Agenzia matrimoniale

Ci sono tanti modi di concepire e costruire un incontro d’amore. Adela, la titolare di un’agenzia matrimoniale del terzo millennio, cerca di unire in tal senso l’utile al dilettevole divertendosi a combinare i desiderata dei suoi clienti per creare nuove coppie a tavolino, in un gioco di specchi in cui molte cose non sono ciò che sembrano.

E’ questa in sintesi la storia di “Agenzia matrimoniale”, racconto breve di qualche anno fa, pubblicato nel mio primo blog Springfreesia

Buona lettura

Agenzia matrimoniale

Adela si sfilò lentamente gli occhiali dalla montatura colorata e dalle lenti non graduate, unico vezzo in un look estremamente classico e rassicurante. Sapeva quanto l’occhio avesse voce in capitolo in certe circostanze ed era decisa a far uso sapiente di questa consapevolezza.

In qualità di unica intestataria dell’agenzia matrimoniale “Cuori solitari” aveva trasformato in necessità lavorativa la virtù posseduta da bambina di favorire il buon esito delle cotte adolescenziali delle sue amiche, offrendosi di buon grado come mediatrice ora come allora. La sua era un’agenzia rigorosamente tradizionale, con pochissimo spazio concesso all’informatizzazione e in cui i profili dei suoi clienti erano ordinatamente conservati in faldoni dalla copertina dal colore diverso che ne individuava la categoria di appartenenza: rossa per i casi di facile collocazione, bianca per quelli di incerta risoluzione, nera per quelle situazioni inquadrate come impossibili o quasi, grigia per le schede di clienti che non era riuscita a mettere bene a fuoco lasciandoli in standby nella speranza che capitasse per loro qualche occasione felice in futuro. Possedeva un ufficio anonimo quanto bastava per dare la giusta idea di privacy a tutti quelli che, nella ricerca del vero amore, quello per la vita, a dispetto di chatlines per single o siti di incontri che imperversavano nel web, continuavano a ricorrere ad approcci più tranquilli e tradizionali, fidandosi del suo buon intuito procacciandosi incontri amorosi scelti sui suoi cataloghi come un tempo avrebbero ordinato un abito o un oggetto acquistandolo per corrispondenza.

Le due sale d’aspetto, una piuttosto piccola e l’altra di ampiezza maggiore, si allineavano a quel tipo di prospettiva; essenziali, completate da piante artificiali, le stesse di un qualsiasi studio notarile o medico, qualche rivista abbandonata su un tavolinetto basso per ingannare l’attesa che poteva a volte rivelarsi lunga prima di un consulto con la titolare.

Il contrasto di quei due ambienti con il suo ufficio era palese. Nella sua stanza tutto trasudava confidenza e familiarità, dal pc sempre spento, alle foto di famiglia sulla scrivania popolata di oggettini tipicamente femminili: fermacarte vivacemente istoriati, cuori di vetro soffiato, una piantina vera. Sulle pareti trovavano posto alcune stampe d’autore, illuminate indirettamente da una piantana relegata in un angolo tra un’altra poltroncina bassa e l’ennesimo tavolinetto. Di fronte alla sedia imbottita di similpelle, riservata agli ospiti, c’era un piattino ben rifornito di cioccolatini alla portata di chiunque avesse voluto servirsene.

In genere l’iter era quello di un colloquio informale in cui lei prendeva scrupolosamente nota dei desiderata della gente, occhiali ben inforcati e solitario ben in mostra all’anulare sinistro. Poi c’era lo spoglio delle schede alla ricerca di una fisionomia che potesse ben combinarsi accompagnato da uno scambio di frasi amichevoli, pronunciate con pertinenza improntate su situazioni di condivisione e complicità, in cui le sue capacità di psicologa dell’animo umano avevano il sopravvento e contribuivano all’impostazione di un clima empatico e partecipativo che rasserenava l’interlocutore predisponendolo positivamente ad accettare l’incontro suggeritogli.

E naturalmente, a fine conversazione, ciliegina sulla torta, il resoconto gustoso, affettivamente colorato, dei rendez-vous sfociati in vere e proprie love story dall’ happy ending, in un crescendo di fiduciose aspettative articolato con maestria dissimulata da malcelata modestia.

Quella sera avrebbe chiuso il suo bilancio giornaliero con una certa soddisfazione. L’incontro tra il medico ospedaliero cinquantenne in cerca di una compagna e l’infermiera trentenne di studio medico associato disillusa da amori veloci e poco appaganti pareva essersi concluso con la promessa da parte dei due di dare un seguito a quella conoscenza. Entrambi le avevano assicurato di tenerla al corrente di ciò che al momento poteva solo immaginare, ne era sicura. Sapeva per certo che non c’è collante maggiore di una solitudine vissuta come pesante zavorra e non più come anticamera di libertà, per legare due persone a stretto filo, dal momento che la convenienza  e l’opportunità hanno, talvolta e per alcuni, lo stesso sapore afrodisiaco e gratificante di una passione genuina. Un po’ come avvolgere in carta preziosa un regalo di media qualità offrendolo a chi si è convinto di trovarvi dentro, una volta apertolo, qualcosa di unico e di raro.

Chiuso il portoncino a doppia mandata, entrò nell’ascensore che la portò con qualche sussulto al pianterreno.

Fuori l’aspettavano le luminarie natalizie predisposte dai negozianti della zona, sfavillanti ai lati dei portici del centro di quella città moderna e distratta. Un tragitto compiuto con un po’ di musica di sottofondo in macchina e poi finalmente a casa dai suoi animali che l’aspettavano e che gioivano del suo rientro riempiendo spazi e tempi della sua quotidianità con appagante presenza. Libera di sfilarsi dall’anulare quell’anello di brillanti indossato a mo’ di specchietto per le allodole, prima di conservarlo in un cassetto del trumeau di camera assieme a quegli occhiali trendy e civettuoli di molta apparenza e poca sostanza che tanto contribuivano al suo phisic du rôle di manager dei sentimenti altrui.

Fino al lunedì successivo, giorno di riapertura dell’agenzia, e in occasione della sua prossima consulenza in qualità di appaiatrice di anime più o meno gemelle.

Lucia Guida

 

in foto acquerello di Muramasa Kudo

In un campo d’orzo e di papaveri

Guardare una fotografia e provare a leggerla ricamandoci sopra un racconto breve. E’ quello che ho cercato di fare un anno fa quando ho pensato a “In un campo d’orzo e di papaveri”, premiato domenica 19 ottobre 2014 a Roseto Valfortore (FG), come racconto vincitore del II posto della VII edizione del “Premio Lupo”, sezione letteraria, promosso dal comune di Roseto Valfortore, sostenuto da buona parte dei comuni del comprensorio del Subappennino Dauno,  con il partenariato dell’Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Spettacolo della Regione Puglia e il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Foggia.

Il sogno di Lauretta è quello di riuscire a intrecciare una coroncina di papaveri senza rovinarne la delicata sericità. La bimba riuscirà nel suo intento, e il braccialetto di fiori da lei creato con amore e altrettanta delicatezza diventerà per sua zia Maria Luisa, alla ricerca di una vita personale maggiormente soddisfacente, a cui il dono è riservato, metafora e simbolo beneaugurante di un futuro migliore.
Cornice del racconto la terra forte e dura di Puglia, ricca e capace di inaspettati atti di generosità.

Buona lettura

 

 

In un campo d’orzo e di papaveri 

La bambina si guardò attorno circospetta, temendo che qualcuno potesse rimproverarla per la sua sparizione ingiustificata; poi sospirò silenziosamente, rinfrancata da ciò che le compariva davanti. Attorno a lei c’era soltanto la distesa sconfinata di quel campo d’orzo inselvatichito, vivificato dal tripudio di papaveri e fiori selvatici che erano riusciti a sopraffarne la rassegnata uniformità. Ricacciando indietro le ciocche ribelli sfuggite alle treccine castane, si chinò a raccogliere quanti più fiori rossi poteva, noncurante dei cardi e dell’ortica che le insidiavano le gambette nude, a malapena protette dal vestitino di cotonella sottile.

I papaveri erano i fiori che preferiva in assoluto: belli, slanciati, setosi. Peccato che durassero il tempo di un respiro. Decise, tuttavia, di portarli a casa con sé per provare a intrecciarli in una coroncina come aveva visto fare a Natalina, la sua compagna di banco, con una manciata di pratoline. Quando le aveva detto della sua idea l’altra l’aveva guardata con un’ombra di compatimento.

– Non si può – aveva, poi, replicato con fare saccente.

– Perché no? – aveva insistito lei, suo malgrado dispiaciuta dal tono altezzoso dell’altra.

Natalina l’aveva squadrata con sufficienza se possibile ancora maggiore.

– I papaveri sono troppo delicati e muoiono presto – aveva sentenziato seccamente. Abbandonandola di scatto per raggiungere un gruppo di altre bambine che, in cerchio e tenendosi per mano, avevano preso da poco a intonare “La solitudine si deve fuggire”.

Lauretta era rimasta seduta su una panchina del cortile della scuola, all’ombra traforata di un albero di acacia, riflettendo a lungo su quanto l’amica le aveva svelato, le gambette penzoloni altalenanti e il capo chino. Per quella mattina non c’era stato gioco che l’avesse tentata abbastanza da farle lasciare la posizione rinunciataria in cui si era caparbiamente trincerata.

Il gracchiare lontano di una cornacchia la fece tornare al presente di quell’afosa giornata di principio d’estate. Guardando i papaveri raccolti decise che potevano bastare e si buttò a peso morto tra l’erba alta del campo semiabbandonato insensibile ai minuscoli abitanti che ne popolavano le nutrite retrovie. Sopra di lei il cielo, al mattino di un azzurro intenso, aveva preso un colore celestino indefinito, certamente dovuto al gran caldo. Con ponderatezza si scelse una nuvola dai contorni insoliti a cui aggrapparsi per poter fantasticare in libertà.

– Lauretta!

Il grido femminile, lontano ma non abbastanza da non essere da lei percepito con chiarezza, spezzò quell’incantesimo breve. Sollevandosi appena sui gomiti la bambina intravvide una donna vestita completamente di nero, dal fazzoletto che portava in testa al gonnone informe che ne avvolgeva la figura appesantita dallo scorrere impietoso del tempo e dalle tante fatiche domestiche. Sua madre, mani ai fianchi, la stava cercando, e non sembrava per niente contenta di non riuscire a scorgerla da nessuna parte. Riflettendo febbrilmente sul da farsi, Lauretta traccheggiò tra l’idea di riemergere dal microcosmo brulicante in cui si era crogiolata con indolenza sino a pochi istanti prima e quella di aspettare che la donna rientrasse nell’austera casa colonica oltre il campo, piombandole d’improvviso e come per incanto davanti con la cesta di vimini ricolma di uova e l’aria vaga che assumeva quando voleva dare a intendere agli altri di essere qualcuno che non era.

La cesta di vimini, oggetto delle richieste materne, era a pochi passi da lei, invasa da una colonia di formiche operaie ma il suo contenuto le pareva ancora indenne e tanto le bastava. Ricadendo all’indietro tra le sterpaglie Lauretta decise di indugiare per un altro po’, cercando di resistere stoicamente all’intraprendenza di un grillo che aveva preso a passeggiarle sul braccio e non voleva saperne di andar via.

Maria si guardò attorno, tentando di mitigare la luce abbacinante del sole proteggendosi gli occhi con una mano. Di quella figlia pestifera non c’era traccia. Le sembrò di scorgere qualcosa a ridosso del vecchio spaventapasseri ma poi decise che era solo un cardellino alla ricerca di qualche seme da becchettare e lasciò perdere.

A casa avrebbero fatto i conti non appena Lauretta si fosse degnata di farvi ritorno. Si sentì quasi male al ricordo di tutto il daffare in sospeso per la promessa di sua sorella. Mancavano due giorni all’evento e ogni cosa, come al solito, era lì a gravare sulle sue spalle.

Arrancando sulle zolle di terra arida si avviò verso l’aia, a quell’ora deserta, detergendosi le stille di sudore che avevano preso a colarle abbondanti sul volto per il calore solare attirato da tutto quel nero che la ammantava a celebrazione doverosa dell’ultimo lutto familiare.

Lauretta sbirciò con un velo di colpa sua madre attraverso un ciuffo di gramigna e fece per alzarsi ma qualcosa la convinse a non mostrarsi ancora. In quel pezzo di terra incolta non era la sola ad essersi nascosta agli occhi di Maria.

Vattenne, vai via da me, – era il grido accorato e sommesso di una donna giovane, sua zia Maria Luisa, vestita come l’altra di nero, i capelli acconciati in una crocchia castana sulla nuca appena un po’ disfatta, come alla fine di una lunga giornata laboriosa.

Lauretta non capiva con chi ce l’avesse, fino a quando un uomo dai capelli chiari e dalle braccia muscolose da gran lavoratore non le si affiancò velocemente. Era Vincenzo, un bracciante del paese.

– No che non me ne vado, o vuò capì? – l’apostrofò con rudezza, prendendola per le braccia e costringendola a guardarlo negli occhi – Tu, quello, non lo devi sposare!

Maria Luisa lo fissò con aria dolente e non ebbe il coraggio di replicare nulla. I suoi occhi parlavano benissimo da sé. A un certo punto, però, decise di scrollarsi di dosso quella sorta di trance in cui era caduta e, sia pure a malavoglia, si divincolò dalla presa dell’altro e dal suo abbraccio possente, riuscendo a scappar via verso la masseria. Il gigante biondo si lasciò allora cadere come privo di forza contro il tronco nodoso della quercia secolare che li aveva accolti entrambi sotto la sua provvidenziale ombra.

