Un matrimonio d’inverno

Mercoledì 14 agosto 2013 ho partecipato alla serata di premiazione del II Concorso Nazionale di Narrativa “Il Rovo”, organizzato dall’Associazione Isola Capojale di Cagnano Varano (FG), quale vincitrice del II premio per la sezione racconto breve con il mio lavoro “Un matrimonio d’inverno”. Il valore aggiunto di questo evento artistico-letterario, patrocinato da numerose associazioni culturali locali, era per quest’anno costituito dal forte accento dato alla problematica del femminicidio, contenuto in una sorta di “carta programmatica” parte integrante del bando di concorso stilata da Ottavia Iarocci a nome di tutta la giuria del premio con la finalità di scuotere gli animi  per mantenere altissima l’attenzione di tutti su questa piaga dei nostri tempi. Il tema del concorso era incentrato sulla donna garganica e sulla sua potenzialità di trascendere “(…) spazi e tempi, per assurgere a simbolo di tutte le donne. Di ogni donna.”

Nel mio racconto ho voluto parlare di mia nonna paterna, garganica di nascita, immaginando le sue aspettative, i suoi desideri, i suoi timori la notte prima delle nozze.

Mia nonna Antonietta, Etta per noi nipoti, era una donna semplice ma di grande intelligenza e sensibilità, dal carattere forte e combattivo. Il mio racconto non è un pamphlet per suffragette ma la storia addolcita da ricordi e narrazioni ascoltate da bambina di una donna di paese del sud come tante, legata ai ritmi biologici, alle credenze e al patto sociale stipulato con la sua gente in un’epoca in cui emancipazione era, per molte, anche soltanto poter scegliere di sposare l’uomo di cui eri innamorata.

Buona lettura

Un matrimonio d’inverno

Lina guardava attraverso la pesante porta di legno e sospirava, temendo che i suoi pensieri più cupi potessero realizzarsi. Era una sera di febbraio e la neve continuava a cadere incurante delle sue aspettative e delle sue speranze. Per cucire l’abito da sposa ci aveva speso sere intere attorno al lume a petrolio giacché a casa sua l’elettricità non c’era. Era cosa da ricchi, da signori. Quando le zie le chiedevano di portare a casa di don Matteo Capuano, speziale, le forme di pane fragranti di forno, guardava sempre con stupore la lampada di vetro luminoso così brava a fugare il torpore invernale di giorni che, invece, a lei sembravano non finire mai. Immaginando, con quell’aiuto, di far fruttare il poco tempo serale a disposizione da dedicare alla “robba”, al suo corredo, rubandolo al languore che in casa sua d’inverno scendeva troppo presto, dopo ore ritmate dalla fatica sin dall’alba.

Essere fornai era ricchezza e disperazione assieme.

Una fortuna d’inverno potersi scaldare al fuoco sempre acceso pensando nel contempo a quell’arte gravosa ma fruttuosa, fonte della loro sussistenza, che spesso la costringeva a levate antelucane quando le zie, oberate dalla fatica, erano costrette a chiederle di abbandonare il letto per un po’ d’aiuto extra.

E di notti lunghe e di giornate affannose dai cieli grigi e uniformi, ce n’erano state tante, ultimamente. Per il suo sposalizio le zie non avevano lesinato, empiendo cesti di tarallucci, pastaredde e prupate profumati alla cannella e ai chiodi di garofano. Zia Nunzia era stata categorica: avrebbe dovuto valere per la festa che alla promessa, lu revèle, non c’era stata e per le nozze che sarebbero state celebrate secondo le usanze paesane l’indomani, giovedì 14 febbraio. Lina guardò con occhi lucidi lo spazio familiare che l’aveva accolta da piccola ora disseminato di ogni ben di Dio, i fiaschi di vino rosso e le più raffinate bottiglie di rosolio ammucchiati ai lati dell’ampio camino. Tutto era pronto, architettato alla perfezione da quelle brave paraninfe di Michelina e Nunzia. L’indomani in Chiesa Madre all’altare sarebbero salite in tre: lei e le sue zie, a coronamento di una sorte matrimoniale che per loro a suo tempo e per vari motivi non si era compiuta.

Pensò preoccupata alle scarpine di pelle nera con cui avrebbe il giorno appresso sfidato gli eccessi di quell’inverno rigido di montagna, sfilando nel corteo nuziale al braccio di uno zio paterno tra cumuli di neve e lastre sottili e infide di ghiaccio. Le venne da pensare a sé come a un ciuffo di primule appena spuntate nella Defensa a sfidare il gelo in un trionfo di broccato colorato a celebrazione della sua gioventù e dei suoi desideri migliori. A un fischio noto trasalì e corse di là, nello stanzone che era la loro camera da letto, l’enorme ferriata delle zie e il suo lettino, una madia scura con colonnine a torchon sormontata da un lume di porcellana antico, una campana di vetro con la Madonna Addolorata, santini e foto sbiadite dei morti di famiglia rischiarati da un lumino. Era certamente il suo promesso e non era il caso che la vedesse prima del tempo. Le zie accorsero al segnale e consegnarono allo sposo e al compare d’anello la loro parte di banchetto nuziale perché fosse portata a casa dei futuri suoceri, più ampia della loro, serrando di scatto le imposte ma non abbastanza da non permetterle di scorgere gli occhi chiari di Angelo, i capelli biondi spolverizzati di fiocchi minuti, le guance arrossate dal freddo e da pensieri facilmente intuibili. Abbassò gli occhi ritraendosi. Poi, insieme alle zie, cominciò a recitare il Rosario come ogni sera, pregando per il suo bel sogno d’amore, principiato al pellegrinaggio al santuario di S. Maria di Stignano durante una maggiolata propizia. L’aveva incontrato lì, bello e aitante d’aspetto, appena congedato dal servizio di leva obbligatorio. Si erano piaciuti a prima vista, lei capelli e occhi scuri e pelle di latte e lui così nordico per quelle latitudini. Nemmeno l’anno in più di Lina aveva fatto la differenza. Angelo aveva preso a corteggiarla con discrezione, passando varie volte per la strada in cui lei abitava e gettandole occhiate ardite, da lei ricambiate con piacere. Lina aveva interrogato il destino la notte di San Giovanni e l’albume d’uovo coagulato nell’acqua si era definito in una pala, strumento evidente del lavoro di cantoniere del suo spasimante. Fino a quando zì Nicola, in qualità di ambasciatore, aveva chiesto di conferire con lo zio Pietro. L’incontro, però, non era stato dei più felici; suo zio non era convinto che Angelo, di famiglia di contadini, potesse andar bene per lei, nipote di fornai. C’era voluta tutta la risolutezza benevola delle zie, cui Lina si era confidata, per convincerlo che il salario del giovane sarebbe stato una degna aggiunta ai proventi dell’arte bianca di tradizione familiare. Alla fine lo zio aveva ceduto e Angelo si era visto recapitare il tanto agognato mazzolino di fiori, segno di approvazione della famiglia di lei alla sua corte rispettosa.

Lina finì di sbirciare la nevicata sottile che aveva ricoperto e ingentilito le irregolarità della scalinata davanti alla sua casetta.  Il cielo era ovattato e chiuso in un biancore incerto che la fece sospirare ancora ma stavolta non la scoraggiò.

Si strinse al petto un fazzoletto ricamato pegno del suo amore, certa che uno identico l’avrebbe sfoggiato Angelo nel taschino del suo “abete nove”. Poi Nunzia e Michelina le augurarono la buona notte ciascuna con un bacio.

Tra due giorni la loro amata nipote avrebbe compiuto vent’anni di vita come donna maritata. “Cu la grazia di Dije”, certamente.

Tra le viuzze silenti del paesino abbarbicato con fiduciosa tenacia a rocce benevole senza tempo correva, imperturbabile e sereno, l’anno 1924.

Lucia Guida

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la foto è tratta dal bellissimo blog Amara Terra Mia , celebrazione in web di “Storia, tradizioni e Natura in web del Gargano”

La Cumparsita

“Primavera Letteraria” è il titolo di un’antologia di trenta racconti selezionali dalla II edizione del Concorso Letterario “Scrivendo volo-Buk Modena”, sponsorizzato da Il Violino, gruppo Historica, nell’ambito dell’omonima fiera editoriale tenutasi nelle giornate del 23 e 24 marzo 2013. La raccolta comprende racconti brevi di autori esordienti ed emergenti che spaziano da tematiche forti come l’eutanasia, la violenza sui minori a storie di vita quotidiana, avventure d’amore e fiabe.

“La Cumparsita” è il mio personale contributo ed è la storia di Mario, pensionato, e della celebrazione che questi fa del compleanno di sua moglie Marisa. Con un finale decisamente a sorpresa e per certi versi catartico e  per lui riscattatorio.

Buona lettura

La Cumparsita *

Per gli altri sarebbe stata, forse, una giornata come tante. Per lui era il 20 di aprile ed era il giorno del compleanno di Marisa, sua moglie, che ora non c’era più.

Mario se lo ripeté con pacatezza, sorseggiando lentamente il suo caffè addolcito da una zolletta di zucchero ascoltando i primi gorgheggi di Bel Ami. Alle sue spalle una lama sottile di sole piombò in cucina dalla portafinestra del ballatoio, spartano ma ingentilito da piante in abbondante fioritura.

La zolletta di zucchero era un piacere che di rado si concedeva, soprattutto adesso che il contrappasso da subire erano i vivaci rabbuffi del suo dottore, preoccupato che da quella sovrabbondanza di dolcezza il suo stato di salute potesse patirne. Ma cosa poteva farci se a lui l’aspartame contenuto in asettiche bustine blu non piaceva? I primi granelli sciolti in bocca gli riportavano immancabilmente alla mente la polvere di borotalco con cui sua madre sin da bambino si incaponiva ad aspergerlo: finissima, impalpabile. Pronta, tuttavia, a lasciare tracce evidenti di se stessa nei posti più disparati e quando meno te l’aspettavi: sul bavero della giacchetta, ad esempio. Diventando spunto utilissimo per gli sfottò a metà tra il bonario e il sarcastico dei suoi compagni di classe, quando giovanotto, ai tempi della scuola, capelli rigorosamente impomatati e riga a sinistra, percorreva veloce, libri sottobraccio, i corridoi lucidissimi del liceo ginnasio del suo paese nei suoi abiti migliori di studente.

