartito. Quindi si diresse verso le scale, reggendosi fermamente al corrimano di ferro per guadagnare velocemente l’uscita. Erminia non commentò. Qualsiasi cosa avesse aggiunto alla precisazione dell’altra sarebbe stata inutile. Inutile e dannosa, aggiunse. Si accese con mano ferma una sigaretta e ne aspirò avidamente l’aroma. Tina era una delle tante vedove di guerra che delle gioie del matrimonio avevano conosciuto pochissimo. Lui era partito per il fronte due giorni dopo le nozze, celebrate in grande fretta e sobrietà, e non era più tornato. Lei lo aveva atteso a lungo non rassegnandosi a quella fine precoce che l’aveva lasciata sola al mondo. Per un lungo periodo si era trascinata tra le macerie della sua vita, rifiutando una qualsiasi forma di ricostruzione, semplicemente lasciandosi vivere. Sino a quando non era comparso lui, aitante commesso viaggiatore, che non le aveva promesso niente (e del resto come avrebbe potuto?) ma che l’aveva riportata in superficie. A Tina tanto era bastato.

Naturalmente c’era chi aveva pontificato sulla sconvenienza di quell’amicizia ”indecente” e le comari del paese l’avevano senza appello condannata, celando sotto i loro sguardi impassibili giudizi morali irriferibili e severissimi. Ciò nonostante Tina aveva continuato a procedere a fronte alta da combattente nata, schivando tanta palese disapprovazione e commenti ingenerosi con abilità e leggerezza ostentate. Erminia sentì dentro di sé un moto che era insieme amore e odio per quel paese natio così abbarbicato ai pregiudizi da preferire la pura apparenza alla reale sostanza nelle cose. ”Cambierà mai qualcosa?”, si chiese dubbiosa e con un po’ di amarezza, sbriciolando con decisione nel posacenere quello che restava di quella cicca fumata con rabbia e perdendosi in un ricordo lontano.

La musica era piacevole e invitante da ascoltare tra i tavolinetti del caffè di piazza occupati dalla gente che contava. C’erano anche loro a gustare una fetta di cassata rimirando divertite il passeggio variegato che si offriva ai loro occhi. Più di un concittadino ammirava estasiato le luminarie allestite dall’amministrazione comunale nel centro urbano e lungo i viali alberati che portavano alla stazione e ai giardini pubblici. Ogni cosa di quella serata era il riflesso studiato di una grandiosità che aveva dell’incredibile dopo il lungo periodo di guerra e privazioni che li aveva flagellati. C’era un’autentica voglia di rinascita scaramanticamente esibita da quella parvenza di lusso e benessere mostrati quasi con sfrontatezza. Da lontano il farmacista, moglie e prole al seguito, fece loro un cenno di saluto. Tina, ricambiando educatamente, si attardò a considerare l’abito rigoroso di seta dai toni pacati indossato dalla donna a malapena stemperato dalla paglietta con il suo tralcio di glicine pastello, indugiando anche sui due figli, ragazza e ragazzo, palesemente a disagio negli abiti nuovi. Erminia li guardò con indulgenza. I gemelli, entrambi in classe con lei, erano bravi alunni. Tuttavia stette al gioco e continuò a tratteggiare con leggerezza con l’amica un paesano o l’altro suscitando spesso la sua ilarità. La voce le si affievolì in gola soltanto quando vide sopraggiungere da lontano, portati verso di loro da una fiumana vociante e briosa di gente, il suo amore di un tempo, ora marito e padre integerrimo, accompagnato dalla moglie e dai figli. Per qualche istante distolse lo sguardo, sperando che l’incedere sostenuto della folla li portasse lontano da lei, ma invano. Per tutti decise un venditore ambulante di palloncini, cui la famigliola si era rivolta per accontentare i figli minori, fermandosi a pochi passi dal loro tavolino. Impossibile far finta di niente. Per qualche frazione di secondo lei poté scrutare da vicino, ricambiata, quel bimbo, loro ultimogenito, che le sorrideva ignaro, il palloncino rosso legato a un polso, pensando al viso di quel figlio che pure per pochi mesi aveva anch’ella portato in grembo: a come sarebbe stato a quell’età, al colore che avrebbero avuto i suoi occhi, scuri come quelli del piccino che aveva di fronte o forse castani come i suoi. Con struggimento rinnovò quell’antico dolore che l’accompagnava ancora, macerandola senza tregua, e che le aveva impedito di pensare a un amore nuovo e a una nuova vita da far germogliare e sbocciare dentro di sé.

All’improvviso un colpo lontano ristabilì equilibrio facendola trasalire. Era il segnale convenuto di inizio dei fuochi. La moltitudine febbrilmente invertì la propria direzione, come un ordinato sciame di api che con diligenza cerca di seguire la propria regina, puntando velocemente verso quel richiamo e spopolando le vie cittadine, fino a poco prima brulicanti. Lei e Tina indugiarono lì impigrite a sbirciarne dalla piazza soltanto il riflesso variopinto e multicolore nel cielo oramai di velluto scuro, cullate dalla sinfonia di un noto melodramma, brano finale della serata, volenterosamente suonato dai musicisti per i pochi ascoltatori rimasti. Il loro applauso garbato si confuse con il fragore prepotente dei botti e loro si affrettarono con gli ultimi avventori a lasciare i tavolini al lavoro di riordino del cameriere in farfallino con i capelli impomatati di brillantina, ben felice di mettere la parola fine al quel faticosissimo turno di lavoro.