Lauretta restò acquattata tra le erbe a poca distanza da lui, sperando che l’altro sparisse presto; valutando, intanto, con tutta la consapevolezza infantile di cui era capace, quanto la sua punizione sarebbe stata proporzionale al ritardo accumulato.

Con un guizzo repentino l’uomo si sollevò in piedi facendole mancare un battito, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa (forse un ripensamento retrospettivo dell’amata?) che non riuscì a scorgere da nessuna parte. Allora, con un gran sospiro, si rassettò alla bell’e meglio l‘abito da lavoro che indossava, andando via a spalle curve in direzione dell’abitato, dopo aver ripescato, ben mimetizzata dietro un rovo di more al limitare della carreggiata, una bicicletta vetusta.

Fu soltanto allora che Lauretta, dando fondo a tutto il fiato che aveva in corpo, corse verso casa, i papaveri raccolti celati nel cestino assieme al suo prezioso contenuto.

– Dov’eri finita?

La mamma era palesemente di malumore in quella cucina di campagna piena di odori di cibo; aiutata dalla nonna, stava sgranando piselli in una coppa di ceramica sbreccata, mentre le zie Annarella e Maria Luisa provvedevano a lavorare su una spianata di legno un’enorme quantità di massa per il pane.

Lauretta decise di non rispondere. Qualsiasi cosa avesse deciso di dire sarebbe stata contrastata dalla sua interlocutrice, quindi si affiancò alla nonna ben decisa a darle una mano, le manine magre tradite da inconfondibili striature rossastre che fecero corrugare lo sguardo all’anziana ma non produssero fortunatamente altro effetto.

– Ci voglio fare una coroncina per la festa di domenica – le confidò a bassa voce in uno sprazzo di sincerità. La nonna scosse il capo con disapprovazione.

– A lutto, stiamo. Il rosso non va bene

La bambina non ne era pienamente convinta.

– Nemmeno per una coroncina o un braccialetto in un giorno di festa? –  chiese mortificata.

Nonna Fonzina questa volta la guardò con reale durezza e con un tono appena al di sopra di quello usato solitamente le replicò stizzita

– Il rosso è il colore del demonio – Chiudendo, per il momento, la questione.

Preparare una festa di fidanzamento non era cosa semplice per gente di campagna come loro. E tuttavia il gioco valeva la candela perché Maria Luisa si sarebbe imparentata con una famiglia benestante come quella del Contini, macellai da tre generazioni. Il matrimonio, combinato per il tramite di Don Marcuccio, sensale, era da subito apparso come una manna dal cielo per tutti loro. Antonio Contini non era propriamente un pezzo di marcantonio. Di aspetto assai modesto, di contrasto con il lavoro intrapreso in paese dalla sua famiglia, dava l’idea di volare via col primo colpo di vento; ed era certo che più di una delle sue profferte matrimoniali fosse stata rifiutata da altrettante ragazzotte del posto, che avevano visto la prospettiva di accasarsi con lui come il fumo negli occhi. Maria, invece, l’aveva da subito considerata una prospettiva unica e invidiabile per elevare il tenore della propria famiglia per il tramite dell’avvenenza e della gioventù della sorella minore. Dandosi da fare, con ogni mezzo, per condurre quest’ultima per la propria strada.

– Ma io non gli voglio bene …, – aveva protestato accorata la ragazza

– L’amore verrà dopo, – le aveva replicato prontamente lei. L’amore, quello fatto di sentimenti e slanci d’animo, era cosa da canzonette e non per faticatori come loro.

– Pare un morto vivente, davvero. Nessuna l’ha voluto, perché dovrei pigliarmelo proprio io? – aveva continuato l’altra senza demordere, nel disperato tentativo di scampare a quella condanna all’ergastolo

Maria l’aveva guardata cupamente

Maria Luì, lo vuoi capire o no che senza dote o corredo non ti si marita nessuno? Resterai zitella o sposerai un morto di fame ccume annuie!

L’altra aveva spavaldamente alzato la testa.

– E che m’importa? Vado a servizio in città …

– E allora vacci subito, intesi? Sei una svergognata ingrata … – aveva inveito sua sorella e una vena le si era d’improvviso gonfiata al collo, facendo presagire il peggio.

Quella sera era finita davvero male, Lauretta lo ricordava ancora, con sua zia che, in lacrime, era scappata di notte nei campi e non se n’era saputo più nulla fino al mattino dopo, quando suo padre, con infinita pazienza, aveva ripescato sua cognata in un casolare abbandonato riportandola a casa.

A riequilibrare definitivamente le sorti ci aveva pensato il destino con tragica tempestività.

Zio Michelino era caduto in un pozzo perdendo la vita nel tentativo di appurare se poteva ancora fornire acqua e la carenza di quel paio di braccia maschili oramai irrimediabilmente perse si era subito palesata attraverso una montagna di spese e debiti accumulati con sconcertante facilità a cui i Contini, per intercessione di don Marcuccio, si erano offerti con premura di far fronte in men che non si dica.

Maria si era chiusa in camera con Maria Luisa nel tentativo di farla ragionare mentre il resto della famiglia sedeva attorno al tavolo rettangolare senza avvertire più appetito, incapace di consumare anche un solo boccone dell’opulento pasto di riconsolo, offerto, come tradizione, da amici e parenti per la perdita del pover’uomo.

Nonna Fonzina, zia Annarella, suo padre, lei e suo fratello Lino avevano assistito in silenzio, seduti a cena, alla disperazione della loro zia più giovane, fino a quando suo padre, infastidito o forse imbarazzato da tutto quel clamore in una sera che avrebbe dovuto essere di raccoglimento per l’intera famiglia, era uscito di casa nella notte a fumare una Nazionale dall’odore pessimo. Avuto il permesso di alzarsi da tavola per riordinare e conservare gli avanzi di quella cena sfortunata i restanti convitati avevano seguito il suo esempio senza proferire parola. In barba alle occhiatacce della nonna, Lauretta aveva poggiato un orecchio sulla porta della camera da letto dei suoi per cercare di carpire l’epilogo di quella sceneggiata familiare ma non c’era riuscita. A un certo punto, però, la zia ne era uscita di botto, gli occhi arrossati per il lungo pianto, precipitandosi fuori verso la tettoia dove d’inverno conservavano i ciocchi di legno per il camino, e lei l’aveva istintivamente seguita. L’aria di quella serata di fine maggio era ferma e carezzevole. Lauretta le si era avvicinata con un po’ di timore temendo di essere scacciata, ma la zia le aveva sorriso tra le lacrime e l’aveva stretta a sé quasi a confortare se stessa attraverso il calore autentico e generoso di quel corpicino infantile visibilmente in pena per lei.

Scrutando l’oscurità erano rimaste abbracciate a lungo, sedute su ciò che rimaneva di un tronco di ulivo, sradicato qualche settimana prima dalla buonanima di Michele perché quasi del tutto secco. Quando la luna aveva fatto capolino tra il fogliame dei pochi alberi a confine della costruzione, la zia l’aveva presa in braccio e l’aveva riportata dormiente in casa adagiandola sul lettino nella sua stanzetta.

L’indomani suo padre, di ritorno dal paese vestito dell’unico abito buono che possedeva, aveva annunciato a tutti l’avvenuto fidanzamento tra la cognata e Antonio Contini mentre l’interessata, a capo chino, ne prendeva ufficialmente atto con occhi lucenti ma senza versare altre lacrime.

Due giorni alla festa e ancora tantissime faccende da portare a termine.

Maria se lo ripeteva tra sé e sé di continuo, nel vano tentativo di darsi forza e nessuno osava farle da contrappunto vocale, prestando, tuttavia, senza risparmio le proprie energie per la riuscita di quell’avvenimento memorabile.

La domenica arrivò in un baleno accolta con ansia da tutti sin dalle prime luci dell’alba in piedi, ciascuno con un compito ben preciso cui adempiere. L’aia era stata svuotata e debitamente ripulita da suo padre e dal modesto contributo di suo fratello Lino, la tavolata apparecchiata come d’uso per le festività solenni all’ombra di una tettoia ombreggiata da filari d’uva per fornire frescura sufficiente al banchetto dei promessi. Le vivande, preparate per tempo, erano state allineate su ogni superficie libera dell’enorme cucina e in parte anche della stanza da letto dei padroni di casa, lustrata a specchio e prontamente rimessa in ordine, la coperta di broccato sormontata da quella intagliata sul letto matrimoniale rifatto da sua madre alla perfezione.
Maria Luisa era un incanto nell’abitino cucitole dalla sarta di paese; nero regolamentare, manco a dirlo, ma ingentilito da una scollatura a cuore e un vitino sottile con una gonna più ampia di quelle da lei di solito indossate. A Lauretta pareva una delle cantanti del festival di Sanremo sbirciate con curiosità sul giornaletto della signora Irma, bolognese, su cui questa e la mamma avevano scelto per la promessa sposa un modello degno delle circostanze.

La giornata era andata avanti senza scossoni, seguendo un copione prestabilito elaborato con sapiente lungimiranza. Gli ospiti, accolti con deferenza, erano stati fatti accomodare in casa per i primi scambi di convenevoli e poi condotti sotto il famoso pergolato. Maria Luisa e Antonio Contini erano seduti al centro, affiancati ciascuno dai personaggi principali della propria famiglia di origine come in una bizzarra prova generale del pranzo di matrimonio che si sarebbe celebrato a meno di un mese. Lauretta aveva contato una quindicina di invitati, intristendosi al pensiero che nessuna delle donne adulte presenti indossasse abiti dai colori vivaci, beneauguranti, e aveva fatto onore al banchetto, notando, invece, come la zia Maria Luisa spilluzzicasse di malavoglia ciò che con abbondanza sua sorella si affannava a offrirle invitandola, con occhiate più che eloquenti, a servirsene.

Lei e Lino avevano anche provato a familiarizzare con i bambini Contini ma senza successo; le due femminucce in abiti pastello ed enormi fiocchi di nylon tra i capelli, non si staccavano dalle gonne delle rispettive madri e l’unico maschio, dell’età apparente di quindici anni, non aveva intenzione di sporcarsi di terriccio e di pagliuzze dorate il vestito a giacca scuro come, invece, era capitato a Lino. Con sguardo furbo la bimba constatò come l’abbondante e generoso vino rosso e la ratafìa ghiacciata stessero facendo effetto sugli ospiti, decidendo che era arrivato per sé il momento di allontanarsi dalla tavolata, sentendosi come un cuccioletto legato alla catena a cui sia finalmente stata offerta la possibilità di sgranchirsi un po’ le zampe da un padrone severo e intransigente. Le era venuta un’idea luminosa ed era sicura che almeno qualcuno avrebbe gradito la sua sorpresa. Vi si era esercitata per giorni e giorni con risultati eccellenti che non vedeva l’ora di mostrare a tutti Inciampando nel vestitino a sbuffo, grazioso ma scomodo per una bambina en plein air come lei, si spinse coraggiosamente fino al primo ciuffo di papaveri rossi spuntato a ridosso della campagna. Con delicatezza ne colse la giusta quantità, stando attenta a non macchiarsi e a non sgualcirne i petali teneri e impalpabili; poi, col suo bottino si sedette all’ombra della quercia imponente da lì poco distante. Con grande abilità ne intrecciò le corolle riuscendo a non rovinarne nessuna, decidendo di regalare la coroncina di fiori a Maria Luisa. Era sicura che l’avrebbe resa meno triste, forse addirittura più felice.

Due sagome note intrecciate in un abbraccio attrassero la sua attenzione e lei si stropicciò gli occhietti stanchi per il timore di aver frainteso.

Con grande stupore vide sua zia ricambiare inequivocabilmente le affettuosità del gigante biondo e muscoloso baciandolo su una guancia. Questi, allora, la prese per mano aiutandola a salire su un camioncino malmesso poco distante. Un unico attimo di indecisione, poi un’idea veloce come un lampo in un cielo d’estate.

– Zia, aspetta!

Lauretta corse a perdifiato come in quella mattinata lontana ma questa volta per raggiungerli, pronta a consegnare il suo dono campestre con infantile determinazione. I due amanti si volsero di scatto verso di lei, sorpresi, e sua zia, già di lato al suo cavaliere, si sporse dal finestrino e le accarezzò il visetto intelligente sorridendole come per scusarsi, con un luccichio insolito negli occhi che le fece capire che quello era un addio.

Lauretta le tese seria la ghirlandina di papaveri e l’altra l’afferrò veloce con uno sguardo luminoso, ben diverso dall’espressione incolore degli ultimi giorni. Poi le mandò fugace un bacio prima di stringersi al suo cavaliere. L’automezzo si allontanò rombando, sollevando una nuvola di polvere che fece tossire per qualche istante la bimba ma non la intimorì.

Quando li vide scomparire dietro il lungo filare di pini marittimi che delimitava la carreggiata Lauretta s’incamminò sulla strada del ritorno stringendo in pugno l’unico fiore rosso sfuggito al suo capolavoro, con sguardo pensieroso. Di una cosa, però, era abbastanza sicura. I papaveri erano troppo incantevoli per appartenere al demonio. Potevano soltanto essere fiori di angeli provvidenziali se erano riusciti a restituire il sorriso a sua zia. Gongolò al pensiero piacevole di quanto quest’ultima avesse apprezzato il suo braccialetto. Le avrebbe certamente portato fortuna, si disse convinta. Questo pensiero la confortò e la rese più serena.

A pochi passi da lei, al centro dell’aia attorno alla lunga tavolata ancora imbandita a festa, c’era qualcuno che discuteva con concitazione. Con un sussulto leggero lei trasalì credendo di saperne il perché ma non indietreggiò.