Il trillo del citofono lo fece d’improvviso sussultare; consultando l’orologio sulla parete di fronte seppe con certezza che era il postino nel suo giro quotidiano di consegna e decise di non aprire. Ammucchiate sulla console di marmo dell’ingresso c’erano tre fatture. Quando il giorno prima   ne aveva aperta una, quella della  fornitura del gas metano, gli era venuto un colpo: quattrocento euro erano davvero tanti e avrebbero pesato in modo considerevole sul suo magro budget. Avendone avuta contezza si era quasi sentito male e non era riuscito a darsi il coraggio necessario per aprire le successive due, quelle dell’elettricità e della nettezza urbana, altrettanto certo di non riuscire a farvi fronte.  Sollevando lo sguardo verso la cornice di legno chiaro dalle volute dorate aveva incrociato lo sguardo sorridente  e rassicurante di sua moglie. Con un sospiro impercettibile era tornato al tempo in cui lei c’era ancora; ai miracoli che sapeva fare, infilando senza sosta un tassello dopo l’altro nel mosaico della loro esistenza per comporlo con affidabilità e lievità. In quel frangente lei avrebbe certamente saputo come rimediare. Possedeva un’abilità particolare nell’amministrare le loro sostanze con amorevole accortezza ed efficienza, privandolo senza indugio della noia e della fatica mentale di occuparsene.

Bel Ami decise di lanciarsi in uno dei suoi assolo interminabili distogliendolo da quelle riflessioni cupe. Mario si era sempre stupito della capacità di quel canarino minuscolo, pochi grammi di piume, di tenere la scena con la possanza del suo canto, vigoroso al punto tale da fargli vibrare con persistenza i timpani. Eppure non doveva essere facile zampettare e svolazzare in una minuscola gabbietta; a volte lui, impietosito, provava ad aprirne lo sportellino, bene accorto che l’altro dal tinello non scappasse via lontano. Ma era comunque una sofferenza vederlo sbattere con le ali contro muri e arredi, impazzito di gioia e privo dell’antico senso di orientamento, sino a quando giocoforza non riusciva a convincerlo, un po’ con le buone e un po’ con le cattive, a rientrare nella sua prigione domestica.

In camera si levò la giacca del pigiama celestino di flanella e la poggiò con estrema cura sulla spalliera di una sedia dal fondo intrecciato, vestendosi con abiti puliti per la sua consueta passeggiata di metà mattinata,  terminando la sua toeletta con appena un’ombra di dopobarba. A Marisa  sarebbe piaciuto vederlo così. Gli era venuta un’idea per trascorrere quella giornata in odore di malinconia. Serrando con cura l’uscio sulle ultime note del suo beniamino, adeguatamente rifornito di becchime e acqua fresca per la colazione, piombò nella silenziosità di quel condominio di semicentro, deserto a quell’ora del mattino, aspettando con pazienza che l’ascensore lo raggiungesse al piano per portarlo nell’androne buio dal vago sentore  stagnante di umidità. All’aperto la primavera lo accolse stordendolo con la luminosità di un cielo azzurro privo di nuvole con probabilità spazzate via dallo stesso vento che si divertiva a sollevare qualsiasi minuzia trovasse in terra, giocherellando anche tra i suoi radi capelli bianchi. Con abilità consumata schivò umanità dopo umanità mantenendosi al limitare degli edifici. Oramai la fretta non faceva più parte della sua quotidianità, poteva permettersi il lusso di una camminata morbida, distesa. Gli venne da pensare a tutte quelle persone che si affannavano incrociandosi per strada senza sfiorarsi con lo sguardo; alle mille cose che segnavano le loro vite, impoverendole o arricchendole. A quella molla fatta di determinazione, di caparbietà, ma forse anche di amore ( per se stessi, per un’altra persona, per la vita stessa) che li spingeva con forza in avanti scandendo le loro giornate, colorandole o semplicemente riempiendole di piccoli gesti  che dessero un po’ di senso al loro incedere.

C’era stato un tempo in cui anche lui era stato della partita. Del lavoro aveva fatto la sua realizzazione personale, l’altare su cui immolare il meglio di se stesso come uomo, grazie anche alla profonda disponibilità di sua moglie che aveva capito e, con ammirevole devozione, si era tirata un passo indietro. Dedicandosi ai poveri della parrocchia, a un paio di nipoti acquisiti, alle sue piante di geranio, pronte a ogni primavera a rifiorire con gratitudine negli ampi vasi di coccio in fila come soldati sul balcone della cucina.

Non avevano avuto figlioli ma lui di questo non si era particolarmente dispiaciuto. La loro vita gli sembrava compiutamente  a posto, non avvertiva la mancanza di un terzo incomodo che potesse rubargli le attenzioni di quella donna bellissima e dolce che era sua moglie. Si erano conosciuti in una serata estiva allietata da una festa di piazza mezzo secolo fa. Lui era appena arrivato in città e aveva preso il posto in un ufficio della pubblica amministrazione, lei stava finendo di studiare da maestra. Tempo sei mesi ed erano diventati marito e moglie con la benedizione di entrambe le famiglie. Marisa era riuscita a diplomarsi dedicando buona parte delle sue serate domestiche allo studio mentre lui trafficava con la televisione, comprata a rate con i proventi dei primi straordinari. Quel pezzo di carta conseguito da sua moglie con estrema diligenza e determinazione, era finito nel fondo di un cassetto del comò senza che lei pensasse di farne un uso reale. Si erano amati per una vita intera con una dedizione totale che lui nelle coppie di oggi non riusciva a scorgere. Una vita  trascorsa in un soffio, quasi un battito d’ali, di cui aveva scoperto la preziosità nel momento in cui lei, con la discrezione di sempre, una mattina d’autunno di un paio di anni or sono se n’era andata. Quando lui se n’era accorto non aveva voluto crederci; lasciarlo così, in silenzio, senza una  parola di commiato. Si era sentito tradito e aveva aspettato attonito che le ore passassero lente sino a sera inoltrata; poi aveva raccolto le ultime forze residue e chiamato una vicina chiedendole di aiutarlo in quello che da solo non aveva proprio cuore di fare: vestirla per quell’ultimo viaggio con uno dei suoi chemisier fiorati così poco intonati all’atmosfera novembrina di quella giornata.

Il centro commerciale, meta di tante sue peregrinazioni, era quasi in dirittura d’arrivo. Ci andava piuttosto spesso, accolto dalla musica di sottofondo inframmezzata dai tanti annunci pubblicitari, le signorine delle promozioni, le vetrine seduttivamente illuminate e la grande e monumentale fontana a cascata, circondata da piante tropicali così verdeggianti da sembrare quasi vere. A volte si contentava di un giretto tra il pianterreno e il secondo piano, pavoneggiandosi sulla scala mobile ben impettito, quasi ad avere il controllo di quel mondo fantasmagorico in cui potersi perdere per qualche ora, guardando dall’alto in basso quella variegata moltitudine, simile a formiche operaie obbedientemente in marcia verso una meta prefissata con rigorosità da un capo invisibile. In altri momenti decideva di fare visita al supermercato a caccia di offerte promozionali, riposando poi col bottino su una sedia di plastica del bar caffetteria a ridosso dell’uscita, scrutando i volti dei nuovi arrivati e di coloro che, ultimato il giro degli acquisti, con meno leggerezza si apprestavano a fare ritorno a casa. Constatando assai spesso come la sovrabbondanza di alcuni carrelli fosse inversamente proporzionale all’entusiasmo e alla felicità dei loro proprietari.

E intanto fantasticava di storie di cristiani di cui raccontare  mentalmente alla sua Marisa, immaginando di commentare con lei bonariamente ciò che in passato aveva costituito per loro sommo divertimento.

Quel giorno, tuttavia, indugiare nel loro passatempo preferito non gli dava la soddisfazione solita. Pensare al compleanno della sua amata, non più accanto a lui, e a quelle maledette fatture destinate e ricoprirsi di un velo impalpabile di polvere gli dava un tormento indicibile.

Con un gesto di stizza che lasciò interdetta la giovane promoter che l’aveva avvicinato disdegnò l’assaggio di torta che questa gli proponeva, continuando a vagare da uno scaffale all’altro senza una parola neanche a se stesso; alla ricerca di qualcosa d’indefinibile che non riusciva ad inquadrare, reggendo in mano la sportina vuota che quella volta non gli riusciva proprio di riempire con qualcosa. Poi d’improvviso fu colpito da un pensiero bizzarro, risollevandosi.

Il detective dell’ipermercato, spalle da giocatore di rugby insofferente sotto il vestito scuro di ordinanza,  traccheggiava con noncuranza con la signorina del caffè in offerta speciale.  Quelle schermaglie amorose tra una degustazione e l’altra erano l’unico modo possibile per tirare in modo accettabile quella giornata soporifera, senza mordente. Diviso tra il generoso decolté della ragazza e la  porta d’ingresso principale,  degnò appena di uno sguardo quel pensionato in cravatta demodé e giubbino scolorito tirato sino al mento, sagomato addosso in modo davvero singolare. L’uomo li oltrepassò e rispose con un brusco cenno di testa al saluto della promoter, il volto ostinatamente rivolto davanti a sé, puntando con troppa  sicurezza l’uscita senza acquisti a poca distanza da loro. L’annuncio del megaconcorso in atto – primo premio una lussuosa autovettura ibrida! – dissimulò malamente il sibilo del dispositivo antitaccheggio, mentre la filodiffusione iniziava a diffondere una vecchia melodia a ritmo di tango. Il vigilante ricordò che la Cumparsita  era stato cavallo di battaglia dei suoi nonni in innumerevoli estati trascorse in balera sulla riviera. Trasalendo al peso di quel ricordo che era riuscito a strappargli un’ombra di sorriso, abbandonò di colpo la sua compagna per seguire l’anziano, dribblando a fatica una famigliola di turisti stranieri al completo e il loro carrello stracolmo di cibo che gli avevano  d’improvviso sbarrato il passo.

Accecato dal fiotto di luce intensa ricevuta  bruscamente in volto all’apertura delle porte scorrevoli, Mario attraversò il parcheggio semideserto cercando col cuore in gola un’oasi cui porre riparo col sudore che gli imperlava il viso contratto dalla fatica di farcela a tutti i costi.

All’ombra di un’acacia in piena fioritura si sbottonò con fatica la giacca, traendo sollievo dal fiotto benevolo di aria fresca e profumata. Con una smorfia soddisfatta contemplò  il suo bottino, una bottiglia di ratafìa e una scatola di ricciarelli, sicuro che Marisa avrebbe incondizionatamente approvato la sua scelta.

Assaggiandone uno lasciò con voluttà che gli si sciogliesse in bocca, gustandone pian piano il sapore delicato. A occhi chiusi avvertiva la stessa fragranza lieve aleggiante nella loro camera da sposi il giorno delle nozze: un lieve e beneaugurante sentore di vaniglia e di cose buone, pulite.  All’epoca lui e Marisa avevano percepito il mondo intero nel palmo di una mano sola che, tanto per scaramanzia, non avevano stretta a pugno; si auguravano che la vita sarebbe stata con loro indulgente, lo speravano di cuore. E per certi versi era stato così, il destino li aveva fatti incontrare e aveva permesso che condividessero con amore, affetto, rispetto una fetta considerevole di cammino insieme. A molti non era capitato, convenne, poteva ritenersi ampiamente soddisfatto. Spingendo da parte la bottiglia di ratafìa, troppo stanco per provare a stapparla per un brindisi, si rilassò sulla panchina di ferro levigata dai tanti avventori di passaggio, poggiando la nuca sulla sommità della spalliera. Se in quello spicchio di cielo poteva ancora scorgere le rondini sfrecciare puntualissime all’appuntamento di stagione, malgrado quell’aria grigioazzurra cittadina e dolente, c’era ancora  speranza per sé e per tutti pensò, finalmente rasserenato e in pace con il mondo intero.