— Ho sempre amato la Tosca, esordì Tina, mentre i lastroni di pietra locale della stradina che le portava verso casa rimbombavano dei loro passi lenti. Erminia le sorrise e si accese l’ultima sigaretta, fumandola con la solita bramosia. Era stato uno strano sabato, pensò. ”E la domenica non sarebbe stata da meno”, aggiunse mentalmente, gettando in terra quello che rimaneva del mozzicone.

— Mi chiedevo, …

— Cosa, volle sapere Erminia.

— Se alla fine valga davvero la pena morire per amore, buttò lì Tina.

Erano giunte al portoncino dell’altra, già pronta a inserire nella toppa la pesante chiave di ferro brunito. Erminia si voltò pensosa, la mano a mezz’aria e la guardò. Sapeva che l’amica aveva sofferto e che la situazione attuale, apparentemente vissuta con nonchalance, era in realtà per lei fonte di profonda insoddisfazione. Scrollò le spalle, sentendosi all’improvviso stanchissima.

— Non saprei, Tina, temporeggiò. Domani passo a prenderti io per la funzione solenne se vuoi, propose poi con un mezzo sorriso. L’amica fece di sì col capo e le augurò piano la buonanotte prima di andar via.

Erminia salì adagio le scale, una rampa dopo l’altra, sino a raggiungere il secondo piano della sua abitazione con le tre stanze da letto vuote e perfettamente in ordine ed entrò nella sua, lasciando spenta la lampada sul comodino. Con antica abitudine tra le fessure delle persiane accostate sbirciò per strada, intravvedendo la sagoma di una coppia di innamorati che si baciavano con foga, protetti da un lampione provvidenzialmente spento prima che altra gente sopraggiunta d’improvviso li mettesse in fuga. Erminia chiuse le imposte e accese finalmente il lume, lasciandosi cadere seduta sul letto e perdendosi nella contemplazione silenziosa di una foto di diversi anni prima, mentre l’odore pregno di aria umida di quell’estate precoce e già così vicina si mescolava al profumo dei gerani rossi in prorompente fioritura sul suo balconcino, avviluppandola. La scuola avrebbe chiuso con i lavori di mietitura e trebbiatura per riaprirsi, come sempre, al profumo intenso del mosto conservato nei tini delle cantine interrate e fresche. Prese un libro di poesie poggiato di lato sul comodino apprestandosi a leggerne qualche pagina. L’avrebbe rasserenata con dolcezza, conciliandola con garbo con quello che del mondo a volte le era difficile accettare.

Tina sedette sul divanetto della toeletta che le rimandò la sua immagine sottile fasciata da una camicia da notte leggera. Sciogliendosi la crocchia dei capelli biondo scuro iniziò a spazzolarli con lentezza, colpo dopo colpo, con andamento ritmico. Un insieme di macchie colorate vistosamente attrasse la sua attenzione. Su una delle due poltroncine ai piedi del grande letto matrimoniale giaceva la vestaglietta della mattina, abbandonata in tutta fretta. Lei si alzò e la mise su una stampella che infilò nel fondo dell’armadio chiudendoselo in fretta alle spalle. Poi si appoggiò pensosa al mobile.

Lunedì mattina avrebbe di sicuro ricevuto la solita chiamata interurbana, avvisata dal fattorino del centralino telefonico. Questa volta, però, sentiva di dover trovare una scusa per non accettarla. Non aveva più voglia di continuare per quella che era diventata una salita impervia. Non traeva più gioia da quella passioncella che l’aveva restituita al mondo ma a un prezzo che adesso le pareva davvero esoso da pagare. Dalla cassapanca tirò fuori il suo copriletto più bello di seta di San Leucio, quello che aveva spiegato sul letto di sposa per la sua prima notte di nozze. Affondandovi il viso ne respirò l’odore di spigo tra cui anni addietro l’aveva riposto. Allora ce l’aveva col mondo intero e con quel Dio impietoso che l’aveva privata del suo piccolo microcosmo senza un apparente perché. Desiderò di lasciarlo l’indomani sventolare dal balcone come più non faceva, secondo un’antica consuetudine delle donne del suo paese, per omaggiare quella Madonna bizantina nera con Bambino in visita per le viuzze del centro tra frotte di fedeli adoranti. Terminando la sua tisana di biancospino si lasciò scivolare tra le lenzuola, scrutando serena l’oscurità familiare che l’avvolgeva da cui avrebbe forse, quella notte, tratto maggiore conforto.

In strada poco lontano un cane abbaiò alla luna piena e luminosissima, accucciato ai piedi del suo padrone, un vecchio contadino che stentando nel prendere sonno scrutava, sulla soglia del suo sottano, il cielo notturno e limpido pensando a quella giornata di lavoro che nessuno avrebbe intrapreso, offerta ”per devozione” a Maria Vergine, perché portasse acqua nei campi e un po’ di prosperità per tutti. E intanto sospirava con rassegnazione e con speranza. Il mondo andava sempre come doveva andare e tutti loro erano poveri cristiani in balia dei suoi capricci, come la terra dei campi soggetta alle tante stravaganze e intemperanze della natura. Ma il grano avrebbe finito con lo spuntare come sempre, lo sapeva. Ed era quella, forse, l’unica cosa che contava davvero.

Lucia Guida

* “Un dì di festa” in  Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

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