Vi si avvicinò, invece, a fronte alta; pian piano, con coraggio e calma estremi, pronta come non mai ad affrontare i rimproveri di sua madre.

Il suo bel vestito della festa era irrimediabilmente macchiato di verde e di vermiglio, ed era una realtà, ma a lei questo poco importava. Attorno a sé avvertiva ancora, forte e persistente, la fragranza discreta dei fiori rossi di campo magicamente da lei intrecciati l’uno all’altro, assieme a un nuovo e misterioso profumo di amore, percepito con lievità di bimba sensibile e da subito riconosciuto e accolto nel suo piccolo cuore.

Lucia Guida 

photo by Jarmilla

La stanza della memoria

Non è facile parlare di femminicidio senza rischiare di cadere nella retorica o, peggio, di parlarne in maniera scontata e poco incisiva. In questo racconto breve, scritto qualche tempo fa per un reading, ho cercato di calarmi nei panni di una donna vittima dell’ossessione amorosa del proprio partner. Dandole voce per poterle far raccontare con voce postuma “da donna a donna” ma anche “da donna a uomo”  lo strazio di un amore femminile tradito, avvilito e annientato da parte di un uomo che con altrettanto amore e rispetto non è stato capace di ricambiare.

Buona lettura e a presto

 

La stanza della memoria

 

Sul comò di legno bianco laccato c’è ancora una cornice portafoto.

Nella foto che racchiude ci siamo io e te, capelli spettinati dal vento e sorrisi al cielo, il mondo intero stretto nel pugno di una mano in due, felici e irridenti. C’è un velo di polvere sottile e persistente sulla cornice dorata in stile veneziano che nessuno ha avuto il coraggio di toccare. Ciononostante, tutto in questa camera dai toni chiari, volutamente rilassanti, ha conservato la fragranza di un tempo.

Il letto dalla testata in ferro battuto decorato con volute e arabeschi sapienti, il comò sovraccarico dei miei gioielli etnici e di un mazzolino di rose secche lasciate appassire lentamente durante il tempo di un’estate mite, indulgente. Ricordi? Me le avevi comprate da un fioraio ambulante che te le aveva legate con un nastro rosso lucente, contro la sfortuna. Un nastro avvolgente come la passione che allora ci univa. C’è anche il tuo dopobarba, disperso tra le mille cose di poca e grande preziosità della mia quotidianità femminile che attorniano questo ritratto così evocativo di un giorno di sereno tra di noi che pure c’è stato: un’immagine unica, bella, radiosa, spettacolare.

“Siamo una bella coppia”, quante volte me l’avrai ripetuto? Non me lo ricordo più. So, però, per certo che all’epoca ci credevo davvero.

Sulla toeletta di legno scuro intarsiato troneggia una lampada dalla base di porcellana chiara con un’impercettibile fessura sul lato posteriore, nascosta all’occhio dei più. Deve quella crepa a un tuo atto di intemperanza, di cui a suo tempo mi hai prontamente chiesto scusa con un sorriso pentito, offrendoti di ripararla. Di comprarne addirittura un’altra.

Io ti ho celato il mio sguardo lucido e ho fatto finta, quel giorno, di osservare, attraverso le tende avorio della portafinestra, la collina e il biancore immacolato delle montagne antiche che tanti nostri risvegli hanno celebrato e salutato. “No”, ho, poi, trovato la forza di risponderti, nell’attimo in cui ho ritrovato un filo di voce. “Non occorre, vedrai che si potrà aggiustare”.

E, giorno dopo giorno, mettendoci tutto l’impegno di cui sono stata capace ci ho lavorato con amore, con speranza, incaponita com’ero a riportarla al suo splendore originario: quello dei nostri momenti migliori in cui felici, innamorati, frugavamo dalla prima all’ultima bancarella dei mercatini di paese alla ricerca di un oggetto qualsiasi che potesse suggellare i nostri primi attimi d’infinito insieme.

La poltroncina in stile è ancora nell’angolo in cui io l’avevo collocata, impregnata dell’odore maschile del tuo corpo sprigionato dai vestiti che eri solito poggiarvi. Le prime volte che facevamo l’amore non occorreva neppure che tu li sistemassi lì: i miei abiti, la tua camicia e il tuo maglioncino finivano frettolosamente in terra e nessuno di noi si dava peso di raccoglierli per lungo tempo. A coprirci bastavano il mio desiderio di te e il tuo di me.

Se spalanco le ante del nostro armadio riesco a percepire ancora la fragranza, sottile e persistente, della mia essenza di donna unita a quella tua, di uomo,  nei cassetti, negli scomparti e nei ripiani ora desolatamente vuoti. La nostra vita insieme mi ritorna in mente col suo ritmo lento e pacato iniziale; furioso e tumultuoso, inspiegabilmente frenetico e inumano al suo epilogo. Una fine impietosa, inusitata, brutalmente violenta, che qualcuno ha stentato a credere, leggendo di noi sulla pagina di cronaca nera di un quotidiano locale.

E’ incredibile notare come oggi i muri di questa camera sospesa nel tempo e nello spazio, luogo privilegiato dei nostri pensieri migliori, siano immacolati e perfetti come una volta.

Niente pare averli scalfiti o insozzati. E le parole durissime e le grida di rabbia e di rancore, di timore che pure ci sono state sembrano quasi essere rimbalzate verso l’esterno, verso quell’orizzonte, a volte più nitido da scorgere a volte meno, così speculare e simile alle fasi altalenanti della nostra relazione d’amore.

In questo sentimento io ci ho creduto sino alla fine, sai? Coprendomi il capo di cenere e passando sopra alla tua furia e alle tue giustificazioni pietose, alla profanazione del mio corpo di donna e al cilicio che a un certo punto, sempre più spesso, hai voluto che io indossassi. Per motivi futili, hanno detto alcuni. Per non averti amato abbastanza, mi sono ripetuta a mente io, restando ostinatamente, pervicacemente fedele al giuramento che ti avevo fatto davanti a tutti.

Ho cercato di sorridere anche quando mi sono costretta a guardami per metà nello specchio tondo di camera, nel tentativo maldestro di celare un’ombra violacea su uno zigomo, segno tangibile della tua profonda insoddisfazione verso di me e verso il mio modo di esistere, o un labbro spaccato e dolente, colpevole di aver portato un rossetto per te troppo colorato e vistoso. Le mie scelte estetiche ti sono apparse di volta in volta troppo audaci o troppo poco appariscenti, procurando il tuo fastidio, la tua collera. Un mutare d’accento continuo, il tuo, per me destabilizzante e poco indicativo del tuo reale sentire del momento. Una iattura che non mi ha portato affatto bene e che mi ha condannata a un lento, inesorabile declino, facendomi perdere consistenza e consapevolezza umana, di persona.

Non sono stata capace di guardare al di là del mio naso e la colpa è stata solo ed esclusivamente mia. Forse avrei dovuto e potuto fare diversamente. E’ questo l’ultimo pensiero con cui ho colmato il mio sguardo attonito, interrogativo, mentre il tuo coltello affilato frugava impietoso all’altezza del cuore di questo mio corpo troppo docile, desolatamente arrendevole. Impossibile pensare e credere che tu potessi arrivare a tanto. Eppure l’hai fatto.

Tu, il mio primo e unico amore, il mio compagno di vita, il mio uomo.

In questa stanza dai toni tenui e rassicuranti il mio spirito ha voglia di trattenersi ancora sino a quando il tempo delle risposte non si sarà compiuto.

Di aprire cassetti ossessivamente svuotati. Di accarezzare con la punta delle dita ogni cosa poggiata su quel comò antico con i gesti familiari di un tempo; ridando vita a oggetti che nessuno ha avuto il coraggio di chiudere in uno scatolone e dimenticare nel fondo di un magazzino buio e senz’aria. Sono stata io a suggerirlo con voce bassa e suadente, a farli desistere da questa incombenza pietosa per loro certamente rassicurante. Tutto deve restare così com’era allora sino a quando ce ne sarà ancora bisogno.

Perché io avverto ancora l’esigenza di far ondeggiare e tintinnare le stampelle dell’armadio come al soffio d’aria benevolo e leggero di brezza di primavera, prima di richiuderne con cura le ante fino al prossimo utilizzo.

Desidero coprirmi con leggerezza con un lenzuolo freschissimo di lino ricamato a mano, quello della nostra prima volta insieme, lasciandolo scivolare sulla mia pelle nuda, liscia e levigata di ragazza di un tempo.

Voglio spegnere con dolcezza l’abat-jour sul comodino al lato del letto aspettando pian piano che i miei occhi spalancati sul nulla si abituino al buio profondo e prendano a sondare attraverso le ombre della sera i contorni conosciuti della nostra quotidianità di coppia, mia e tua. In attesa di te e del tuo spirito che ora, ne sono certa, sta vagando in un altrove impensabile e indescrivibile, certamente disumano e ben lontano da questo limbo che mi è stato concesso di popolare con silenzioso e rinnovato dispiacere.

Ancora per qualche giorno, ancora per qualche ora, formulando domande a cui nessuno, per l’eternità, potrà forse più rispondere per noi.

Questa stanza della memoria sarà il nostro sentiero battuto per altri che non avranno scusanti per non pensare, per fingere di non ricordare e poi fuggire con colpevole leggerezza dal dolore e dal prevedibile orrore del mio sangue versato per noi, per loro, per tutti nel chiarore di un’alba ancora troppo vicina per poter dimenticare.

 

Lucia Guida

 

Tramonto_aldo sterchele

Il dipinto “Tramonto” è di Aldo Sterchele

Il cielo resta sempre

Una ragazza alle prese con una quotidianità scialba e con un amore che fa male decide di punto in bianco di cambiare rotta e andare via. Dirigendosi verso il mare e la sua grande apertura, alla ricerca di nuove possibilità  di vita; scoprendo all’improvviso di non avere mai smesso di volersi bene.

Buona lettura

 

Il cielo resta sempre*

La percezione era quella, spiacevole, di un malessere subdolo e serpeggiante. Un senso di disagio che si insinuava in lei in profondità sin dal risveglio scandendo la sua quotidianità passo dopo passo, inesorabilmente. Un accenno di nausea che la prendeva all’improvviso accompagnato da una sensazione di vertigine che l’attanagliava a tradimento, facendole desiderare distese sconfinate di erba verde ondeggiante al vento dal chiuso di quell’ufficio minuscolo in cui da circa tre anni svolgeva la sua attività di contabile part-time. All’inizio le era bastato inspirare profondamente davanti alla finestra aperta e ripetersi che tutto andava bene, che tutto sarebbe andato a posto. Ma quel sollievo momentaneo non era durato a lungo e lei si era trovata a fronteggiare da sola, specialmente in orario di lavoro, attacchi d’ansia dalla portata devastante che nemmeno l’idea consolatoria di poter, a una certa ora, fare ritorno a casa, riuscivano a smorzare. Rifugiarsi in quella stanza minuscola dell’appartamento in condivisione con altre tre ragazze era stata da sempre la sua ancora di salvezza ma ora non le bastava più al pensiero di un presente che era un meschino tirare a campare e nulla più. Un’esistenza appesantita anche dalla storia di poco conto con un cliente della ditta per cui lavorava. Si erano conosciuti discutendo animatamente per una partita di appariscenti borse made in china griffate da lui ordinate da tempo immemore che tardavano ad arrivare. Lei era stata la prescelta mandata in avanscoperta per tentare di placarne le ire, contando sul fatto che l’altro avrebbe contenuto le proprie rimostranze alla vista di quella figura femminile esile, capelli corti e occhi scuri grandissimi in un viso dall’incarnato diafano. Una ragazza d’altri tempi. Stando tacitamente al gioco, si era scusata per l’inconveniente promettendo con solennità di risolvere personalmente la faccenda in tempi brevi. Erano finiti a prendere un caffè a un tavolino del bar Ideal all’angolo frequentato da avventori occasionali e rappresentanti annoiati in cerca di uno stacco minimo prima di poter andare avanti nel prosieguo della giornata. Lui le aveva preso la mano per leggerle il futuro ostentando la sottile fede d’oro che indossava. Dopo meno di una settimana si erano rivisti in un motel a ridosso dell’autostrada ed erano diventati amanti, con un patto di reciproca non interferenza suggellato dalle volute di fumo azzurrino della sigaretta di lui e dallo sguardo di lei al soffitto, concentrato sul movimento vorticoso di un immenso e vetusto ventilatore a pale impegnato a stemperare l’atmosfera rarefatta di un venerdì sera come tanti.

Può un cioccolatino dall’aspetto invitante saziare un affamato? Se l’era chiesto più volte; concludendo amaramente che non era possibile e tuttavia continuando a non mancare a nessuno di quegli appuntamenti clandestini consumati in agriturismi o alberghetti fuoriporta che coloravano la sua quotidianità scialba e inconsistente. Sino a quel fatidico giovedì in cui una sensazione strana, sgradevole si era impossessata di lei per il resto della giornata; facendole dapprima pensare di aver contratto uno di quei  virus capricciosi e passeggeri, capaci tuttavia di scombussolare, anche se per breve tempo, una vita senza scossoni, senza infamia e senza lode come la sua. Sentendosi soffocare l’aveva chiamato sul cellulare di servizio con un numero schermato, come da lui ampiamente raccomandatole, defilandosi per il giorno successivo con una scusa a cui lui non aveva replicato, accettando quel diniego piattamente, quasi impersonalmente; probabilmente per non destare sospetti nella persona che, dall’altro capo del telefono, lo fronteggiava. Senza percepire nulla del bivio che lei scientemente aveva deciso di intraprendere.