Il vigilante, occhiali da sole ben inforcati, focalizzò con sveltezza professionale l’immagine lontana dell’uomo, appena un puntolino seduto su quell’accenno di collina, pochi alberi ad ombreggiarla come retaggio lontano del giardino pubblico che un tempo era stato. Era sua intenzione raggiungerlo di soppiatto per contestargli l’accaduto e chiedergli di seguirlo. In tono soffocato l’altoparlante esterno riprodusse gli ultimi brandelli della Cumparsita   mescolati a voci umane e a rumori di automobili in movimento, pigra routine sonora di  un giovedì pomeriggio di primavera avanzata.

Un solo attimo per ghermire con piglio deciso e mascolino la spalla magra di Mario e un attimo ancora per riceverne, con stupore, sul dorso la testa coperta di capelli immacolati, sottili e radi, reclinata con garbo. In paziente, pacata resa.

Alla sua destra l’ombra vaga di una donna eterea, capelli biondi al vento e sguardo luminoso all’orizzonte lo degnò appena di uno sguardo. Poi, quasi con sfida, si protese verso il suo sposo e, prendendolo per mano con grazia decisa e irridente, lo portò via con sé, lontano.

Lucia Guida

* “La Cumparsita” in A.A.V.V., Primavera Letteraria, Roma, Il Violino Edizioni, 2013

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Vita da prof

Ho scritto assai di rado racconti incentrati sulla mia categoria lavorativa, quella degli insegnanti. Probabilmente perché un processo creativo narrativo è anche, per certi versi, fuga dalla quotidianità più spicciola.

“Sinfonia d’autunno” è la storia di una prof che sta per congedarsi dai suoi alunni e dalla scuola in cui ha insegnato a lungo per intraprendere volontariamente un’esperienza lavorativa all’estero, in Irlanda. Il viaggio e il momento del distacco, nuclei tematici alla base di questo testo, diventano pretesto per sottolineare come dai rapporti interpersonali non si riesca mai a  sfuggire del tutto. E come in ogni desiderio di cambiamento e/o in ogni partenza sia contenuto in nuce il desiderio inconscio di fare ritorno, rappresentato dalla sottile malinconia di abbandonare cose e situazioni note.

Sinfonia d’ Autunno

Ottobre,  pensò con un impercettibile sospiro, annusando voluttuosamente l’aria che si offriva senza remore al suo olfatto affinato, serrando al mento il bavero dell’impermeabile. Ai suoi occhi si offrivano  le mille screziature cinerine di quel cielo autunnale in cui nuvole sfilacciate si rincorrevano facendo pendant coi mulinelli di foglie di platano accartocciate brunite, lì per il viale che portava alla scuola in cui insegnava. Un venticello beffardo la spettinò impietosamente  giocando a moscacieca ma lei non se ne curò. Si sentiva pienamente a proprio agio in quella giornata figlia del tempo e della stagione cui apparteneva.

Era in orario perfetto.  Poteva, quindi, permettersi di indugiare per la strada camminando a passo lento sotto il peso della borsa di tela a spalla che conteneva i ferri del mestiere: testi scolastici, un’agenda fiorata che la aiutava a ricordare con lievità maggiore i suoi appuntamenti lavorativi, un paio di pacchi di compiti dei suoi alunni diligentemente corretti, pronti per essere consegnati loro prima della sua partenza, prevista per quel fine settimana.

Nell’atrio dell’istituto la solita operosità di ogni mattina a inizio  giornata:  i ragazzi del prescuola appollaiati sui gradini della scalinata che conduceva al piano superiore, collaboratori affaccendati nel sistemare le ultime cose prima dell’incipit quotidiano, alcuni colleghi in ordine sparso tra la fotocopiatrice, il tavolinetto col registro degli avvisi, la sala docenti. Salutò tutti col timbro chiaro di sempre, attardandosi in uno scambio di battute con l’uno o con l’altra, pronta anch’essa per lo start. All’esterno, al di là della vetrata che dava sul cortile d’ingresso, ora brulicante a dismisura, pareva quasi che stesse per finire il mondo e aveva anche cominciato a piovere con decisione. Si chiese come sarebbe stato avere pioggia a colazione, pranzo e cena in quella piccola università a sud dell’ Irlanda in cui aveva deciso di continuare a insegnare l’Italiano; e se tutto il verde sconfinato di cui avesse potuto godere, l’avrebbe compensata della calura del sole e dei lunghi pomeriggi passati al mare a impigrire su una sdraio azzurra, attendendo che si facesse poco a poco sera.

Il trillo persistente e leggermente fastidioso segnò inequivocabilmente lo scoccare della prima ora di lezione. Con pazienza si trasse da parte, le braccia strette al petto, in un angolo non lontano dalla rampa che portava al primo piano, aspettando con calma che la fiumana di ragazzi vocianti la oltrepassasse smistandosi ordinatamente per le aule disseminate lungo  il corridoio.

Sul pavimento a poca distanza da lei, una foglia riuscita incredibilmente a sopravvivere al passo frettoloso di adulti e adolescenti, caracollò ai suoi piedi. D’istinto la raccolse per evitarle una fine peggiore, tenendola con delicatezza per il picciolo. C’era ancora qualche sfumatura dell’originario verde che l’aveva contraddistinta per almeno un paio di stagioni. Almeno sino a quando lo stesso vento che aveva giocherellato sbarazzino con la sua sagoma frastagliata nella bella stagione non aveva deciso di  aveva strapparla con rudezza inaspettata al ramo che l’aveva nutrita, sospingendola lontano da esso. Prima di trovare pace, miracolosamente intatta in tutta la sua perfezione, nello scrigno delle sue mani.

Si riscosse e si affrettò a raggiungere la classe, una terza, in cui per quel giorno aveva programmato quello che soltanto un paio di decenni prima i suoi insegnanti avrebbero definito tema e che in una sorta di balletto innovativo era diventato con nuova e pomposa terminologia verifica del lavoro svolto insieme ai suoi studenti. Ignorando la tecnologica linearità della LIM, si diresse verso la lavagna di ardesia che la fiancheggiava e, brandendo con dolcezza un pezzo di gesso bianco e tondeggiante, vergò sinuosamente le tre tracce che aveva scelto di proporre ai suoi alunni, mentre questi con insolita calma prendevano posto e si predisponevano a svolgerne una,  vocabolario e foglio protocollo alla mano, all’apparenza stregati dalla sua risolutezza o forse ancora sotto l’ effetto di un brusco risveglio mattiniero.

Girovagando tra i banchi si assicurò che tutto procedesse nel modo migliore, annotando mentalmente le assenze prima di trascriverle sul registro di classe. Poi assunse la sua postazione preferita: sguardo ai suoi ragazzi, in piedi e di spalle a una delle tre ampie finestre che davano luce all’aula, consentendo finalmente ai suoi pensieri di fluire altrove convogliandosi più o meno compostamente sulle ultime incombenze che avrebbero preceduto la sua partenza. Alla casa di cui avrebbe serrato con delicatezza le imposte, affidando la cura dei suoi gerani zonali a una vicina fidata, che ne avrebbe monitorato silenziosamente il letargo invernale e poi il tripudio che sempre seguiva alle prime avvisaglie primaverili trasformando il suo terrazzo in un’esplosione di rosso carminio e di verde intenso appena screziato di grigio. Ai due trolley aperti e riempiti a metà sul divano dello studiolo cercando di prevedere ciò che avrebbe potuto rivelarsi utile a una latitudine così dissimile da quella che sino ad allora era stata centro della sua esistenza. Alla cena di arrivederci che alcuni  amici avevano preteso di organizzare quella sera per lei. L’ avrebbero festeggiata intonando canzoni in rima e Paolo avrebbe sicuramente dato seguito alla sua vena artistica declamando poesie estemporanee che parlavano di addii e di ritorni certi. Perché lei sarebbe di sicuro tornata alla fine di quella che non era fuga da un presente incastonato in una routine rassicurante ma forse troppo scontata,  ma piuttosto voglia di fare e di reinventarsi con la consapevolezza di appartenere comunque a un luogo ben delineato fatto di terra, aria, acqua e fuoco. La città in cui era vissuta per più di un ventennio, che l’aveva adottata all’indomani di un matrimonio che non aveva avuto fortuna e in cui aveva  tuttavia deciso di continuare a vivere, sposandone il clima burbero determinato dal fiume e dal mare in eterna simbiosi e dall’Appennino lontano ma non abbastanza per non imporre la propria presenza massiccia a cose e persone.

Sbirciando con discrezione l’ orologio da polso constatò sorpresa che le due ore erano quasi al termine. Raccomandò alla classe di affrettarsi a consegnare e altrettanto febbrilmente cercò di fare mente locale a quanto nell’ora libera successiva avrebbe prospettato alla supplente che avrebbe preso le sue classi. Con scrupolosità aveva riempito facciate e facciate di annotazioni sui suoi ragazzi, parlando dei loro punti di forza e della debolezza di adolescenti in crescita, in cammino lungo sentieri spesso privi di indicazioni chiare. Figli di genitori  che sovente si dimostravano frettolosi passeggeri di treni in corsa lungo tragitti fatti di poche fermate, abituati a comunicare con estrema sommarietà piuttosto che provare a creare tassello dopo tassello  relazioni affettive efficaci che non rischiassero di sbriciolarsi come foglie d’ autunno sotto la camminata di passanti noncurante. Pensò ai tanti Daria, Michele, Blerina, Francesco armati di zainetti semivuoti, vestiti talvolta in modo troppo leggero per le intemperie che avrebbero affrontato. Alle loro vulnerabilità sempre pronte a riaffiorare in sorrisi che stentavano a comparire o che, viceversa, lo facevano in eccesso; ai tanti non detti per timore di parlare troppo, ai sentimenti tenuti troppo a freno per paura di soffrire, mentre ne raccoglieva i compiti che avrebbe di lì a poco corretto cercando di zigzagare, quel pomeriggio a casa, tra slang e formule espressive immediate e improvvisate, per riportare alla superficie quelle briciole di cuore dissimulate che pure c’erano e gridavano silenziosamente di essere riconosciute come tali. Pensò anche all’ “ A presto “ che avrebbe loro tra qualche giorno indirizzato: breve e intenso come solo le promesse concrete sanno essere. Un filo lanciato in avanti in attesa di essere con forza riannodato, augurandosi che le sue ragioni fossero da loro comprese e accettate e non vissute, viceversa, come frettoloso abbandono.