Le successive due settimane in cui non aveva incontrato il suo amante, in vacanza in montagna con moglie e prole al seguito, le avevano tuttavia dato modo di mettere a punto quell’idea nuova, singolare che l’aveva stupita per l’insospettabile forza che conteneva strappandola con fermezza a quel bozzolo soffocante che si era costruita attorno, prontamente aiutata dalla casualità che dal cappello a cilindro aveva d’improvviso estratto un’amica da poco in città desiderosa di un  appoggio temporaneo che potesse tramutarsi in punto di riferimento stabile.

Quella mattina Irene si era mentalmente ripetuta il discorsetto da propinare al suo titolare e approfittando di qualche minuto di relax che lui si era concesso per festeggiare una transazione conclusa in maniera particolarmente favorevole, gli aveva dato il preavviso ridicolmente breve di una settimana, facendogli andare di traverso quel vetrino freddo ordinato al Bar Ideal con così tanto entusiasmo. Con insolita determinazione gli aveva anche chiesto una parte di ciò che le spettava come liquidazione, forte di quei quattro anni di impiego diligente e scrupoloso, aumentando lo stupore dell’uomo che si era limitato a sgranare gli occhi, incapace di metabolizzare quell’insospettabile voltafaccia da parte di una persona  apparentemente innocua come lei. Convocandola il giorno successivo e chiedendole, tra una sigaretta e l’altra, cosa l’avesse indispettita a tal punto da spingerla a una risoluzione così radicale. Con un impercettibile sospiro e un sorriso che non arrivava al cuore la ragazza aveva replicato che la sua era una decisione dettata esclusivamente da difficoltà familiari, impelagandosi in spiegazioni frammentarie in cui aveva parlato di affari urgenti cui badare e della necessità di doversi a breve trasferire in altra città. Lui l’aveva ascoltata con sguardo meditabondo senza proferire parola, poi aveva estratto da un cassettino della scrivania un modulo dattiloscritto che lei aveva firmato senza leggere, a fiducia, prendendo la busta che le porgeva quasi con rammarico, con una fermezza che sentiva prossima al capolinea, senza controllare minimamente cosa contenesse.

Preparando il borsone, il quarto in quel sabato di chiaroscuri fatto di afa estiva inutilmente attenuata da un susseguirsi incessante di temporali, aveva elaborato il passo successivo. Mara aveva ascoltato in silenzio del suo licenziamento e della sua difficoltà presente di affrontare la spesa del subaffitto di quella stanzetta di dieci metri quadri in un condominio di periferia. Accettando con magnanimità di conservarle in una cantinola tutto ciò che lei non fosse riuscita a caricare nella sua utilitaria fino a quando lei non avesse trovato adeguata sistemazione in un altrove imprecisato di cui non aveva voluto sapere nulla. Aveva anche promesso discrezione assoluta sulla sua partenza, compatendola mentalmente per quanto le era in così poco tempo accaduto, e a quel punto Irene le aveva trascritto su un post-it il suo nuovo cellulare ringraziandola per tutto e assicurandole di chiamarla presto per farle avere sue notizie. Delineando di se stessa e della propria vita in quella mezzora molto di più di quanto in quattro anni di coabitazione non avesse fatto. Poi era partita.

Per andare dove non lo sapeva nemmeno lei. Certamente allontanarsi in fretta da una situazione che le aveva tolto serenità e vitalità, smagrendola e conferendole un’aria più patita del solito che le era diventata inaccettabile. Uscire dalla cinta d’asfalto di quella città di provincia le aprì i polmoni liberandola in parte dal peso di angoscia e di incertezza che le premeva sul cuore.

D’istinto decise di puntare verso la costa, verso il mare. Aveva voglia di respirare aria pulita di salsedine mista all’odore penetrante di ozono che le solleticava le narici, guidando blandita dal ticchettio rasserenante della pioggia sulla capote della sua macchinuccia e dal confortante ritmo dei tergicristalli in azione.

Quando arrivò in quella cittadina pulitissima dal nome antico di sibilla si accorse con stupore di avere fatto più strada del previsto incalzata dal temporale e da pensieri vorticosi che tuttavia si erano dipanati come il filo di una matassa prontamente districato da un’esperta tessitrice.

Scendendo dall’auto per sgranchirsi le gambe intorpidite fu assalita dal richiamo del mare infuriato e dall’odore dell’arenile bagnato a quell’ora deserto.

Tra l’insegna fluorescente dell’hotel che prometteva vacanze marine roboanti e quella, più modesta, di un bed and breakfast a poche decine di metri più in là scelse quest’ultimo, cenando, come spesso le capitava da bimba, con un cappuccino e un croissant. La stanza era piccola ma graziosa e tra i tetti degradanti di quel centro storico così compito, mostrava un piccolo scorcio di mare aperto, beneaugurante, appena illuminato dallo scintillio di un quarto di luna sbucato non si sa come dai nuvoloni dispersi dal vento. Si addormentò con semplicità, come oramai da tempo non le capitava, le braccia strette attorno al corpo smagrito e le persiane aperte sull’aria fresca e invitante della notte.

– Buon giorno.

La padrona del Mistral l’accolse con un sorriso e la condusse verso un terrazzino odoroso di bouganvillea e gerani in cui aveva apparecchiato per lei. Irene fece onore alla colazione mentre guardava con occhi impenetrabili verso il mare, certo e incredibilmente presente anche da quella nuova prospettiva.

Un gabbiano intraprendente svolazzò dalla pensilina che la sovrastava e lei si stupì di quell’audacia osservandone ammirata l’apertura delle ali e il volo sicuro a metà tra la libertà e la consapevolezza di dover tentare nuove strade, nuovi mari, alla ricerca del necessario per andare avanti con dignità.

– Per stasera cosa ha deciso? Pensa di trattenersi ancora?

Cincischiando distrattamente con un’unghia sul ricamo della tovaglietta della colazione Irene si riscosse e accennò a un sorriso, lo sguardo verso il cielo rimesso al bello, nella carezza di una brezza gradevole e sottile.

– Resto, le disse.

E, con la lievità di una nuvola trasportata da correnti d’aria propizie, si diresse verso il fulcro di quel paese antico che sapeva di nuovo, che sapeva di buono.

 

Lucia Guida

 

* “Il cielo resta sempre” ha partecipato al Premio Dialogare 2014

 

 

“Promenade sur la falaise, Pourville”, Claude Monet (1882)

Il volo dell’aquilone

“ll volo dell’aquilone” segna il mio esordio letterario come autrice di racconti brevi, classificandosi, nel 2008, tra i dieci racconti finalisti del XII Concorso bandito dalla Biblioteca Poggio dei Pini di Capoterra (CA).

E’ un testo a cui sono particolarmente legata e ha segnato per me il passaggio da blogger a scrittrice di racconti brevi, una strada intrapresa a piccoli passi.

Confesso che avrei comunque amato Valerio e il suo desiderio caparbio e tenero di far volare quell’aquilone così faticosamente costruito anche senza i riconoscimenti ufficiali ricevuti. Spero sia così anche per voi  

Buona lettura e a presto

 

Il volo dell’ aquilone 

Valerio era il terzo di quattro figli. Era arrivato in sordina all’ alba di  un mattino di dicembre, terzogenito di una tipica famiglia di una città di provincia come tante. Una famiglia in cui spiccavano il rigore di un padre che si era fatto da sé  e la docilità di una madre che si era sposata per sistemazione e forse con poco amore. Valerio era stato accolto con la naturalezza con cui si accoglievano tutti i figli nati sotto la solidità di un tetto coniugale; sua madre gli si era dedicata con la dovuta devozione, quella che ci si aspetta da una brava madre, crescendolo con affetto contenuto alternato a momenti di tenerezza estrema in cui lui diventava centro del suo fragile universo femminile e fulcro verso cui pareva si accentrassero  tutte le aspettative di moglie palesemente insoddisfatta. Quindi, inaspettatamente, a distanza di circa quattro anni era nato Tancredi, spodestandolo del privilegio di piccolo di casa e portando con sé altri elementi destabilizzanti nella serenità e nelle certezze, poche, di quella “ donna del dovere “.

Valerio aveva gestito con apparente piena accettazione la nascita di quel bimbo. A lui era subito sembrato troppo piccolo e un po’ bruttino, inspiegabilmente circondato dalle cure continue della zia paterna, ufficialmente giunta in quella casa per dare una mano ma in realtà anche per aggiungere  il peso della propria autorità a quella paterna, appesantendo l’animo di quella mamma già greve di stanchezza non solo fisica. I suoi fratelli maggiori, invece, avevano preso l’intera faccenda con disposizione diversa; Alberto con la leggerezza che stemperava in tutte le cose che faceva e le iniziative che intraprendeva,  Maria Paola  con il giudizio e la saggezza che la caratterizzavano da sempre e la rendevano figlia prediletta in modo indiscusso del papà. Al bimbo non era rimasto altro che dissimulare un profondo e antico dolore con l’ apparente pacatezza che pareva tutti si aspettassero da lui. In quella famiglia, simile ad una compagnia di guitti, a ciascuno era richiesto di ricoprire un ruolo ben preciso e costante nel tempo; e il suo, appunto, era quello di figliolo incredibilmente disponibile e buono, pronto a modellarsi al canovaccio necessario al momento riproponendo comportamenti pregressi già con successo sperimentati senza improvvisazioni di sorta.

Le sue giornate di bimbo sensibile e creativo procedevano sempre nello stesso modo, segnate dal carattere burbero di quel padre dalla personalità ingombrante e dall’apparente duttilità di quella donna  affannosamente presa dalle mille incombenze proprie del ruolo che le era stato chiesto di impersonare; in un sottofondo dai colori tendenti al cupo, delineato dall’irruenza dei modi paterni, fatto di tempeste vere o presunte e mai mitigato dalla vivacità di un arcobaleno femminile che potesse addolcirlo.

A un certo punto della sua giovanissima vita aveva scoperto le infinite potenzialità racchiuse in una matita e una manciata di colori,  prendendo a dare sfogo, attraverso disegni complicatissimi e ricchi di particolari minuziosamente tratteggiati, a quel groviglio di sentimenti inespressi presente nel suo cuore infantile che mai nessuno aveva pensato di portare in superficie con parole amorevolmente invitanti al dialogo. Immagini vivaci e coloratissime avevano assunto infinite forme nello spazio quadrettato di un foglio, contribuendo a rasserenare i suoi momenti più critici e sublimando energie vitali che altrimenti sarebbero andate a sfociare in frustrazione, impotenza e rabbia. Sua madre aveva notato questo cambiamento, soffermandosi per un po’ sulle cause che lo avevano prodotto. Concludendo, infine, velocemente le sue riflessioni con una carezza lieve e distrattamente conciliante. Un’ abitudine, quella di pasticciare con le matite, che portava talvolta Valerio al punto di dimenticare perfino di mangiare per dedicarsi a quel nuovo passatempo da lei giudicato oltre modo singolare con stupore e meraviglia e assecondato con materna indulgenza. Assai diverse, naturalmente, le conclusioni cui era giunto suo padre; il disegno era da quest’ ultimo sempre stato giudicato un’arte minore, superflua, minimale. Ben altro rispetto alla letteratura, alla matematica o alla storia. Forme d’espressione o discipline di maggior spessore, assolutamente non paragonabili per consistenza a pittoreschi ghirigori colorati. Ma stavolta Valerio aveva tenuto duro, riaffermando silenziosamente la sua volontà di esternazione e all’ austero genitore non era rimasto che brontolare per un periodo limitato di tempo circa l’ inutilità di coltivare precocemente simili passioni, per poi terminare con l’allinearsi, sia pure partendo da diversi presupposti, alla tollerante posizione materna. E si era giunti a quella fatidica data, a quel primo ottobre che avrebbe sancito il suo ingresso ufficiale nel mondo degli adulti con la sua entrata nella scuola elementare. Il padre l’ aveva accompagnato in silenzio in quell’ aula gremita di banchi con la pedana e segnata dai singhiozzi di qualche bambino incapace di contenere la propria paura del nuovo, lasciando che quel maestro dall’ aspetto severo, da lui conosciuto e stimato personalmente come persona integerrima e di autorità,  attribuisse a quel nuovo scolaro il posto che gli sarebbe toccato per tutto l’anno scolastico. Per un istante, un solo istante, Valerio aveva chiuso gli occhi trattenendo il fiato per evitare di indulgere in  quelle che sarebbero state considerate, ne era certo, esagerate manifestazioni emotive. Un solo istante che, però, racchiudeva un mondo di pensieri, primo tra tutti quello dell’ aquilone di carta di seta da lui confezionato il giorno precedente e che non aveva potuto far volare per la pioggia, piangendo silenziosamente e di nascosto nella rimessa per liberarsi della frustrazione di quel piccolo piacere negatogli dalle circostanze della vita.

Ci aveva lavorato con lena per ben due giorni, cercando di addolcire in tal modo il pensiero dei doveri scolastici prossimi a venire. In un cassetto del tavolino da cucito della madre aveva scovato diversi fogli di carta da modello chiedendole il permesso di utilizzarli per quella nuova impresa ed ottenutolo vi aveva riversato con impeto e passione tutta la sua energia creativa, decorandolo pazientemente e amorevolmente con le sue matite e facendo ampio uso di colla di farina e acqua. Al contadino che curava l’ orticello di casa aveva sottratto delle asticelle sottili di bambù destinate alla coltivazione degli ortaggi, incrociandole con precisione ingegneristica e legandole con lo stesso spago con cui  aveva assicurato l’ aquilone ad un rocchetto di legno.

E poi aveva atteso che una giornata di sole e tepore annunciasse il mattino successivo.

Ma così non era stato, e un imprevisto maltempo aveva segnato il suo risveglio assieme alla proibizione assoluta di recarsi nei campi ormai fangosi e pieni di pozze d’ acqua piovana.

A lui non era rimasto che sperare inutilmente che  il tempo si rimettesse al bello, col visetto appiccicato al vetro della portafinestra del tinello. Il miracolo non si era però compiuto.

Con incredibile forza d’ animo aveva terminato di pranzare spiluzzicando distrattamente e attirandosi i commenti poco piacevoli del fratello maggiore. Ma a pasto ultimato e non appena tutti  avevano smesso di dedicargli un’ attenzione in quel frangente davvero indesiderata e scomoda, era scappato in cortile e corso via nel suo rifugio segreto. Per dare finalmente libero sfogo al suo dolore immenso.

Consapevolmente privo del conforto lieve e dell’ empatia gentile di una voce adulta qualsiasi che gli spiegasse come quella domenica era soltanto principio di autunno e non castigo divino per improbabili colpe precedentemente commesse.

Eppure a un tratto era stato proprio il pensiero di quel mancato divertimento a tirarlo su di morale e a rendere sopportabile quella giornata di pura sofferenza.  Come un viandante assetato in un deserto inospitale  cerca di scorgere in lontananza l’immagine rarefatta dell’ oasi per rinfrescare il proprio spirito affranto, l’ idea di quell’ aquilone in paziente attesa e tuttavia pronto a  spiccare il volo in qualsiasi momento, condotto dalla sua manina e da un vento gentile e favorevole, aveva avuto il potere di rasserenarlo e di dargli speranza nuova. Portandolo con sé ed in alto, con benevolenza,  verso una concreta e possibile via di fuga, a distanza di anni luce da quel presente di così poche soddisfazioni e di molti affanni.

Lucia Guida

 

 

“Aquiloni”, dipinto di Cesare Cassone

 

 

Ballata di una notte di plenilunio

Ci sono viaggi che durano pochi attimi e viaggi che durano una vita. E poi ci sono i viaggi della speranza, quelli compiuti con l’entusiasmo, la forza e la disperazione di credere ancora in una vita migliore.

In questo racconto, inserito nell’antologia di A.A.V.V. “Pensieri in viaggio”, pubblicata nel 2010 da Ibiskos  Editrice Risolo, do voce ai pensieri silenziosi di  Marisella, giovane ragazza dei primi del 900 partita oltreoceano alla volta della terra promessa alla ricerca di un’esistenza migliore e maggiormente soddisfacente. Compagna delle sue riflessioni la Luna, con i suoi raggi luminosi  e benevoli, complici.

Buona lettura

Ballata di una notte di plenilunio

(… )

ora non piangere perché
presto la notte finirà
con le sue perle stelle e strisce
in fondo al cielo
e ora sorridimi perché
presto la notte finirà
con le sue stelle arrugginite
in fondo al mare

( … )

da   “  Verdi Pascoli  “   di F. De Andrè  

– Marisella sei ancora sveglia ?

La voce in sordina di comare Tonia ruppe d’un tratto il flusso dei suoi pensieri facendola emergere dal torpore che l’aveva assalita. Decise però di fingere di essere quello che l’altra aveva immaginato continuando a tenere gli occhi chiusi, troppo stanca per replicare in qualsiasi modo, sentendosi quasi soffocare nel ventre di quel battello che l’aveva aiutata a recidere innanzi tempo antichi legami con la sua terra al pari di una puerpera che sa di doversi privare della propria creatura ed è tuttavia ancora traboccante di amore e di nutrimento per lei.

Era in viaggio da più di una settimana, con l’animo improntato alla speranza e alla fatica propri di un pellegrinaggio in cui ogni gesto, anche il più doloroso, è un sacrificio necessario per poter acquistare l’ambita indulgenza e un barlume di santità in altro modo difficilmente raggiungibili. La nave la stava portando in un nuovo Paese di cui non conosceva nulla oltre ai racconti immaginifici di chi c’era stato narrati attraverso una lettera o contenuti in brandelli di conversazione riportati dalle labbra dei pochi che avevano parenti emigrati. Aveva preso la decisione giusta? Ci sarebbero stati rimpianti? Al momento non lo sapeva. D’istinto, tuttavia, sentiva come la scelta compiuta fosse probabilmente l’unica possibile in quel futuro nebuloso potenzialmente foriero di avvenimenti a tinte scure che l’aveva d’improvviso avviluppata. Il destino l’aveva precocemente privata della sua famiglia e del conforto morale e materiale da essa rappresentato con la morte dei suoi genitori, periti di “spagnola” a breve distanza l’uno dall’altra, e della presenza di un fratello che  aveva deciso di tentare la strada dell’emigrazione in Francia di cui a oggi non ne sapeva più niente.

In quel paese del sud, battuto dal vento in ogni stagione, d’estate come d’inverno, fatto di viuzze concentriche aggrappate tutte al suo nucleo originario, lei aveva atteso invano un segnale certo che non era giunto: quello di poter continuare a vivere in un microcosmo conosciuto sin nei minimi dettagli ma ultimamente per lei così poco benevolo. E un proponimento audace, lentamente, aveva cominciato a prendere corpo nella sua mente crescendo di giorno in giorno e fortificandosi per non darle la possibilità di ripensarci sommersa dai sensi di colpa. Ben poche ragazze nella sua condizione avrebbero avuto l’ardire di rifiutare, rischiando per l’affronto a terzi procurato di rimaner zitelle a vita, un matrimonio di convenienza. Eppure lei l’aveva fatto. Quell’attempato vedovo con prole in cerca di una moglie giovane e docile che potesse prendersi cura dei suoi averi e di se stesso davvero a buon mercato, l’aveva fatta arretrare di più di un passo. Nemmeno il parroco, chiamato a perorare la causa e a far “ragionare” la ragazza era riuscito a farle cambiare idea. Marisella aveva tenuto duro, recandosi in chiesa tutti i giorni all’alba pur di non attirarsi la malevolenza popolare e facendo, se possibile, una vita ancora più ritirata della precedente. E Tommaso, il barbiere scrivano della povera gente che come lei sapeva a mala pena fare la firma, l’aveva aiutata a stilare una lettera alla sua madrina di battesimo, emigrata col marito in America. Maria le aveva ridato un soffio di speranza, mostrando di volerla accogliere con sé, almeno fino a quando non avesse trovato di che sostentarsi da sola.

Marisella aveva venduto il suo bellissimo corredo ricamato a mano a certe signorine benestanti del luogo e un pezzo di terra che era la sua dote, procurandosi con fatica l’occorrente per pagarsi il biglietto e il parroco si era coscienziosamente incaricato, una volta al corrente dei suoi progetti, di affidare quella figliola caparbia a una famigliola che si apprestava a cercare fortuna oltreoceano. Erano partiti come ladri nel cuore della notte alla volta di Napoli per imbarcarsi su quella nave dal nome sconosciuto e altisonante, i pochi tesori conservati in fagotti e valigie di fibra di poche lire.

Il suo destino non era certo quello di Nuccia, conosciuta sul battello, sposatasi per procura con un giovane del suo paese che aveva deciso di sistemarsi con una conterranea di sani principi e senza troppi grilli per la testa non appena aveva laggiù raggiunto un po’ d’agiatezza con un lavoro sicuro. Quanti sogni e quanta fiducia racchiusi in quella foto minuscola e stropicciata serbata dall’altra in petto sotto la camiciola sottile fatta a mano! Sospirò piano invidiandola suo malgrado per quel sentimento d’amore che non le era ancora dato di provare, rigirandosi tra le coperte.

Si era sempre chiesta perché nei racconti degli emigrati più fortunati, quelli che poi tornano a casa per riabbracciare i propri cari col sorriso di chi ce l’ha fatta, mancassero descrizioni della traversata. Ora ne sapeva il motivo.

Non c’era nulla di fantastico o grandioso nei pochi metri di spazio assegnati ai tanti come lei, ma un senso di profonda desolazione dissimulata dalle preghiere recitate dalle donne e dai canti di calabresi, pugliesi, napoletani mormorati a mezza bocca nei dormitori di terza classe in quelle lunghe e interminabili nottate che parevano non avere mai fine. Anche lei a volte stentava, come in quel frangente, a prendere sonno, in silenziosa percezione di quell’umanità femminile sopita che con maggiore fortuna era riuscita, stringendo una medaglietta benedetta o una cosa di famiglia, ad addormentarsi.

Eppure non era la positività a difettarle.

Quel pezzetto di destino lei se l’era conquistato a caro prezzo riversando tutte le sue aspettative in un avvenire ben diverso da quello che le avevano prospettato, ne era certa. Nel suo modesto bagaglio c’era molto di più di qualche capo di vestiario o qualche oggetto caro. C’era la sua parte migliore, quella che aveva preteso, in nome del valore che sapeva di possedere, un’attenzione in più dagli eventi: una scommessa appena abbozzata, un grido di libertà e di consapevolezza pudicamente celati ma pronti a venir fuori al momento opportuno. Sarebbe diventata una bambinaia o un’operaia, o forse avrebbe alla fine ceduto alla tentazione di una comoda sistemazione da massaia, ancora non lo sapeva. Cosciente di aver voluto giocare una partita assai rischiosa ma rifiutandosi di intaccare, con altro atteggiamento, quel rispetto per se stessa conquistato barcamenandosi tra le avversità della vita con ammirevole fermezza.

Sotto il cuscino informe della cuccetta cercò febbrile un sacchetto odoroso di spigo, uno di quelli mescolati da sua madre alla biancheria, stesa ad asciugare nelle giornate di sole e vento sull’ erba verdissima e ripiegata ancora fragrante di aria e di natura sino al prossimo uso. Pensò alla serica delicatezza dei fiori del suo terrazzo augurandosi che sopravvivessero al lungo e deliberato abbandono grazie alle cure sollecite della  vicina di casa e allo scialle ricamato di seta di S. Leucio, ricordo di sua madre, riposto con cura tra le sue cose più preziose. Aveva deciso di drappeggiarselo sulle spalle il primo giorno che fosse sbarcata in quel porto straniero avamposto della sua nuova vita. Sentiva che le avrebbe portato fortuna, impregnato com’era della dolcezza dei suoi giorni migliori e della sua storia familiare.

Desiderò di poter camminare anche per pochi istanti su uno dei ponti superiori alla luce della luna e con la brezza marina dispettosamente intenta a scompigliarle la crocchia di capelli castani accuratamente composta e a intrecciare i fili della frangia dello scialle di pesante lana marrone che la difendeva dalla nebbia e dai rigori climatici della stagione, ma decise di aspettare l’indomani. Preferiva non abbandonare il dormitorio femminile in piena notte senza compagnia e quel coraggio che l’aveva fortemente connotata negli ultimi mesi stava iniziando a scarseggiare dopo le dure prove di quell’interminabile viaggio. Con uno sforzo di volontà aveva deciso di accantonarlo tutto per ciò che, l’aveva appreso a bordo dai racconti di altre donne che “sapevano”, l’attendeva di lì a presso, una volta sbarcata documenti alla mano ad Ellis Island; stringendo ancora una volta i denti di fronte a quel nuovo ed esoso prezzo da pagare per giorni a venire migliori dopo notti faticose punteggiate di stelle minuscole e lontane, talvolta troppo difficili da scorgere.

Con delicatezza fece un altro piccolo nodo, il nono, lungo il sottile cordone di cotone del sacchetto di spigo marcando, con quel gesto quotidiano, il tempo per accorciare, se possibile, i tanti istanti che ancora la separavano da quel nuovo sentiero già profilato all’orizzonte.

Socchiudendo gli occhi desiderosi di riposo si abbandonò al beccheggio appena accennato della nave seguendo l’onda dei respiri ora lievi ora pesanti delle sue compagne. Sapeva che cedendo alla stanchezza sarebbe andata incontro a un continuo di immagini vivide e poi sfocate, di pensieri compiuti o appena delineati, di realtà e fantasia, consapevole tuttavia che ciò ora le avrebbe dato meno turbamento.

Sulla folla impazzita dei tanti perché avrebbe prevalso la sua coscienza avvolta da un delicato e beneaugurante profumo di lavanda libera alla fine dai chiaroscuri complicatissimi dei “se” e dei “ma”.

Di questo si sarebbe d’ora in avanti armata, questo a figli e nipoti avrebbe tramandato, giurò.

Comare Tonia finì di sgranare il rosario baciandone con antica abitudine la croce benedetta prima di metterlo via. Poi sbirciò la ragazza finalmente addormentata conscia di quanta forza si celasse in quell’esile  corpo fortificato e abbellito prematuramente dal dolore. Chissà quanto ancora le sarebbe toccato in sorte, immaginò pensosa. Ma ce l’avrebbe fatta, concluse, e scaramanticamente si segnò.

Per omnia sæcula sæculorum.

Amen. *

Lucia Guida

* “ Ballata di una notte di plenilunio “ in  A.A.V.V., 2010, Pensieri in Viaggio, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo

photo by Immagini dal mondo

La collana di conchiglie

“La collana di conchiglie” è il secondo e ultimo racconto parte, con “Un mercoledì perfetto”, del volume di A.A.V.V Il cuore delle donne, a cura di RosaAnna Pironti presentato nel mio precedente post. Racconta a voce alta i pensieri di Maria e le azioni di Romina, la sua nipotina, còlti sommessamente in un’afosa giornata estiva trascorsa in riva al mare. Entrambe le protagoniste sono impegnate a infilare gesti e riflessioni come, appunto, conchiglie assemblate con cura certosina da mani bambine in un gioco senza tempo. In quest’ottica pacata tutto, anche il più piccolo particolare, assume un senso  certo, per alcuni versi rassicurante anche se mai rinunciatario.