Con sveltezza prese le sue cose per andar via  avvolgendo tutti con lo sguardo in un abbraccio collettivo sfumato in un impercettibile attimo di incertezza, celato da un respiro profondo. Sulla cattedra la foglia autunnale col suo barlume di vitalità appena spolverizzata di polvere bianca rimase appoggiata sul registro dalla copertina blu in cui molto ancora delle giovani vite che racchiudeva sarebbe stato annotato e narrato. Con speranza e con  grinta rabbiosa infinite. Mai con rassegnazione.

L. Guida

photo by Medea

Carillon

La maternità è una delle esperienze esistenziali  più complesse offerte a una donna ed è mia ferma convinzione che spetti alla donna in primis scegliere come gestirla. Decidendo della propria e altrui vita con libertà assoluta e parimenti con  estrema consapevolezza.

Il racconto di oggi, intitolato Carillon, si colloca “nel mezzo del cammino”, dando voce alle riflessioni di una donna che aspetta un figlio che non ha scelto di avere. Nella narrazione del fotogramma infinitesimale di una giornata come tante c’è posto per i ricordi passati della protagonista, per un brivido breve ma intenso del suo presente ma non per una conclusione netta, definita.

Sarà responsabilità del lettore dargliene una. Ricordando, tuttavia, che non c’è ferita o gioia al mondo che per ciascuno di noi non si ripercuota per una sola e unica stagione.

 

 

Carillon

La donna tirò lieve la cordicella del carillon e musica odorosa di borotalco e di piume leggere si diffuse nella penombra della camera da letto, rischiarata da un abat-jour dal cappello ampio e chiaro. L’illuminazione soffusa e tenue attutiva percettibilmente i pensieri, tanti e grevi, che le frullavano per la testa da un po’ di giorni. Da quando quel referto di laboratorio le aveva dimostrato inconfutabilmente come la vita conserva sempre una certa tendenza a riaffermare il proprio diritto a sovrastare la storia personale di ciascun essere umano, optando talvolta per  il momento meno opportuno per farlo, incurante di ritmi o equilibri preesistenti ed imponendo scelte.

Ed eccola lì, seduta sul bordo del letto accuratamente rifatto, a interrogarsi sul da farsi. L’unica nota dissonante quella musica per neonati rassicurante e morbida come il topolino di stoffa che la conteneva, vestito in toni pastello, che invitava ad una pacatezza che a lei in quel momento sfuggiva, che non sapeva fare propria.

Quarant’anni, un lavoro di tutto rispetto, una casa di proprietà, begli amici, un amico del cuore. E un figlio in arrivo. Inaspettato, non preventivato e tuttavia in viaggio già da un po’.

Giunto quando oramai lei non se l’aspettava più, rassegnata felicemente ad un avvenire di singletudine conclamata impostole dalle circostanze  e che lei aveva comunque accettato e fatto proprio.

Qualcuno l’avrebbe potuto considerare un segno del destino, un orologio biologico che le ricordava come tutto avesse una fine oltre che un inizio. Un barlume di eternità che le si era paventato a un certo punto del suo cammino esistenziale e a cui oggi, forse, non riusciva  a dare il dovuto risalto.

C’erano stati tempi in cui lei aveva sognato di diventare madre come giusta conclusione di cicli che si compivano. Erano quelli gli anni in cui credeva all’amore di una vita, quello che ti dà la forza di rivoluzionare il tuo mondo adeguandolo in parte  alle esigenze di terzi. Un amore bagnato di eternità, fatto di tranquilla quotidianità, di passione che potrebbe mutarsi in stabile e duraturo affetto. Di anniversari da rispettare e onorare, di spese al supermercato insieme e di cenette elaborate nella piena considerazione dei gusti di un altrui maschile.

Ma quell’epoca era inevitabilmente terminata e sfumata in un addio maturato in maniera graduale  annunciato da piccoli e impercettibili segnali, chiarissimi all’esterno,  che pure a lei erano sfuggiti.  E quando la quotidianità fatta di tenerezza si era tramutata in abitudine priva di rinnovamento ed entusiasmo, lei aveva detto “basta” anche per lui che, grato, l’aveva salutata con la promessa di farsi risentire a scadenze fisse. Da amico affettuoso che continua a volerti bene ma in modo differente. Riservando probabilmente, lei lo sentiva, un’attenzione privilegiata ed esclusiva ad altre. Tanto era servito a farla svoltare senza guardarsi indietro e a dedicare tutte le sue energie ad affermarsi professionalmente, accettando di popolare amichevolmente il suo tempo libero e di scegliersi un amico con cui condividere i suoi momenti di privacy e di relax.

Sorrise al pensiero di annunciare all’uomo che riempiva il suo presente di essere incinta di lui. Impensabile, improponibile. Paradossalmente assurdo.  Come si fa a comunicare a un eterno peter pan che non avrà più tempo da dedicare ai suoi passatempi preferiti perché molto verosimilmente potrebbe trascorrere ore ed ore accudendo un neonato bisognoso di cure infinite? Privato in aggiunta dell’infinita libertà di cui ha sempre goduto? A una persona che si è sempre posta al centro dell’universo vivendo senza vincoli né costrizioni, cominciando dal campare alla giornata senza programmi di sorta che non siano quelli legati alla mera sopravvivenza?

Non gliel’avrebbe detto, non aveva senso alcuno mettere al corrente di un evento così delicato una persona abituata a navigare, sia pure in mari ultra conosciuti, scientemente senza timone e a seconda del vento che spira al momento.

E cosa dire di se stessa e dell’impulso che l’aveva spinta a cedere senza un apparente perché all’acquisto di un carillon? Vederlo in una vetrina di articoli per la prima infanzia   e portarlo via con sé, ben mimetizzato nell’elegante borsa portadocumenti, era stata questione di pochi minuti. Il carillon era finito in un cassetto del comò e lei, con un sottile senso di colpa, l’aveva lasciato sotto  lì per un po’, quasi a riflettere sul da farsi. Sentendo d’improvviso e  inspiegabilmente il bisogno di tirarlo fuori quella sera di fine autunno per farlo trillare nella sua camera da letto minimal chic così perfettamente in ordine.

Sapeva che sarebbero occorsi ancora pochi istanti e il topino di stoffa avrebbe smesso di vibrare cessando di ninnare la sua ascoltatrice silenziosa. Attraverso la tenda accuratamente tirata osservò dalla finestra la sagoma di un albero ondeggiare nel vento della sera, ripetendosi mentalmente che tutto sarebbe tornato a posto, che ogni cosa avrebbe ripreso la sua collocazione solita. Che i suoi pensieri, anch’essi ben allineati, avrebbero seguitato a dipanarsi secondo un ordine prestabilito e rassicurante.

Ma sarebbe stato davvero così?

L. Guida

” Silenzio assordante “, dipinto di Giovimartin

Il linguaggio delle cose

Le cose parlano con la voce e l’anima che noi gli conferiamo attraverso i nostri pensieri. Rivestendosi dell’affettività di cui noi le connotiamo. Trasformandosi da semplici oggetti in frammenti di memoria e di vita.

In un racconto brevissimo di qualche anno l’insolita giornata di un comune ciottolo di spiaggia.

Ciottolo di mare

Era un comunissimo ciottolo di mare.

Tondeggiante e oramai senza più angoli da smussare, color ambra portato fin lì forse dalla corrente del fiume o prodotto dall’erosione dei frangiflutti che a una certa distanza dalla riva proteggevano dalla capricciosità dell’Adriatico quel po’ di spiaggia che era rimasta.

Giaceva immobile sulla battigia sottoposto agli umori dei passanti che avevano deciso di spendere quel giorno di arsura e di calura al mare. Gli facevano corona un guscio di conchiglia ormai vuoto, pezzetti lucidi di alga e un rametto di legno levigato dalle onde. In mattinata aveva attratto l’attenzione di un bimbo bruno e paffuto che lo aveva trasformato in vetrata o portone del suo castello di sabbia, costruito con notevole impegno e con l’aiuto attento della sua babysitter e della sorellina poco più grande di lui. Poi il piccino era andato via, lasciando la sua costruzione in balia delle onde che in poco, col risalire della marea, l’avevano rasa al suolo. E il ciottolo era finito nuovamente tra gli altri tesori del mare.

Nel primo pomeriggio era stata la volta di un adolescente magro e altissimo dallo sguardo incupito che se l’era rigirato più e più volte tra le dita, voltandosi di tanto in tanto, furtivamente, a guardare di sbieco una ragazzina allegra e biondissima che giocherellava in acqua con i suoi amici a pochi metri di distanza da lui. Alla fine il ragazzo, stizzito, l’aveva gettato assai lontano dalla riva all’ennesimo strillo di gioia della sua compagna prima di raccogliere la sua sacca e di allontanarsi a passo veloce.

Ma il mare, con  gesto tenero e paziente, l’aveva riportato alla base. E il gioco era ripreso da capo.

Un terranova dallo sguardo umido e gentile l’aveva annusato per poi scartarlo lateralmente con una zampa e proseguire il suo cammino  indisturbato seguito dal suo padrone. Il ciottolo era stato poi raccolto da una signora di una certa età che ne aveva osservate con attenzione le venature iridescenti indecisa se includerlo nella sua selezione di pietre, ma ci aveva ripensato e l’aveva lasciato cadere  nuovamente nella sabbia fluida e scura. Era rimasto a lungo in quella sorta di limbo semi nascosto fino a quando una giovane donna l’aveva notato e se l’era fatto scivolare in una tasca dei cortissimi shorts che indossava. Per il ciottolo era stato un momento di panico e di buio assoluti, per nulla  mitigati dalla sensazione di appartenere finalmente e definitivamente a qualcosa o a qualcuno.

A casa la donna l’aveva tirato fuori e, dopo averlo ben ripulito,  gli aveva scritto sopra a penna indelebile una data e una parola. Conservandolo in una scatola circolare e lucida assieme a un rametto di mirto secco, a diversi bigliettini, a un sacchetto di lavanda, ad altri sassi e conchiglie e a molto altro ancora che sapeva di ricordi e giorni lontani.

Poi era uscita sulla veranda e, con lo sguardo rivolto al mare, ne aveva respirato la brezza pulita; rientrando dopo pochi attimi e richiudendo, dopo di sé, con garbo ma con decisione,  la persiana di legno chiaro sul crepuscolo aranciato e sui suoi pensieri.

Lucia Guida

 

                     photo by alfemminile.com

Case dell’anima

Nelle mie storie la casa, intesa come concentrato di sensazioni e stati d’animo personali, è sempre una sorta di “ locus amoenus “  a revers caratterizzato dall’affettività dei personaggi che la popolano, spazio ideale in cui poter essere per quello che si è realmente, senza limitazioni di nessun tipo. Soprattutto senza dover fingere ciò che non si è. Nel mio immaginario trovano posto con eguale imparzialità case antiche e moderne; ciò che a me importa realmente è che riflettano il temperamento e il carattere di chi le abita, rappresentando nel contempo luogo d’evasione e rifugio ideale dalle piccole e grandi contrarietà di tutti i giorni.