Buona lettura

La collana di conchiglie

Era un ciottolo di mare color ambra lambito senza sosta e con dolcezza dall’acqua cristallina di quel mare senza età. La bimba smise di dondolare il secchiello arancio posandolo sulla sabbia umida della battigia e si chinò a raccoglierlo. Venato d’iridescente com’era a lei sembrava quasi magico. Il sasso fu scelto finendo  assieme a conchiglie di varia dimensione e foggia, rametti di legno contorti e bizzarri, fili d’alga avvolti da un velo di sabbia e acqua marina in quell’accogliente scrigno ambulante. Un ricco bottino di cui andare fiera una volta a casa, a testimonianza di una giornata proficua tra la brezza fresca e salmastra e ombrelloni azzurri sventolanti e ombrosi.

Maria sollevò lo sguardo dal libro seguendo indulgente le gesta della bimba concentrata in quel lavoro certosino.

“ Amare un nipote è amare un figlio proprio “ si disse. Quella piccola, figlia di sua sorella, arrivata d’ottobre dopo un parto difficile tra mille ansie, aveva da sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Manifestato con le tante piccole attenzioni con cui amava circondarla: un gioco, un libro a colori, una collanina acquistati per lei accanto al necessario per i propri ragazzi. Sospirò sommessamente. I suoi figli erano al momento lontani, in vacanza con il loro padre muniti di tutto, anche del superfluo. Consegnati a lui con un sorriso e con rigoroso senso del dovere come le toccava, ma anche con segreto rimpianto. Due settimane in cui la loro casa versava in un silenzio e un ordine innaturali non aspettando altro che di rivestirsi con il giubbino di Marta insolentemente gettato per traverso sullo schienale del divano in sala o i Topolino di Matteo disseminati dappertutto a marcare il territorio.

Quell’anno aveva avuto, durante la loro assenza, il privilegio di potersi occupare di Romina. Aveva costruito con lei castelli di sabbia abbelliti con tutto ciò che le onde avevano deciso di riportare a riva, secondo uno schema tramandato di generazione in generazione da sua madre a lei e a sua sorella, ai suoi ragazzi ed infine a quello scricciolo biondo e vivace di cinque anni. Ritrovando il gusto di narrare storie di bimbe dal nome stranamente assonante a quello della piccola tiranna, sdraiata con lei sul lettone, occhi semichiusi e capelli morbidi dall’odore di piume, prossima al sonno e decisa a sfuggirlo in ogni modo in una lotta vana dall’esito certo che culminava immancabilmente in un respiro rapido e regolare nella penombra accogliente della stanza. Erano state giornate trascorse ideando giochi nuovi per soddisfare la vanità di quella donnina attraverso monili di conchiglie infilate una ad una o di pratoline tenute insieme da sottili fili d’erba raccolte con dovizia ed entusiasmo nel parco e poi disposte ordinatamente su una panchina per poter essere intrecciate.

Erano, quelli, momenti in cui il trillo del cellulare perdeva d’importanza diventando ricordo di una quotidianità sospesa nel tempo; ricomparendo, però, in serata per riannodare i contatti con i suoi figli, impegnati in giorni di vacanza vissuti con entusiasmo in un’estate ormai agli sgoccioli che di lì a poco avrebbe ceduto il passo alla scuola, a risvegli frettolosi, al calcio ed alle lezioni di danza, a cento altri impegni programmati e altrettanti  gioie, crucci, soddisfazioni, frustrazioni  di adolescenti in crescita.

Ripensò fugacemente al periodo in cui entrambi i suoi figli, immersi nel liquido amniotico del suo grembo, avevano rappresentato per lei e per il loro padre un infinito mondo di progettualità futura, i loro guizzi di pensiero accompagnati dai movimenti lenti e regolari di quegli esserini felici di nuotare in un acquario confortevole e tiepido. C’era stato un tempo recente in cui aveva desiderato, accanto a un altro uomo di cui si era inaspettatamente innamorata, di mettere nuovamente in cantiere un’altra piccola vita. Ma il miracolo non si era compiuto. Col senno di poi era arrivata a ringraziare il destino per non averle permesso di concretizzare quel tenerissimo sogno. Chiuse gli occhi per il riverbero del sole. Ogni volta che riandava a quello che avrebbe potuto essere e che tuttavia non era stato si sentiva come una farfalla stanca di volare consapevole del lungo cammino che l’aspetta ancora.

Una manina gentile ma decisa la riportò alla realtà tirando un lembo di ciniglia azzurra del suo telo.
“ La collana, zia “.

“ Dopo pranzo, amore mio” le promise, chiudendo gli occhi al sole.

Il patio era un’oasi di frescura nel pomeriggio assolato. Di spalle alla brezza che soffiava dalla collina sul frinire delle cicale, Maria cominciò la sua opera di infilatura, costantemente monitorata dalla nipote che si trastullava con i suoi gingilli pulendoli con cura e sistemandoli per terra uno dopo l’altro come bravi soldati pronti per essere ispezionati. Una conchiglia bianca, una rigata, una bluastra; media, piccola, grande. “Questa è da scartare, non è forata a sufficienza”, le suggerì, rendendole meccanicamente quello che la bimba si era invece affrettata a porgerle.

Romina si fermò, incerta. Non sapeva come rimediare a quell’intoppo imprevisto. Ma fu solo un istante.  Con prontezza affiancò il ciottolo ambra e iridescente del mattino al guscio di madreperla scartato e tutto, finalmente, ebbe nuovamente un senso.

“Stanno bene insieme”, annunciò felice.

Poi continuò, serissima e coscienziosa, a catalogare le sue gioie.  *

Lucia Guida

* “La collana di conchiglie” in A.A.V.V., 2012, Il cuore delle donne, raccolta di racconti di autori vari a cura di RosaAnna Pironti Editore – Stampa Lulu.com 

“Bucket Brigade children on the beach” by Kay Crain

Casa di bambola

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immagine di apertura di Antica Stamperia Aurora

Chi di noi non ha desiderato da bambini un giocattolo a lungo e disperatamente? Scrivendo, magari, una lettera a Babbo Natale o adoperandosi per ottenerlo con qualsiasi mezzo? In “Casa di bambola” ho colto a pretesto questa situazione per dare corpo al desiderio segreto di Mina, bimba di qualche tempo fa, ai suoi sogni e alla sua quotidianità infantile.

“Casa di bambola” è uno dei 24 racconti racchiusi nell’antologia “Ricordi di giocattoli” a cura di Federica Gnomo, scrittrice e blogger versatile. L’antologia contiene una bella intervista a Luciano Dreoni, titolare dell’omonima catena di negozi di giocattoli; per volere di noi tutti l’intero importo derivante dalla vendita del libro sarà devoluto all’associazione Veronica Sacchi (AVS) di Milano

Casa di bambola 

Avvolto con cura in una carta blu notte cosparsa di stelline luminose c’era quel dono tanto agognato da Mina. Mani invisibili l’avevano poggiato alla base dell’albero di natale in plastica verde, adorno di addobbi multicolori, fili argentati e dorati e lucine intermittenti riflessi nel vetro lucido e scuro della portafinestra della sala da pranzo di casa. Babbo Natale aveva mantenuto la promessa, ne era certa; e quell’enorme involucro non poteva che celare la “Casa di bambola” occhieggiata per tutto l’autunno nella vetrina del giocattolaio e libraio amico di famiglia e padrone di un negozietto senza pretese nel centro storico del suo paese. Innamorarsene e poi fantasticare sull’uso che ne avrebbe fatto, se quel giocattolo fosse mai diventato suo, era stata la forma di riscatto più tangibile per i tanti accompagni a cui si era assoggettata con cadenza quotidiana sino a poco tempo prima: alle interminabili e noiose conversazioni di suo padre col suo amico storico farcite di politica e letteratura, al freddo e al sentore di umidità trasudante da quel negozietto antico tramandato di generazione in generazione che nel corso di mezzo secolo aveva conosciuto pochissimi mutamenti rispetto all’assetto originario. Allo sguardo di malcelata sopportazione dell’unica commessa, limetta alla mano, seduta in cassa nella noiosa attesa dei pochi  clienti,  nel guardarla sfogliare con intraprendenza e avidità le pagine dei libri ben impilati sparsi un po’ dappertutto per ingannare il tempo indefinito delle  discussioni paterne condite dall’atmosfera fumosa delle tante sigarette divorate nell’arco di una serata. Tutto fino alla folgorazione che l’aveva colta nell’attimo in cui, in un pomeriggio piovoso di metà ottobre, aveva scorto in bella mostra in vetrina quella monumentale casa di bambola in miniatura sciogliendosi in adorazione come mai  in passato le era capitato al cospetto di un oggetto che non fosse uno dei suoi amatissimi libri. “Alle cose non bisogna mai affezionarsi”, aveva più di una volta sentenziato stoicamente suo padre. E lei con diligenza, sino a quell’attimo di innamoramento matto e disperato, aveva cercato di tener fede a quel precetto, chiudendosi occhi e orecchie di fronte a qualsiasi frivolezza infantile. Sino al fatidico istante in cui, tuttavia, la tentazione era diventata troppo forte per potervi far fronte con la determinazione e l’austerità di sempre. La commessa aveva intercettato sorniona il suo interesse e, una volta tanto, non si era premurata di contrariarlo, piazzando  il giocattolo strategicamente al centro dell’unica esposizione che dava in piazza, perché chiunque di passaggio potesse averne ampia e completa visione. Quell’abile mossa l’aveva, da principio, crucciata non poco e Mina, con gelosia a stento repressa, aveva più di una volta temuto che un papà o una mamma più intraprendenti dei suoi potessero decidere di comprarlo per una bambina altrettanto desiderosa di giocarci e di immaginarci un mondo intero dentro.

Ma per una strana e favorevole circostanza ciò non era avvenuto e lei, col procedere dei giorni,  aveva continuato a rimirarne con un certo compiacimento l’imponenza dietro quel  vetro ora rigato dalla pioggia ora appannato dalla condensa per poi finire sotto le feste contornato da luminosi campanellini beneauguranti, da un minuscolo Babbo Natale e da un’infinità di piccole cianfrusaglie natalizie che non ne avevano sminuito lo splendore, impreziosendolo oltre misura. L’attesa di quel regalo  si era rivelata più spasmodica  e sofferente che mai e Mina aveva raddoppiato il suo impegno nel comportarsi bene perché quel sogno potesse finalmente diventare realtà. Aveva regolarmente svolto i compiti assegnati dalle maestre, aiutato la mamma al bisogno, tamponato con insolita disponibilità e pazienza le intemperanze e la capricciosità dei suoi fratellini. Si era perfino messa di buona lena a ricavare uno spazio  tutto suo nella cameretta che condivideva con loro tra l’armadio e il muro, una sorta di porto franco in cui poter sistemare il suo minuscolo quartierino immaginando una vita spensierata, finalmente colorata a tinte pastello.

Venire a sapere che non c’erano abbastanza soldi per comprare ciò che considerava già di sua esclusiva proprietà da una conversazione notturna dei suoi genitori l’aveva inizialmente gettata in uno stato di profonda prostrazione, ma non si era tuttavia persa d’animo. Il giorno successivo era andata dai nonni materni e con insolita audacia per una bambina riservata come lei, gliene aveva parlato con così tanto entusiasmo da farsi venire le lacrime agli occhi. I due anziani si erano guardati l’un l’altra senza commentare, ma qualcosa doveva essere accaduto perché un paio di sere dopo la cassiera l’aveva squadrata con maggior indulgenza e con una complicità inusitata che l’avevano stupita e, suo malgrado, toccata nel profondo in modo inspiegabile.

Rimirando per l’ultima volta l’oggetto del suo desiderio Mina chiuse la porta a vetri del salone e tornò a nanna. Se Babbo Natale aveva fatto il suo dovere, premiandola per l’impegno considerevole da lei profuso nell’impresa, c’erano ancora speranze in un avvenire diverso, migliore.

Si trastullò nel dormiveglia immaginando di abitare realmente la minuscola sala da pranzo apparecchiandone la tavola con solennità come la nonna nei giorni di festa. Di aprire con slancio le finestre della sua cameretta, una stanza tutta per lei, interamente colorata di indaco. Il fatto che in quella casa di pupe ogni stanza avesse pareti colorate differentemente la faceva pensare a un arcobaleno spuntato sorprendentemente dal nulla in una giornata di cupo grigiore invernale.

Ai gemelli poteva andar comoda la stanzetta nel sottotetto; così avrebbero potuto fare le loro diavolerie senza troppo danno. Ma forse era il caso di sistemarli di fianco alla cucina. No, lì avrebbero potuto trovare posto soltanto i nonni; a pianterreno, per evitare di fare le scale, e per lei non sarebbe più stato necessario chiedere il permesso per poterli andare a trovare dopo la scuola, cercando di non essere intercettata dal cipiglio di suo padre, spesso nervoso e irascibile con tutti, da sempre avaro di sorrisi e di carezze, di parole incoraggianti. A lui e alla mamma aveva riservato la stanza più sontuosa, quella con l’enorme letto a baldacchino, la copertina rosa di seta artificiale profilata con una frangia che a toccarla ( e a lei era capitato di farlo spessissimo, di nascosto, quando la cassiera s’intratteneva fuori dal negozio col suo moroso ! ) sembrava di essere in paradiso.

Probabilmente in una camera bella e accogliente come quella avrebbero anche smesso di litigare e a lei non sarebbe più toccato di rassicurare i gemelli nottetempo, svegliati dal fragore delle loro voci alterate e dalle tante parole dure e pesanti come macigni palleggiate vicendevolmente con colpevole leggerezza. Il poco denaro e i lavoretti precari di suo padre, i conti della spesa da saldare. Un affitto in perenne ritardo da onorare, richiesto dal padrone di casa con implacabile puntualità a ogni primo del mese. Sua madre che si disperava di continuo ma che alla fine  faceva magie in casa e con tutti loro. I vestitini smessi ereditati da una cuginetta che non le piacevano per niente, tutti fronzoli e pizzi, e che doveva indossare con paziente arrendevolezza perché questi erano gli accordi tra la mamma e la zia felice di dare così una mano. Chissà, magari in quella casetta accogliente e confortevole avrebbe potuto esserci spazio anche per la cuccia minuscola di un bastardino da adottare e accudire con amore. L’avrebbe tenuto lontano da Marco e Matteo, beninteso, capaci di far saltare i nervi a chiunque, animali ed esseri umani, con la loro vivacità sempre eccessiva. E poi sarebbe stato bello ogni tanto organizzare una vera festa di compleanno con i suoi compagni di scuola più affezionati. Pochi in realtà. Una bambina silenziosa come lei, vestita come una bambola cresciuta troppo e in fretta, attirava poca simpatia. Con un sospiro chiuse gli occhi e attese che il sonno l’avvolgesse pian piano incrementando le energie per ciò che finalmente l’indomani l’attendeva: scartare con impazienza dissimulata quell’enorme pacco e poi difenderlo a caro prezzo dagli assalti inopportuni dei piccoli di famiglia.

Al momento la cosa importante era che la sua “Casa di bambola”, illuminata dagli sprazzi intermittenti di luminosità tenue e colorata, fosse lì sotto l’albero solo per lei.

A quel pensiero Mina si rasserenò, cullata dal respiro pesante dei suoi fratelli, la casa immersa in un’insolita quiete.

“ Magari potesse essere sempre così “, mormorò a mezza bocca, quasi in un soffio, con un sorriso stemperato dal buio profondo della notte; prima di andar finalmente via, lontano, in un mondo di sogni sospesi nell’attimo fugace delle sue speranze lievi di bambina sensibile.

Lucia Guida *

* “Casa di bambola” in A.A.V.V., Ricordi di giocattoli, Viterbo, 2013

Per info e ordini: fedegnomo@gmail.com

 

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La Bellezza non svanirà

Arriva un momento nella vita in cui siamo costretti a fare i conti con ciò che siamo anche grazie a ciò che abbiamo, sino a quell’istante, fatto. Arrivando a sfrondare, per necessità o virtù, la nostra esistenza di tutti quegli orpelli che l’avevano appesantita impedendoci di volare.

“La Bellezza non svanirà” è un racconto breve scritto da me in occasione della I Notte Bianca del Museo  delle Lettere d’Amore di Torrevecchia Teatina (CH), evento patrocinato dal predetto comune e dalla casa editrice Noubs, celebrata venerdì 25 ottobre 2013 nel Palazzo Ducale dell’omonima cittadina. Narra i pensieri e le riflessioni fugaci di una donna colpita da una malattia invalidante che ne ha drasticamente ridotta l’autonomia. Nella bolla senza tempo che l’ha racchiusa non c’è più posto per il superfluo; resta soltanto la grande ricchezza di vivere una dimensione temporale rinnovata e arricchita di piccoli gesti e immagini. Significativa e altrettanto pregnante perché avvolta da una quotidianità  a poco a poco ri-conquistata a caro prezzo, carpendo con tenacia l’attimo.

Buona lettura

La Bellezza non svanirà

 

To see a World in a grain of sand
And a Heaven in a wild flower
Hold Infinity in the palm of your hand
And Eternity in an hour

Scorgere il mondo intero in un granello di sabbia

E il Paradiso in un fiore selvaggio

Tenere nel palmo della mano l’Infinito

E l’Eternità in un’ora

William Blake, Auguries of Innocence

E’ una bella giornata di primavera, la prima di quest’anno. Azzurro il cielo tra mare all’orizzonte e monti ancora candidi di neve alla mia destra. Una rondine  (pensavo non arrivassero più!) e una cornacchia dal piumaggio nero, lucente si contendono il tetto della casa che ho di fronte. Stamattina mi è sembrato di udire anche il richiamo rauco di un gabbiano e ho ricordato lo scintillio del mare, l’odore del salmastro e la dolcezza sommessa della risacca: io da bambina, secchiello in mano a ricercare tesori, e poi ragazza cresciuta e madre seduta a riva su un telo morbido a vigilare sui miei beni preziosi, i miei figli piccini. Indaffarati a riportarmi pezzi di gioielleria barbarica marina come io un tempo con mia madre: conchiglie, ciottoli, pezzi di vetro trasparente levigati dalle onde.

I giorni dell’ora posseggono, per me, una dolcezza sommessa, discreta e appagante al medesimo istante. Ora so apprezzare grata le volute di calore che si sprigionano pian piano verso l’alto dalla mia tisana ai frutti rossi, poggiata per me da mani invisibili su un tavolo al centro di quest’isola galleggiante di serenità che è il mio attimo fuggente. Nell’attesa che si stemperi un po’ prima che io possa sorseggiarla piano.

Il tempo del mio adesso mi avvolge lentamente prima di lasciarmi al mio destino, per niente indispettito dalla mia arrendevolezza, per dirigersi altrove: alla volta di chi lo farà fruttare diversamente, se lo litigherà, lo rincorrerà, senza avere la possibilità di afferrarne un istante finendo col maledirlo, forse, con astio.

Nel luogo in cui io e la mia mente siamo ora non c’è bisogno di algoritmi cronologici scanditi con rigore e regolarità di cui noi non sentiamo affatto la mancanza.

Ora posso accarezzare con sguardo rapito o distratto la morbidezza sinuosa di un fiore senza che nessuno mi osservi con riprovazione; ricordando la pelle morbida del mio primo e unico amore e il suo profumo discreto di maschia vigoria, unito a quello femminile della mia essenza di donna, compiuti in un abbraccio senza eguali prima, durante e dopo l’amore.

Ci sono frammenti di vita vissuta che non si dimenticano, soprattutto se è il cuore a riportarli a galla, sconfiggendo a tavolino la proterva fallacia di una memoria deplorevolmente inefficace, traditrice.

Ed è sempre il cuore, battito dopo battito, a cancellare pietosamente sofferenze e incomprensioni antiche, trasformando in oro lucente ciò che della nostra umanità si ostina a sopravvivere. Similmente al dorso di una foglia in autunno, già orlata di giallo sfumato nel marrone, eppure così rigogliosa in quelle venature centrali di un verde tenue e ancora caparbio. Un verde che grida a gran voce “Speranza!”, e che agogna a essere ascoltato.

Guardare a particolari minuti di rara bellezza contenuti in una quotidianità dilatata ed evanescente è pretendere, con tutte le forze che mi restano, che un po’ di eternità possa resistere a questa malattia che, passo dopo passo, mi condanna a perdere identità e unicità di persona, allontanandomi dall’affetto di coloro che hanno contato nella mia vita e che per me sono, adesso, simili a sagome indistinte in una nebbia senza fine, senza ritorno.

Serendipità, per me, oggi, è ritrovarmi in una stanza luminosa, seduta nella mia poltrona preferita. Trattenendo ben stretti nel palmo della mano pochi e leggeri granelli di sabbia prima che la brezza incostante di questo tempo, ora di tiepido autunno, domani d’inverno rapace, li liberi e li porti con sé via lontano.

Pensando che la Bellezza non potrà mai svanire. Se solo uno sguardo e il gesto di una mano stanca, ancorati ostinatamente e sorprendentemente alla vita, riusciranno a trattenerne un briciolo infinitesimale, luminoso e prezioso.

Lucia Guida

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photo by Andrea Vaccari

Un dì di festa

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“Chop Suey”, E. Hopper (1929)

La vita di provincia è sempre complessa. Non puoi nasconderti in un anonimato comodo e complice e capita assai spesso che di te si sappia ogni cosa. L’esistenza di ciascuno diventa, quindi, una sorta di telaio in cui qualcuno ha provveduto parzialmente a tessere un ordito senza limitazioni di sorta. Finendo col lasciare più o meno inconsapevolmente troppo spazio ad altri per completarne la trama.

La mia proposta di lettura per voi è, oggi, il racconto breve “Un dì di festa”, parte della mia silloge “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” per i tipi della Nulla Die di Piazza Armerina (EN). La raccolta, in ristampa già dopo il primo mese di vita, è stata pubblicata all’inizio del 2012.

“Un dì di festa” è la storia pacata e molto verosimile di Tina ed Erminia, amiche, in un paese del Sud del secondo dopoguerra alle prese con la celebrazione della festa patronale.

Buona lettura

Un dì di festa*

 

… E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etate

Del mio dolore…

 

G. Leopardi, Alla Luna in Canti

 

 

 

L’essenza della sua giornata era tutta lì, in quella tazzina di caffè forte con poco zucchero, centellinata pian piano nel tinello schermato dalle imposte socchiuse. Avvolta nella vestaglietta di seta a rosolacci rossi e rosa morbidamente annodata in vita, Tina se la gustò sino all’ultimo goccio mescolato a una punta di zucchero rimasto e a pochi granelli di polvere scura sfuggiti al filtro della caffettiera napoletana. Troppo esigui per leggervi il futuro come sua nonna era solita fare. Pensò alla giornata senza di lui che l’attendeva e a tutte le altre giornate a venire simili a questa che si sarebbero inevitabilmente avvicendate. Quella settimana era stata la donna del sabato, ma in passato le era occorso di essere donna del lunedì o di un qualsiasi altro giorno feriale. Raramente festivo. Lui non avrebbe potuto. Aveva moglie e figli con cui celebrare ogni ricorrenza e festa comandata del calendario, a meno che non si trattasse di un urgente viaggio di affari che lo impegnava inderogabilmente dalla domenica sera. Ma capitava molto di rado. Il campanile della piazza principale del paese suonò otto rintocchi e lei si riscosse. Afferrò le due tazzine e le poggiò nell’acquaio in cucina. Poi andò in camera per abbigliarsi per recarsi al lavoro.

— Signora Tina, buongiorno, la salutò con deferenza Matteo il barbiere, in maniche di camicia e sull’uscio in pausa dopo il primo taglio e frizione della giornata.

— Buongiorno, Matteo, gli sorrise lei, la veletta appena abbassata nonostante l’aria calda e ferma già a quell’ora del mattino. E passò avanti, guadagnandosi rapidamente la strada tra le bancarelle del mercatino delle erbe e le ali di venditori estemporanei, senza fermarsi ai loro richiami. Aveva già quello che le bastava, per quel giorno non intendeva comperare nulla. Le imposte della merceria erano già aperte, segnale inequivocabile che Annina era arrivata e aveva aperto il negozio alla solita ora.

— Signora buongiorno.

— Buongiorno Annina … La ragazza continuò a spolverare diligentemente il bancone di legno chiaro su cui erano poste ben in fila scatole e scatoline di trine e gale, insistendo con foga per cancellare le ultime impronte lasciate dal giorno prima. A lei toccava ricevere gli acquirenti, inventariare le merci e ogni sera pulire il negozio. Quel venerdì, però, aveva terminato prima.

Pietro, il suo fidanzato, ora in servizio di leva, aveva avuto una licenza breve per tornare al paese per la festa patronale e lei aveva domandato il permesso alla signora di poterlo andare a prendere alla stazione.

— Pietro sta bene?, s’informò Tina. L’altra sorrise e disse che sì, lui stava bene ed era contento di essere giunto quasi a fine naia.

Tra poco meno di due mesi si sarebbe congedato e in casa da lei avrebbero potuto concretamente parlare di nozze. Già si vedeva, il lungo abito bianco di raso e un velo spropositato che finiva al termine della navata centrale della chiesa madre, al braccio di uno zio materno perché lei era orfana di padre e non aveva fratelli maschi.

Uno scampanellio deciso segnò l’ingresso della prima cliente e Annina storse il naso, riconoscendola. Era la signora Irma, moglie del farmacista. Avrebbe preteso l’impossibile, rivoluzionato il negozio e alla fine se ne sarebbe andata a mani vuote senza comprare niente. Sospirò rassegnata.

— Buongiorno, signora Irma, la accolse Tina ricevendo a mo’ di saluto un cenno del capo appena ingentilito da una smorfia che aveva ben poco di amabile. L’altra la studiò da capo a piedi, notando con estremo disappunto come in lei non vi fosse niente di sbagliato o eccessivo.

— Avrei bisogno di qualcosa per ornare la falda di questo cappellino …, esordì finalmente, esaminando con sguardo critico i barattoli di vetro colmi di fiori artificiali e ordinati nella scaffalatura con gusto impeccabile. Tina fece un segno impercettibile ad Annina, che aveva fatto il gesto di avanzare verso di lei. Ci avrebbe pensato lei a servire la signora e fu quanto fece. Alla ragazza non restò che riavvolgere con cura eccessiva della passamaneria che era stata momentaneamente accantonata in una valigetta di cartone sotto il bancone, sbirciando in contemporanea il via vai dei passanti, richiamati in strada dal bel sole di maggio. Nel frattempo erano entrate altre due clienti, madre e figlia, in cerca di certe applicazioni di pizzo con cui ornare il davantino di un abito. Annina le servì con competenza e gentilezza, compatendo la sua padrona ancora alle prese con quella donna sempre così indecisa. Poi fu un susseguirsi di persone arrivate alla spicciolata una dietro l’altra per gli ultimi acquisti per quel giorno speciale, da tutti pregustato e atteso con gioia. In cui ciascuno dei paesani avrebbe mostrato il meglio di sé rispolverando l’abito buono per lo struscio sul corso o per ascoltare ai piedi del palchetto in piazza la banda di un qualche paese limitrofo giunta appositamente per l’occasione. Oppure passeggiando mollemente per il viale alberato sfilando davanti ai banchetti della fiera pieni di merci di ogni tipo. A ora di pranzo entrambe erano sfinite, ma decisero comunque di riporre con cura ciò che non era stato possibile conservare al momento, prima di serrare definitivamente le imposte. Quel pomeriggio niente vendita. C’era la Madonna in processione attorniata da una miriade di santi e angeli, evento al quale non si poteva mancare. Annina prefigurò brevemente la serata che si sarebbe concessa al braccio del suo Pietro e che sarebbe culminata negli spettacolari e consueti fuochi d’artificio a notte inoltrata a ridosso della campagna. Anche lei si sarebbe pavoneggiata nel suo abitino a giacca color celeste polvere, borsetta e scarpine di capretto bianco. A quella toeletta aveva destinato i risparmi di qualche mese, aiutata da sua madre, abile sarta, col vantaggio di poter acquistare a buon prezzo stoffa e accessori nel negozio in cui lavorava.