Nel racconto breve che sto per presentarvi Carla, la protagonista, ha la possibilità di tornare indietro nel tempo grazie a un dono imprevisto: una casa d’epoca ricevuta in eredità. Rinunciando a venderla, come all’inizio progettato, per  tenerla per sé. Scegliendo di guardare con occhi consapevoli a un presente connotato dal gusto forte e deciso di un passato riscattato appieno

 

In dono

Carla aprì con uno scatto deciso il portoncino di quella casa. Ne era diventata proprietaria all’improvviso e con così poco preavviso da non rendersi ancora del tutto conto che sua  zia Rachele le aveva lasciato in eredità quella villetta in stile liberty con un gesto di munificenza dovuto, forse, anche al fatto di essere stata la sua madrina di battesimo.

La comunicazione le era arrivata  con una laconica telefonata della segretaria di un notaio dal nome antico e  altisonante che la informava di essere tra gli eredi della signorina Cataldi, sorella di sua madre, destinata da sempre al nubilato per imprecisate ragioni di famiglia; un personaggio decisamente singolare ed eccentrico nel suo conclamato tradizionalismo. Le loro frequentazioni, intense e doverose dai tempi dell’infanzia erano divenute piuttosto sporadiche, soprattutto negli ultimi tempi.  Fino a trasformarsi in incontri occasionali intitolati alla celebrazione di matrimoni  o funerali.

Probabilmente era per questo che la notizia l’aveva colta del tutto impreparata giungendo, per altro, alla fine di una giornata complessa e piena di situazioni tortuose che l’avevano a lungo tormentata fino a quando la sua mente, probabilmente per sfinimento, non aveva elaborato soluzioni idonee di una semplicità disarmante. Quel tipo di spiraglio che talvolta ti si prospetta quando non sai più a che santo votarti e sei sul punto di cedere le armi.

Dopo lo stupore iniziale aveva brevemente ringraziato la sua interlocutrice, assicurando di richiamarla a breve per approfondire i dettagli di quell’evento di cui al momento non era in grado di cogliere la pregnanza perché troppo stanca per farlo.

L’aveva fatto con diligenza il giorno successivo e dopo circa una settimana, tempo necessario per lo studio notarile per sbrigare le formalità del caso, aveva ricevuto da un anonimo corriere un plico di documenti da firmare accompagnati da un mazzo di chiavi e un biglietto scritto di pugno dal professionista che la pregava di recarsi con sollecitudine sul posto per rendersi conto di persona di ciò che in sorte le era toccato.

Il villino era composto da due piani e sorgeva nel nucleo antico di quel paese di provincia in cui per una vita intera si era sdipanata l’esistenza di quella donna divisa tra la cura dei suoi genitori, i suoi nonni, e quella di una sorella minore di salute cagionevole che l’aveva lasciata prima che lei, Carla, nascesse. E lei, giunta tardivamente in un periodo in cui sua madre si apprestava a far la nonna a tempo pieno più che la mamma, ne aveva ereditato il nome. L’arrivo inatteso di quella bimba, quasi coetanea del suo primo nipotino, era stato accettato con stoicità da tutti, contribuendo a regalare a sua madre nuova linfa vitale e ai suoi parenti un nuovo e durevole argomento di conversazione.

Carla sostò per qualche istante nell’ingresso minuscolo rischiarato da una finestra laterale stretta e lunga, ripercorrendo a memoria quegli ambienti conosciuti a menadito prima di farlo realmente con passo lento e ponderato.

Il pianterreno era strutturato in un salotto,  un cucinino a ridosso di un tinello e una stanza quadrata, la camera del cucito, in cui le sue abitanti erano solite riunirsi per confezionare e ricamare capi di corredo destinati alle giovani donne in odore di nozze della famiglia. Al piano superiore, a cui si accedeva per il tramite di una scala dai gradini di marmo e dalla ringhiera arabescata in volute di ferro, c’erano la stanza da bagno e tre  ampie camere da letto. Lei ricordava ancora l’albero di platano che occhieggiava da una finestra delle tre camere, promettendo verde e ombra a sufficienza nelle calde giornate estive a chiunque avesse deciso di trascorrere ore di relax  nel piccolo giardino a ferro di cavallo che circondava la costruzione.

Il pavimento era quello  di sempre, costituito da mattonelle di cotto che in ogni ambiente si riunivano al centro della stanza per dar vita a ordinate simmetrie geometriche; certamente un po’ logore ma non prive di un certo fascino, quello delle cose senza tempo impregnate di ricordi scanditi dal ticchettio di un orologio da tavolo, da un odore indefinito di pietanze cucinate o di lavanda spigata conservata un po’ dappertutto.

Con una sensazione indefinibile dal sapore fané  ammise con se stessa di non sapere cosa fare di quel dono inaspettato. Certo aveva provato una punta di rimorso nell’attimo in cui, per il tramite di quel gesto generoso, aveva scoperto di essere ancora nei pensieri di quella parente visitata da bimba e adolescente con la sistematicità dovuta a una brava ed educata figlioccia. Non c’erano stati un Natale, una Pasqua, genetliaco o onomastico, in cui avesse mancato all’appuntamento, spesso accompagnata da una delle sue sorelle per richiesta di sua madre,  ben lieta di farsi sostituire, in quelle ricorrenze, da una delle figlie maggiori.

Poi per Carla erano arrivati gli anni giovanili dell’affermazione; dopo l’università era andata a lavorare all’estero conoscendo pezzi di mondo ad ampio spettro, richiamata all’ovile da un fidanzato impaziente di impalmarla da cui si era, dopo alcuni anni di matrimonio, separata. In quella circostanza la sua madrina aveva tuonato, spronandola spesso a riconciliarsi con suo marito, fino a perdere definitivamente ogni speranza quando lei, sempre telefonicamente, le aveva dato notizia dell’ottenimento del divorzio. Si era spesso soffermata sulla foga messa dall’anziana donna nei suoi  persuasivi discorsi; un impeto che mal si contemperava con l’esigua esperienza in materia di uomini da quest’ultima posseduta. Ciò non le aveva però impedito di percepire che, dietro a quei toni accesi ci fosse la genuina preoccupazione  che lei potesse rimanere sola, in balia degli eventi, senza un’adeguata e protettiva spalla maschile su cui poggiarsi. Quella che a suo tempo  a lei  era mancata, condannandola ad un’esistenza dedicata alla cura di anziani familiari bisognosi di assistenza continua e nipoti concepiti come figli putativi da gratificare e da guidare con la tecnica del bastone e della carota.

Richiudendo a fatica una persiana scrostata che aveva conosciuto tempi migliori  si disse che l’esplorazione della sua nuova proprietà era finalmente terminata. La casa aveva bisogno di urgenti e radicali riparazioni; i rubinetti dell’ampio bagno superiore avevano finito col macchiare irreparabilmente  di ruggine lo smalto immacolato del lavabo e della monumentale vasca da bagno con i piedi, suo sogno proibito  di  ragazza romantica.

Tracce grigie di condensa dovute a imposte tenute caparbiamente  serrate negli ultimi tempi segnavano impietosamente il candore  e le tinte pastello dei muri di buona parte delle stanze. Il giardino in cui un tempo, stagione dopo stagione, rifiorivano ciclamini nani  e ciuffi di mughetti, adagiati ai piedi di un paio di alberi secolari, era ridotto a un ammasso di rampicanti prepotentemente in rigoglio e di erba infestante cresciuta con vigore inaudito.

Seduta sul sofà foderato di cretonne fiorato dai toni addolciti dal tempo pensò alla fatica fisica e mentale che avrebbe richiesto ristrutturarla e agli infiniti e svariati accomodi  a cui avrebbe necessariamente dovuto sottoporla. Suo malgrado le era infatti balenata l’idea di poterla tenere per sé. Poteva anche provare a convincere i suoi figli a seguirla, magari solo per qualche volta nei fine settimana; prefigurando una serie di rimpatriate collocate in una dimensione temporale che ora non c’era più e che le sarebbe piaciuto in qualche modo ricreare. L’alternativa sarebbe stata, del resto, affittarla, pur non essendo del tutto certa di riuscirvi in maniera soddisfacente:  accingersi a trovare degli occupanti che se ne innamorassero per quella che era, senza inutili e pretenziose sovrastrutture, non era cosa di facile risoluzione.  Il villino di zia Rachele era austero e solido come la sua originaria padrona di cui aveva conservato i tratti severi, rigorosi. Apprezzato probabilmente soltanto da chi, penetratane l’essenza, fosse riuscito a respirare l’aria che conteneva, forte e inebriante come un sorso di quel rosolio fatto in casa, conservato  nella bottiglia di cristallo dal tappo tondeggiante in credenza e offerto ai pochi ospiti che osavano varcarne  la soglia.

Nella sua progettualità immediata non era riuscita, tuttavia, a pensare di alienarla vendendola al miglior offerente; semplicemente perché la sua mente rifiutava di contemplare una simile opzione. Quella dimora ospitale e silenziosa, fortemente accattivante nella sua apparente severità era il suo personale pezzo d’infinito a cui  nell’arco di quel pomeriggio aveva scoperto di non voler rinunciare per nessuna ragione al mondo.

Con un piccolo sforzo tirò dietro di sé il portoncino d’entrata formulando a mezza bocca quasi con discrezione un arrivederci.

Nella tasca del suo impermeabile le pesanti chiavi tintinnarono con complicità, solidali. Per ricordarle che esistevano ancora infinite possibilità di riscatto, che ci sarebbero state ancora e a lungo.

A cominciare da quel tepore insolito in una giornata di metà novembre e dai colori caldi, amichevoli di quell’autunno senza tempo, sospeso nell’aria, sorprendentemente indulgente.

Lucia Guida

 

 

photo by blueprincess 

Come crochi tra la neve

La Biblioteca Civica Popolare “L. Ricca ” di Codogno (LO) ha sede nell’ex Ospedale Soavi di via Gandolfi, un pregevole edificio risalente alla fine del 700 fulcro delle iniziative culturali promosse localmente. Da ben dieci anni ospita l’edizione del premio nazionale di narrativa intitolato alla scrittrice Anna Vertua Gentile. Una delle finalità del premio, è quella, condivisibilissima, di promuovere ad ampio spettro la lettura di pari passo con la scrittura attraverso un contest che sin dalle prime edizioni è stato di richiamo forte per autori esordienti e affermati.