— A lunedì, salutò alla fine, dopo aver riposto l’ultimo rotolo di gros-grain nel cassetto, chiedendosi fugacemente come la sua datrice avrebbe trascorso quel breve intermezzo di festa.

Ma fu un attimo solo e la ragazza chiuse dietro di sé la vetrina con lievità, allontanandosi al fianco del suo Pietro, in paziente attesa, una sigaretta dopo l’altra, all’angolo della via. Tina li accompagnò con uno sguardo comprensivo e indulgente, senza la minima ombra di livore. Avevano tutte le carte in regola per essere felici. Erano giovani, ansiosi di vivere e pieni di speranza. Perché la vita non avrebbe dovuto accontentarli?

Di ritorno a casa, si fermò a bussare al portoncino di Erminia, la sua amica più cara. Una delle poche che non l’aveva giudicata per le sue scelte di vita più recenti in quel paesino di provincia in cui tutti amavano a dismisura passare minuziosamente al setaccio la vita altrui sorvolando per contro con troppa leggerezza sulle proprie debolezze.

— Tina, accomodati.

L’altra si affrettò per la scalinata ripida e scomoda che portava al primo piano e a un disimpegno su cui davano tinello, cucina e uno studiolo in cui Erminia preparava le sue lezioni. Era professoressa di lettere e aveva studiato all’università, cosa ragguardevole e degna di nota. Non si era mai sposata. Qualcuno insinuava che fosse rimasta legata al ricordo di un amore di gioventù. Si era tanto parlato di quel fidanzamento in semi clandestinità col medico condotto, osteggiato dalla famiglia di lui. Alla fine il dottorino aveva preferito a lei una ragazza di famiglia facoltosa che aveva assolto con premura e coscienza ai suoi doveri di moglie portando una dote cospicua e dandogli cinque figli. Le due amiche presero accordi per la serata. Si sarebbero incontrate dopo la consueta siesta pomeridiana. Il caldo e le rondini non avevano mancato all’appuntamento annuale caratterizzando con la loro presenza quella ricorrenza che per tutti era celebrazione religiosa e rito propiziatorio per la bella stagione oramai imminente. Tina si alzò dalla poltroncina capitonné e voltandosi le annunciò con noncuranza che lui era ripartito. Quindi si diresse verso le scale, reggendosi fermamente al corrimano di ferro per guadagnare velocemente l’uscita. Erminia non commentò. Qualsiasi cosa avesse aggiunto alla precisazione dell’altra sarebbe stata inutile. Inutile e dannosa, aggiunse. Si accese con mano ferma una sigaretta e ne aspirò avidamente l’aroma. Tina era una delle tante vedove di guerra che delle gioie del matrimonio avevano conosciuto pochissimo. Lui era partito per il fronte due giorni dopo le nozze, celebrate in grande fretta e sobrietà, e non era più tornato. Lei lo aveva atteso a lungo non rassegnandosi a quella fine precoce che l’aveva lasciata sola al mondo. Per un lungo periodo si era trascinata tra le macerie della sua vita, rifiutando una qualsiasi forma di ricostruzione, semplicemente lasciandosi vivere. Sino a quando non era comparso lui, aitante commesso viaggiatore, che non le aveva promesso niente (e del resto come avrebbe potuto?) ma che l’aveva riportata in superficie. A Tina tanto era bastato.

Naturalmente c’era chi aveva pontificato sulla sconvenienza di quell’amicizia ”indecente” e le comari del paese l’avevano senza appello condannata, celando sotto i loro sguardi impassibili giudizi morali irriferibili e severissimi. Ciò nonostante Tina aveva continuato a procedere a fronte alta da combattente nata, schivando tanta palese disapprovazione e commenti ingenerosi con abilità e leggerezza ostentate. Erminia sentì dentro di sé un moto che era insieme amore e odio per quel paese natio così abbarbicato ai pregiudizi da preferire la pura apparenza alla reale sostanza nelle cose. ”Cambierà mai qualcosa?”, si chiese dubbiosa e con un po’ di amarezza, sbriciolando con decisione nel posacenere quello che restava di quella cicca fumata con rabbia e perdendosi in un ricordo lontano.

La musica era piacevole e invitante da ascoltare tra i tavolinetti del caffè di piazza occupati dalla gente che contava. C’erano anche loro a gustare una fetta di cassata rimirando divertite il passeggio variegato che si offriva ai loro occhi. Più di un concittadino ammirava estasiato le luminarie allestite dall’amministrazione comunale nel centro urbano e lungo i viali alberati che portavano alla stazione e ai giardini pubblici. Ogni cosa di quella serata era il riflesso studiato di una grandiosità che aveva dell’incredibile dopo il lungo periodo di guerra e privazioni che li aveva flagellati. C’era un’autentica voglia di rinascita scaramanticamente esibita da quella parvenza di lusso e benessere mostrati quasi con sfrontatezza. Da lontano il farmacista, moglie e prole al seguito, fece loro un cenno di saluto. Tina, ricambiando educatamente, si attardò a considerare l’abito rigoroso di seta dai toni pacati indossato dalla donna a malapena stemperato dalla paglietta con il suo tralcio di glicine pastello, indugiando anche sui due figli, ragazza e ragazzo, palesemente a disagio negli abiti nuovi. Erminia li guardò con indulgenza. I gemelli, entrambi in classe con lei, erano bravi alunni. Tuttavia stette al gioco e continuò a tratteggiare con leggerezza con l’amica un paesano o l’altro suscitando spesso la sua ilarità. La voce le si affievolì in gola soltanto quando vide sopraggiungere da lontano, portati verso di loro da una fiumana vociante e briosa di gente, il suo amore di un tempo, ora marito e padre integerrimo, accompagnato dalla moglie e dai figli. Per qualche istante distolse lo sguardo, sperando che l’incedere sostenuto della folla li portasse lontano da lei, ma invano. Per tutti decise un venditore ambulante di palloncini, cui la famigliola si era rivolta per accontentare i figli minori, fermandosi a pochi passi dal loro tavolino. Impossibile far finta di niente. Per qualche frazione di secondo lei poté scrutare da vicino, ricambiata, quel bimbo, loro ultimogenito, che le sorrideva ignaro, il palloncino rosso legato a un polso, pensando al viso di quel figlio che pure per pochi mesi aveva anch’ella portato in grembo: a come sarebbe stato a quell’età, al colore che avrebbero avuto i suoi occhi, scuri come quelli del piccino che aveva di fronte o forse castani come i suoi. Con struggimento rinnovò quell’antico dolore che l’accompagnava ancora, macerandola senza tregua, e che le aveva impedito di pensare a un amore nuovo e a una nuova vita da far germogliare e sbocciare dentro di sé.

All’improvviso un colpo lontano ristabilì equilibrio facendola trasalire. Era il segnale convenuto di inizio dei fuochi. La moltitudine febbrilmente invertì la propria direzione, come un ordinato sciame di api che con diligenza cerca di seguire la propria regina, puntando velocemente verso quel richiamo e spopolando le vie cittadine, fino a poco prima brulicanti. Lei e Tina indugiarono lì impigrite a sbirciarne dalla piazza soltanto il riflesso variopinto e multicolore nel cielo oramai di velluto scuro, cullate dalla sinfonia di un noto melodramma, brano finale della serata, volenterosamente suonato dai musicisti per i pochi ascoltatori rimasti. Il loro applauso garbato si confuse con il fragore prepotente dei botti e loro si affrettarono con gli ultimi avventori a lasciare i tavolini al lavoro di riordino del cameriere in farfallino con i capelli impomatati di brillantina, ben felice di mettere la parola fine al quel faticosissimo turno di lavoro.

— Ho sempre amato la Tosca, esordì Tina, mentre i lastroni di pietra locale della stradina che le portava verso casa rimbombavano dei loro passi lenti. Erminia le sorrise e si accese l’ultima sigaretta, fumandola con la solita bramosia. Era stato uno strano sabato, pensò. ”E la domenica non sarebbe stata da meno”, aggiunse mentalmente, gettando in terra quello che rimaneva del mozzicone.

— Mi chiedevo, …

— Cosa, volle sapere Erminia.

— Se alla fine valga davvero la pena morire per amore, buttò lì Tina.

Erano giunte al portoncino dell’altra, già pronta a inserire nella toppa la pesante chiave di ferro brunito. Erminia si voltò pensosa, la mano a mezz’aria e la guardò. Sapeva che l’amica aveva sofferto e che la situazione attuale, apparentemente vissuta con nonchalance, era in realtà per lei fonte di profonda insoddisfazione. Scrollò le spalle, sentendosi all’improvviso stanchissima.

— Non saprei, Tina, temporeggiò. Domani passo a prenderti io per la funzione solenne se vuoi, propose poi con un mezzo sorriso. L’amica fece di sì col capo e le augurò piano la buonanotte prima di andar via.

Erminia salì adagio le scale, una rampa dopo l’altra, sino a raggiungere il secondo piano della sua abitazione con le tre stanze da letto vuote e perfettamente in ordine ed entrò nella sua, lasciando spenta la lampada sul comodino. Con antica abitudine tra le fessure delle persiane accostate sbirciò per strada, intravvedendo la sagoma di una coppia di innamorati che si baciavano con foga, protetti da un lampione provvidenzialmente spento prima che altra gente sopraggiunta d’improvviso li mettesse in fuga. Erminia chiuse le imposte e accese finalmente il lume, lasciandosi cadere seduta sul letto e perdendosi nella contemplazione silenziosa di una foto di diversi anni prima, mentre l’odore pregno di aria umida di quell’estate precoce e già così vicina si mescolava al profumo dei gerani rossi in prorompente fioritura sul suo balconcino, avviluppandola. La scuola avrebbe chiuso con i lavori di mietitura e trebbiatura per riaprirsi, come sempre, al profumo intenso del mosto conservato nei tini delle cantine interrate e fresche. Prese un libro di poesie poggiato di lato sul comodino apprestandosi a leggerne qualche pagina. L’avrebbe rasserenata con dolcezza, conciliandola con garbo con quello che del mondo a volte le era difficile accettare.

Tina sedette sul divanetto della toeletta che le rimandò la sua immagine sottile fasciata da una camicia da notte leggera. Sciogliendosi la crocchia dei capelli biondo scuro iniziò a spazzolarli con lentezza, colpo dopo colpo, con andamento ritmico. Un insieme di macchie colorate vistosamente attrasse la sua attenzione. Su una delle due poltroncine ai piedi del grande letto matrimoniale giaceva la vestaglietta della mattina, abbandonata in tutta fretta. Lei si alzò e la mise su una stampella che infilò nel fondo dell’armadio chiudendoselo in fretta alle spalle. Poi si appoggiò pensosa al mobile.

Lunedì mattina avrebbe di sicuro ricevuto la solita chiamata interurbana, avvisata dal fattorino del centralino telefonico. Questa volta, però, sentiva di dover trovare una scusa per non accettarla. Non aveva più voglia di continuare per quella che era diventata una salita impervia. Non traeva più gioia da quella passioncella che l’aveva restituita al mondo ma a un prezzo che adesso le pareva davvero esoso da pagare. Dalla cassapanca tirò fuori il suo copriletto più bello di seta di San Leucio, quello che aveva spiegato sul letto di sposa per la sua prima notte di nozze. Affondandovi il viso ne respirò l’odore di spigo tra cui anni addietro l’aveva riposto. Allora ce l’aveva col mondo intero e con quel Dio impietoso che l’aveva privata del suo piccolo microcosmo senza un apparente perché. Desiderò di lasciarlo l’indomani sventolare dal balcone come più non faceva, secondo un’antica consuetudine delle donne del suo paese, per omaggiare quella Madonna bizantina nera con Bambino in visita per le viuzze del centro tra frotte di fedeli adoranti. Terminando la sua tisana di biancospino si lasciò scivolare tra le lenzuola, scrutando serena l’oscurità familiare che l’avvolgeva da cui avrebbe forse, quella notte, tratto maggiore conforto.

In strada poco lontano un cane abbaiò alla luna piena e luminosissima, accucciato ai piedi del suo padrone, un vecchio contadino che stentando nel prendere sonno scrutava, sulla soglia del suo sottano, il cielo notturno e limpido pensando a quella giornata di lavoro che nessuno avrebbe intrapreso, offerta ”per devozione” a Maria Vergine, perché portasse acqua nei campi e un po’ di prosperità per tutti. E intanto sospirava con rassegnazione e con speranza. Il mondo andava sempre come doveva andare e tutti loro erano poveri cristiani in balia dei suoi capricci, come la terra dei campi soggetta alle tante stravaganze e intemperanze della natura. Ma il grano avrebbe finito con lo spuntare come sempre, lo sapeva. Ed era quella, forse, l’unica cosa che contava davvero.

Lucia Guida

* “Un dì di festa” in  Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

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