“Come crochi tra la neve” è un mio racconto breve presentato alla IX edizione dell’ “Anna Vertua Gentile”, classificatosi al II posto per la categoria adulti. La vicenda, ambientata nel secondo dopoguerra, è la storia di un bambino, Luigi, e del suo desiderio forte di “ (…) ricomporre una normalità perduta “ in seguito alla morte di suo padre e allo stravolgimento del proprio microcosmo familiare originatosi da questa perdita affettiva.

 

 

COME CROCHI TRA LA NEVE

 

Luigi aprì gli occhi piano, ancora frastornato e caldo di sonno. Era sicuro di non aver immaginato quel dondolio leggero e la voce di sua madre che gli raccomandava, prima di recarsi al lavoro, di badare a Nina. Fuori il cielo era uniformemente grigio, tanto da non far presagire niente di buono. Sarebbe stata un’altra giornata d’inverno uggiosa e fredda cui far fronte, a cavallo tra Capodanno ed Epifania. Una giornata senza scuola ma anche senza gioia e allegria. Erano tempi difficili, quelli. Duri soprattutto per un bambino di dieci anni come lui. Ripensò velocemente all’emozione del film che lui e Peppe erano riusciti a vedere, intrufolandosi con uno stratagemma nella sala del cinematografo del paese, senza che la maschera, un omone con tanto di baffi neri a forma di manubrio, riuscisse a scorgerli e ad impedire che il misfatto fosse perpetrato. Il difficile era stato, comunque, guadagnare l’uscita e lì avevano dovuto giocare nuovamente d’astuzia e mescolarsi al flusso degli spettatori paganti, sperando che lui non badasse a loro, come poi fortunatamente era stato. Il film parlava di cowboys e pistoleri e di inseguimenti in praterie rigogliose e sterminate; di ladri di cavalli prontamente acciuffati da sceriffi ardimentosi che riuscivano a ristabilire ordine e giustizia con azioni avventurose ed eroico coraggio. Luigi vi si era immedesimato così tanto da evitare per un pelo, e grazie alla provvidenziale gomitata di Peppe, nascondendosi solo all’ ultimo momento sotto la fila di sedili di legno, il controllo incrociato del proprietario della sala, insospettito da quella straordinaria affluenza non giustificata da un incasso decisamente contenuto.

Sospirò piano e con estremo sacrificio decise che era ora di alzarsi sul serio, spinto anche dal languorino che cominciava a solleticargli lo stomaco. La cucina era fredda e poco illuminata dalla portafinestra di vetro schermata da pesanti tendine di filo. La mamma aveva lasciato nella madia per lui e per Nina del pane e del formaggio, il loro pranzo per oggi, e per prima colazione un pentolino di latte incoperchiato sul tavolo di legno lucido. Luigi lo toccò cautamente per verificare se era ancora tiepido ma arricciò il naso quando si accorse dello spesso strato di panna che lo ricopriva. La panna era una cosa che davvero non sopportava, viscida e molle in bocca, decisamente disgustosa. Sospirando nuovamente e con infinita pazienza cominciò con poca fortuna a pescarla col cucchiaio, sicuro che Nina avrebbe, come al solito, fatto storie. La mamma non gli permetteva di mettere in funzione la cucina a legna quando lei non c’era. “Non sei grande abbastanza,“ aveva sentenziato il giorno in cui lui, stanco di dover consumare cibo troppo caldo o viceversa troppo freddo, le aveva espresso quel desiderio. Per loro avrebbe potuto essere troppo pericoloso, aveva aggiunto, soffocando sul nascere qualsiasi altra sua rimostranza e da allora non se n’era più parlato. Troppo piccolo, si era ripetuto lui dispiaciuto. Non si occupava, forse, quotidianamente di sua sorella Nina di sette anni quando la mamma era a servizio in casa del dottore dal mattino presto a sera inoltrata, suo orario solito di rientro? Accompagnandola a scuola o facendole compagnia tutto il giorno a casa tranne che per le rare volte in cui qualche vicina dall’animo sensibile non decideva di tenerla con sé concedendogli pochi attimi di spensieratezza? A volte i grandi erano davvero ingiusti, ingiusti e incoerenti.

“ Luigi, ho fame … “, esordì Nina raggiungendolo a piedi nudi e arrampicandosi una sedia impagliata, aspettando fiduciosa la sua parte. E lui l’accontentò, bravo tanto da non versare neanche un goccio di quel liquido prezioso, spingendo verso di lei due fettine di pane ammassato in casa. Tutto filò liscio come l’olio perché la bimba quel giorno non protestò come al solito, ma terminò senza indugio quella semplicissima colazione per poi dedicarsi alle pulizie personali. Da una brocca di ceramica fiorata versò con infinita precisione un po’ d’ acqua nel bacile lavandosi scrupolosamente con un pezzo di sapone di marsiglia. Non era come le saponette al profumo di rosa che Rita, figlia del sarto e sua compagna di scuola, le aveva mostrato permettendole di annusarle voluttuosamente, ma tanto bastava.

“ Ahi “, si lasciò scappare infastidita, quando Luigi le pettinò con forza eccessiva una ciocca di capelli, annunciandogli con sussiego che avrebbe terminato da sé. E così fu. Entrambi perfettamente vestiti, la cameretta e la camera opportunamente riordinate, le poche stoviglie rigovernate con cura e l’ acqua utilizzata per tali scopi riversata in un secchio sotto l’ acquaio; sarebbe servita per l’orto o per altro. Il pavimento spazzato con diligenza estrema per eliminare inesistenti granelli di polvere. La mamma voleva facessero così. Finalmente ciascuno dei due era libero di dedicarsi a ciò che più gli aggradava.

Nina afferrò la sua bambola di pezza e si buttò addosso una giacchetta di lana fatta ai ferri recipitandosi in cortile dove Giulia e Francesca erano già da tempo impegnate a saltare su una campana tracciata con un pezzetto di gesso. A Luigi non restò che seguirla; aveva avuto tassativo ordine di non perderla mai di vista e così fece, accontentandosi di veder sfilare per la viuzza del centro cittadino frotte di ragazzini liberi da impegni e ben felici di scorrazzare per il borgo mettendo a repentaglio la vetrina di qualche negozietto con un calcio al pallone più poderoso degli altri. Sospirò nuovamente, poi si disse che non aveva senso essere troppo tristi e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da fare. Intanto Nina aveva cambiato occupazione, e dopo aver impegnato le altre a fare scuola con le pupe e a giocare a “mamma e figlia” si era seduta accanto ad un’anziana vicina, sull’uscio della casa di quest’ ultima, intenta a confezionare col tombolo preziose trine per qualche nipote in procinto di sposarsi, seguendone affascinata il rapido movimento delle mani. La bimba, interessata, chiese timidamente se era una cosa troppo difficile, accaparrandosi un sorriso della vecchina che le promise di insegnarle presto qualcosa.

“ Luigi !”, il bambino si volse di scatto, riconoscendo la voce del suo amico più caro e smettendo di levigare col coltellino quel rametto che nel suo intento avrebbe dovuto trasformarsi in bastone o canna da pesca.

“ Com’è che non vai a giocare anche tu?”, gli chiese curioso e segretamente contento di quel mal comune che in quell’ occasione prometteva di diventare per lui mezzo gaudio. L’altro lo guardò corrucciato.

“Sono in punizione per l’altra sera”, spiegò. La sera prima, quella della proiezione a sbafo. Lui era riuscito a farla completamente franca perché al suo ritorno la mamma e Nina, trattenute in casa del dottor Corvelli per faccende dell’ultim’ora non erano ancora rientrate, ma l’altro non c’era riuscito, attirandosi le ire furibonde di padre e madre, già in tavola per la cena e infastiditi dal prolungarsi della sua assenza.

Luigi guardò di sfuggita l’altro sentendosi vagamente colpevole per quanto gli aveva procurato ma Peppe non era ragazzo capace di restare a lungo col broncio. Aveva un carattere aperto e socievole e una notevole capacità di sdrammatizzare anche eventi tragici come quello di una mancata escursione al fiume con gli altri compagni. Fece quindi spallucce seguite da un “Che si fa?” che la diceva lunga sulla sua personale capacità di reinventarsi nuove situazioni di gioco anche col poco a disposizione che aveva.

Luigi gettò uno sguardo su Nina, impegnata a pasticciare con ago e filo con le sue compagne accanto alla nonnina, poi tirò fuori con fare misterioso una grossa chiave di ferro brunito da una tasca.

“ Vieni con me”, lo invitò con simulata indifferenza e tutti e due imboccarono il vicoletto attiguo, quello in cui una volta si apriva la botteguccia da ciabattino di suo padre. La serratura rispose senza indugio alle sollecitazioni del bambino, segno tangibile di una cura costante che mal si spiegava con il disuso in cui il locale versava da qualche anno a seguito della morte dell’ uomo, disperso nella campagna di Russia.

L’atmosfera era la stessa di un tempo, quella in cui l’ ambiente era immerso accogliendo clienti alla ricerca di un qualcosa in più che non consistesse soltanto nell’acquisto o la riparazione di calzature consumate da un uso massiccio. Nicola era anche dispensatore di saggi consigli e ottimo scrivano per tutti quelli che, povera gente come lui, avevano all’estero o in guerra parenti lontani. Luigi sorrise al ricordo dell’intensa frequentazione che lo aveva animato, sentendosi a proprio agio nel calore e nella familiarità dei pochi e semplici arredi che lo costituivano; da quando, piccino, e muovendo i primi passi aveva spesso affiancato suo padre, basco scuro e panciotto, avvolto in un pesante grembiulone per parare macchie d’unto e di colla. Peppe rimase a bocca aperta; non sapeva di quel rifugio segreto, Luigi non gliene aveva mai parlato. Ma la cosa che lo lasciò davvero attonito fu, non appena la sua vista si adeguò alla poca luce che filtrava attraverso le pesanti imposte lasciate semichiuse per non destar troppi sospetti nei passanti, notare quello che qualcuno aveva apparecchiato su ciò che un tempo non lontanissimo era stato il bancone. Un presepio immenso, realizzato con cura e autentica dedizione, in cui sentierini segnati da breccia e bordure di muschio vero erano popolati da statuine inframmezzate da rametti di sempreverde e pezzi di roccia a simulare boschi e paesi. Toccò le montagne e con stupore si accorse che erano fatte di pezzi di morbida pelle e brandelli di cuoio, rinforzati internamente da cartone e stracci reperiti chissà come.

“ L’hai fatto tu ?” chiese, ma la sua era una domanda inutile di cui già sapeva la risposta.

Luigi annuì in silenzio profondamente orgoglioso della sua opera. Restarono ancora per qualche attimo a rimirarla, prodighi l’uno di domande e l’altro di risposte sulle modalità di realizzazione di quella singolare Natività. Poi, in silenzio e quasi con reverenzialità si chiusero piano i battenti alle spalle e, tornati nel vicino cortile, decisero di dare quattro calci a una palla tra le proteste indignate delle bambine distolte dalle loro cose dalla concitazione del loro gioco e poco propense a lasciare campo libero. La giornata passò in tal modo tra scaramucce e rivendicazioni di vario genere, pendendo vicendevolmente dall’ una o dall’ altra parte.

Rachele entrò in casa scrollandosi di dosso il ricordo delle fatiche di quella giornata interminabile. L’indomani a casa dei suoi datori di lavoro si sarebbe celebrata in pompa magna un’Epifania senza precedenti. Il dottore e sua moglie avrebbero infatti festeggiato il fidanzamento della loro figlia maggiore con il suo fidanzato storico, un giovane ingegnere miracolosamente scampato al conflitto a cui pure suo marito aveva partecipato seppure con minore fortuna. Oramai da mesi in quella casa di signori non si parlava d’altro. Ogni angolo era stato tirato a lucido con meticolosità, il menu da servire ai numerosi ospiti architettato con cura senza lasciar niente al caso né tantomeno badare a spese. Sarebbe stato l’evento della stagione, una chiusura in bellezza di festività natalizie celebrate in verità sotto tono ma pur sempre segnale tangibile di vita che riprendeva pian piano similmente allo spuntare dei crochi tra pezzi di roccia e sprazzi di neve ghiacciata in montagna a primavera. Respirò profondamente quasi a farsi forza, preparandosi a salutare con una certa serenità i suoi bambini e li trovò già pronti per andare a letto ma in attesa della cena. Le provviste che la cuoca aveva per lei messo da parte, i resti di un timballo e delle patate al forno, finirono in un baleno, onorati con solennità. Mentre, stanchissima e in camicia da notte, riattizzava il fuoco nel braciere, ascoltò paziente i loro racconti su come avevano trascorso quella giornata, guardando con tutta l’attenzione di cui era capace la piccola stella di tombolo mostratale da sua figlia, fiera di quel nuovo gingillo. Luigi, insolitamente silenzioso, fu quella sera di poca compagnia e spesso le parve assorto in pensieri in cui lei sentiva, con una piccola stretta al cuore, di non avere accesso. Si disse a mo’ di consolazione che gli sarebbe passata presto, prendendo a rimboccare come di consueto a entrambi le coperte. Poi, seduta su una sedia aspettò che si addormentassero, prima di finire anche lei quella giornata che era stata più lunga e più difficile del solito da gestire in termini di fatica fisica e mentale. A un tratto la giacca di Luigi scivolò dal letto producendo per terra un rumore che lei non riconobbe e che l’incuriosì. Con meraviglia scoprì quella chiave sul pavimento quasi ai suoi piedi e, mentre la raccoglieva, si accorse che il bordo della coperta malcelava un involto di carta accuratamente confezionato. Con crescente sgomento lo aprì tirandone fuori il contenuto: l’effigie dei tre Magi, comperati dal bimbo, ipotizzò, con qualche soldino ricevuto a Natale.

In un attimo si gettò addosso uno scialle decidendo di compiere un’operazione che sino ad allora non era stata in grado di portare a compimento. Da casa sua al vicolo il passo fu breve e ancor meno richiese l’apertura del sottano.

Con sguardo dolente socchiuso al fioco riverbero di una lampadina appannata dalla polvere di mesi e mesi accarezzò ogni frammento di quello che un tempo e sino alla sua partenza senza ritorno, era stato regno esclusivo di suo marito: il suo negozio, la sua vita; scorgendo, con un tuffo al cuore, quel presepe minuziosamente allestito con amore da mano inesperta per rinnovare una tradizione, quella del suo Nicola, che era stata in passato celebrazione festosa per tutti loro.

Ripensò anche alla richiesta accorata di Luigi di poterlo fare in casa, da lei caparbiamente negata anche per quell’anno. Serrando fermamente le palpebre non pianse una lacrima e andò via piano, muta.

Quel mattino a Luigi sembrò che la mamma lo avesse salutato prima di uscire con tenerezza particolare. Si preparò stoicamente ad un’ altra giornata in solitudine con Nina con l’unica consolazione che per quel giorno avrebbero avuto compagnia in anticipo, non appena la donna avesse terminato di servire il pranzo, per gentile concessione dei suoi datori di lavoro.

Il cielo, per il tramite di un raggio di luce incolore, gli trasmise la stessa indecisione del giorno precedente ma lui non vi badò e si tirò su come di consueto, pronto a recarsi di là per assolvere ai suoi doveri di fratello e figlio maggiore.

“ Nina!”, gridò a metà tra lo spavento e l’incredulità.

Ciabattando, la bambina lo raggiunse, sgranando, a sua volta gli occhioni neri.

Sul tavolo, in cucina, due calzette di lana grossa facevano bella mostra di sé accanto al solito pentolino. Inspiegabilmente e come da tempo più non avveniva, la Befana si era nuovamente ricordata di loro recandosi nottetempo a visitarli. Con sveltezza le rovesciarono, tirandovi fuori mandarini, qualche biscotto alla cannella e delle vere caramelle, comprate in negozio e non fatte dalla mamma in casa. Sarebbe stata una colazione con i fiocchi, ricca di prelibatezze insperate. A un tratto Luigi si ricordò di qualcosa e si precipitò in camera, frugando a lungo ma invano sotto il letto. Scoprendo, sconfortato, che quello che cercava non era più al suo posto. Allora si vestì in fretta e brandendo la sua chiave scese quattro gradini per volta la scalinata che lo portava all’ aperto, correndo verso la bottega di suo padre e aprendola con decisione. Il suo presepe era lì come sempre, composto nei minimi particolari ma arricchito, quel giorno, da qualcosa di nuovo. C’erano i suoi re Magi sui loro cammelli a ridosso della capannuccia di frasche da lui intrecciata con pazienza per offrire riparo alla Madonna, San Giuseppe e il Bambino.

“ Luigi! “, si sentì chiamare da una voce nota appena velata dall’ ansia e pensò sussultando a Nina, abbandonata così di corsa e senza un’accettabile giustificazione. Distogliendo lo sguardo dalla compiutezza finalmente e miracolosamente raggiunta da quella scena, serrò nuovamente le imposte e fece rapidamente ritorno a casa, soffocato dal rimorso. La vista di sua madre per le scale gli paralizzò il passo.

“ E il lavoro?”, chiese immaginando il peggio. Lei l’ abbracciò forte.

“ Per oggi niente lavoro. A loro, oggi, non servo più “, gli spiegò con dolcezza inusitata. Senza indugiare su quel pianto liberatorio che l’aveva colta all’ improvviso davanti alla signora, sconvolta dall’improvviso cedimento di quella vedova esile e forte e da quel fiume di parole e spiegazioni concitate che erano state la stura di un dolore infinito compresso in petto e lungamente negato. Sul solidale e affettuoso abbraccio che ne era seguito e la concessione di un permesso speciale in una giornata che non poteva essere soltanto gioia esclusiva di pochi.

E, presolo per mano, salì svelta di sopra, accolta dal profumo dei mandarini appena sbucciati e da una Nina incredibilmente contenta, felice come non mai di vederla lì, assieme a loro, in quel giorno di festa come oramai da tempi lontani e immemori in casa De Girolamo non accadeva più.

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photo by 123RF

Cercatrice di perle

La lunga notte,
il rumore dell’acqua,
dicono quel che penso

Gochiku

  “Cercatrice di perle” nasce nel 2008 dalla scoperta di alcune foto di Fosco Maraini (1912-2004) etnologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta fiorentino, di recente riproposte in una mostra retrospettiva dell’aprile di quest’anno a Firenze. Pensare a una storia da intrecciare ai bellissimi corpi sinuosi delle amah da lui ritratte è stata questione di poco. Decidere di ambientarla a Broome, nell’Australia Occidentale, una mia scelta emotiva. Per quanto mi è stato possibile ho cercato di documentarmi in merito per conferire alla storia d’amore di Nami e Frank la maggior verosimiglianza possibile. Il racconto  appartiene al mio periodo di esordio in web nel blog “Springfreesia” di Libero Community.

Cercatrice di perle

Mi chiamo Nami e sono una pescatrice di perle.

Vivo a Broome, nel Kimberley, da quando avevo sei anni. Mia madre era una amah giapponese pescatrice di awabi. Non so chi fosse mio padre. Forse un semplice pescatore o forse anch’egli un  tuffatore. Non l’ho mai conosciuto. Mia madre me ne ha parlato pochissimo e sempre con occhi fieri, combattivi. Occhi di donna che ha amato e perso irrimediabilmente la sua battaglia con l’ amore.

Della mia infanzia ricordo  poche cose. La festa della Luna Piena di Settembre, con le sue offerte di frutta e fiori  alle finestre della nostra casa  inondata dai suoi raggi, è ancora nel mio cuore e nella mia mente. L’abbiamo continuata a celebrare fin quando non siamo partite per l’Australia alla ricerca di nuova compiutezza, di vita da vivere con trasporto rinnovato, di aria indulgente e mite, di acqua rassicurante e prodiga.

Conosco il mare e al mare sono legata anche dal mio nome. Mia madre ha continuato a immergersi con me in grembo con la stessa abilità di sempre fino a poco prima di partorirmi. E da sempre ho respirato aria salmastra. I miei giocattoli conchiglie delle forme più disparate:  pezzetti di legno levigato e contorto portati dalle onde e collane verdissime e lucenti d’alga. Dal mare sono nata e di mare vivo traendone il mio sostentamento. Ho imparato ad immergermi mentre muovevo i primi passi sotto la guida attenta e amorevole di mia madre. Da sola ho appreso, invece, a trarre la mia forza e la mia serenità dal  movimento ritmico e rassicurante dei flutti.

Dal mare è arrivato l’amore con Frank e con il mare è andato via. Lui fa il marinaio e non è mai stato l’uomo di una sola donna. Ha capelli ricci e occhi nocciola. L’ha portato da me un veliero, uno dei tanti che attraccano al porto. E’ capitato l’estate in cui ho perso mia madre che di lui non ha mai saputo.

Non so se ne avrei ricevuto la benedizione.

Lei ha conservato sempre una tenace avversione per gli uomini di mare portandosi questo segreto che è insieme sottile maledizione con sé nel cimitero giapponese di Broome.

Frank mi ha notata tra la mia gente, pescatrici di perle come me e tuffatori abili e audaci. Ha seguito affascinato i movimenti lenti ed aggraziati del mio corpo snello e seminudo dal ponte del battello su cui depositavo le ostriche pescate. Si è divertito a intrecciare per gioco, dopo l’amore, fiori profumati nei miei capelli neri setosi portandomi spesso di notte sulla spiaggia di  Cable Beach, due corpi in uno sdraiati sulla sabbia fina e bianca morbida e invitante.

Non mi ha mai parlato di sentimenti né mi ha mai fatto promesse. Mi ha soltanto amata per il tempo di un’estate tiepida come solo le nostre estati sanno essere. Poi un giorno mi ha detto con semplicità che sarebbe andato via.

All’alba, nascosta tra le barche ormeggiate, ho assistito alla sua partenza stringendo forte la mia perla azzurra portafortuna. Nella mia gola un urlo silente, nel palmo della mia mano le unghie conficcate a sangue per non cedere alla tentazione di chiamarlo e supplicarlo di non partire, di restare qui con me ancora per poco, in quest’oasi lussureggiante all’ improvviso diventata per me landa deserta e arida senza più respiro.

Quel giorno non mi sono tuffata per pescare le mie ostriche; l’ho fatto per sfogare la mia rabbia e il mio dolore. Immergendomi più rapidamente del solito per mescolare le mie lacrime al sapore salato dell’acqua di questo oceano trasparente fino ad allora sempre estremamente generoso con me. Poi all’ improvviso mi sono calmata e, tornando in superficie, sono rimasta a pelo d’acqua; lasciandomi cullare a lungo da onde carezzevoli e pietose per trarne conforto come da piccola quando la mie giornate si tingevano di blu cupo e odoravano di burrasca. Ricevendo un lungo abbraccio rassicurante dall’origine delle mie albe e dei miei tramonti. Il mare mio principio e mia fine. Mia rinascita.

Anche stasera sono qui, sulla spiaggia di Cable Beach.

Ho assistito al calare del sole accarezzata dalla brezza profumata e discreta e ora celebro con stupore rinnovato il sorgere della luna piena che, luminosamente riflessa sulla superficie scura dell’ oceano, traccia la sua scalinata verso il paradiso  approfittando della benevolenza della bassa marea per congiungervisi.

Ora non ho più offerte da fare.

Sono tuttavia qui in silenziosa e fiduciosa attesa di un qualcosa che non saprei definire ma che so verrà da me, che forse è già qui con me. Con la mia perla lucente beneaugurante al collo, i capelli sciolti come fili scuri d’alga a lambire le spalle nude e un fiore scarlatto,  grande e profumato, dietro un orecchio. Un fiore che è sorriso silente nelle ombre della notte che avanzano piano.

Blandita dal suono melodioso della risacca,  riposta indulgente dell’Oceano Mio Padre alle mie tante domande inespresse e alla mia sete d’ amore.

Nami,  ottobre 1900,  Broome.

Donne del Mare, Fosco Maraini

foto di Fosco Maraini

Vite dalla finestra

Le piccole cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria mi sono sempre piaciute. Probabilmente per il senso di profonda rassicurazione offerto dalla riscoperta quotidiana di oggetti e cose appartenenti al proprio vissuto, da ciascuno di noi agito concretamente o, viceversa, conservato nei ricordi che decidiamo di salvare da una progressione temporale irriverente che spesso non concede tregua.

Questa volta la mia proposta di lettura è un racconto pubblicato sul mio blog Springfreesia della community di Libero qualche anno fa, ritratto dei primi passi da autrice di Lucia, intitolato “Il giardino interno”. Una storia di donna sfumata come ogni cosa alle prime ombre della sera

Il giardino interno

Era per tutti e da tempo immemore la signorina Teresa. Abitava in una casa del centro storico persa in un intrico di viuzze lastricate di pietra locale su cui la camminata dei  passanti rimbombava nottetempo con rumore sordo ma rassicurante; una di quelle dimore  con  portoncino a doppio battente di lucido legno stagionato dipinto, privo di campanello e che recava a una certa altezza due anelli di pesante bronzo che servivano con discrezione ad annunciare visite di parenti e conoscenti. La signorina Teresa, in realtà, non aveva intense frequentazioni. Era l’unica sopravvissuta di un’antica e benestante famiglia del luogo che aveva lentamente e progressivamente visto i propri componenti decimarsi e passare a miglior vita attraverso ben due conflitti mondiali, epidemie e sofferenze di vario tipo. Al pari di un facoltoso personaggio che vede assottigliarsi il patrimonio di famiglia, accumulato  generazione dopo generazione,  minato da tante e non sempre prevedibili difficoltà giunte in rapida successione. I suoi possedimenti, ora, erano tutti lì, in quella casa paterna che si apriva alla sommità di una scalinata stretta e  ripida dai gradini di marmo una volta candido,  in un ingresso, un tinello-sala e un cucinino al primo piano, per poi proseguire con due camerette al piano superiore. Ma la meraviglia di quella modesta sistemazione era tutta nel  giardino interno, invisibile dalla strada principale, a cui si accedeva dalla porta-finestra dell’ampio tinello-sala. Per arrivarci era necessario prendere una scaletta un po’ malmessa che costeggiava e si snodava lungo un muro interrotto da una finestra con un’ inferriata spartana, che contribuiva a fare di quello spazio chiuso a cielo aperto un luogo privilegiato dando, nel contempo,  luce al retrobottega di un locale a fronte strada occupato al momento da un artigiano con il benestare e la tacita approvazione dell’anziana gentildonna sua  proprietaria.

Nel giardino che fungeva anche da orto era concentrato il lavoro paziente e certosino di quella donna sottile dall’età indefinita: bordure di campanule, rose e gerani, un nespolo e un limone, un’acacia che si riempiva di fiori bianchi e profumatissimi in estate. E poi una piccola coltivazione di ortaggi in fondo, quasi a ridosso del muro che delimitava la proprietà e la separava da un altro caseggiato,  anch’essa in rigoglio ed esplosione di colori accesi dalla primavera fino a tutta la bella stagione. Una panchina poggiata a un altro muro con una fontanina di lì a presso e un pergolato di glicini che  assicurava l’ombra a chi avesse deciso di sostare per riempirsi la vista di verde e fioriture insperati, rifinivano l’insieme. Un tempo c’era stata anche una rampicante di bouganville ma non era sopravvissuta ai rigori di un inverno precoce e particolarmente duro per quella latitudine. Teresa non era riuscita a salvarla né aveva  voluto estirparla la primavera successiva e ciò che ne rimaneva era rimasto al posto di sempre, lungo la terza parete di quell’ incredibile  oasi cittadina.

Mariuccia, la ragazza che prestava servizio in quella casa oramai da un paio d’anni, se n’era spesso chiesta il perché; la signorina era di una meticolosità quasi maniacale nella cura di quel pezzetto di verde, eppure non aveva avuto voglia di rimpiazzarla con un po’ d’edera, altro glicine, niente da fare. Ma quella stranezza era solo una delle tante di quella figura così riservata e un po’ misteriosa. La scorsa primavera, per esempio, cercando di dar la caccia a un topolino che aveva preso a fare incursioni notturne per casa, si era imbattuta, frugando nel sottotetto, in una scatola di cartone nascosta sotto un vecchio e logoro copritavolo di gobelin dissimulata da una serie infinita di vecchie cianfrusaglie: un grammofono dalla tromba ammaccata, cornici vuote in stile veneziano, santi e madonne racchiusi in cupole di vetro e molto altro ancora.

Mariuccia non aveva temuto di riempirsi di polvere né di essere rimproverata per la sua innata curiosità e con ardimento si era messa d’impegno per liberarne la superficie che, una volta scoperchiata, aveva rivelato un contenuto inimmaginabile: un abito da sposa nuovo, nuovissimo! Avvolto in più e più strati di carta velina, a prima vista mai indossato e ingiallito  solo in alcuni punti, come se qualcuno lo avesse a lungo accarezzato, quasi con rammarico, per poi decidere a malincuore ma con ragionevolezza estrema di abbandonarlo a un indefinito periodo di oblio.

La vita della signorina Teresa ruotava tutta lì, tra i poveri della parrocchia, le lezioni di piano che impartiva a pochi ma diligenti allievi e il  giardinaggio. Pochissima vita sociale al di là delle due messe giornaliere, quella mattutina e quella vespertina, e qualche tè con due o tre amiche di vecchia data, sue compagne di gioventù.  Mariuccia non riusciva a credere come la sua padrona non si scollasse dal suo nido nemmeno per una passeggiata in piazza nella ricorrenza del Santo Patrono.  E si che a lei piaceva! Come le piaceva scorazzare in sella alla Lambretta del suo fidanzato, andare con lui al luna park e godere dei fuochi pirotecnici allestiti di notte in periferia sotto il cielo sereno e stellato di maggio! Un peccato che la signorina si ostinasse a tenere le persiane delle  camere che davano sulla via principale ostinatamente chiuse, anche al passaggio della Madonna in processione! A quel suo pensiero espresso incautamente ad alta voce  Teresa aveva replicato bruscamente e con così tanta foga da farle venire le lacrime agli occhi zittendola per il resto della giornata. A testa bassa aveva finito le faccende e portato a termine la spesa in drogheria. Ma all’indomani, al termine del lavoro, si era vista consegnare dall’anziana donna un fagotto accuratamente confezionato.

“ E’ per te  “, le aveva detto con la sua espressione di sempre, appena addolcita da un cipiglio meno austero del solito, “ fanne quello che vuoi ”. Lei aveva ringraziato brevemente ed era andata via. Una volta in strada, però, non aveva resistito alla tentazione di disfare l’involto scoprendo che era un abito di seta, di vera seta!, color malva, bellissimo ed etereo: avrebbe chiesto a sua madre di accomodarlo per la festa del paese oramai imminente. Lei e il suo Tonino sarebbero stata la coppia più ammirata, già se lo immaginava! E canticchiando a mezza voce una melodia festivaliera trasmessa a gran volume da una radio poco lontano si era allontanata un po’ più rinfrancata.

Ben celata dietro una tendina di pizzo all’uncinetto della finestra di una delle camere superiori Teresa aveva  sbirciato, seppur parzialmente, la scena. La ragazza bruna che scartava con curiosità il pacchetto, la sua espressione stupita e contenta, il suo passo leggero sui lastroni di pietra irregolare della stradina tortuosa.

Da un cassettino poco in vista del Secretaire di radica della sua camera da letto, monastica ed essenziale, aveva poi tirato fuori un pacco di lettere legate da un nastro e altrettante fotografie. Alla ricerca di quella un po’ logora che la ritraeva, giovane e con i capelli corti al vento, in sorridente compagnia di un bell’ ufficiale. Abbigliata in un elegante abito color malva e radiosa nel suo bel sogno d’amore. Completato da un sorprendente sfondo di bouganville in fiore.

 

 

 

” The Goldfish Window “, F. Childe Hassam

 

 

Messages in a Bottle – Messaggi in bottiglia

“ Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. E’ scoppiata tutto d’un colpo. C’erano cocci ovunque,  e tagliavano come lame. “

A. Baricco, “ Oceano Mare ”

Si scrive sempre per una qualche ragione. Per mero “compiacimento del proprio ego” (cit.) o, all’opposto, per comunicare messaggi di varia tipologia, a livelli di partecipazione diversi dettati dalla mission (se è presente! ) dell’autore. Per la valenza terapeutica spesso contenuta nel mettere nero su bianco idee e situazioni ma anche per l’esigenza di condividere con altri stati d’animo, pensieri, riflessioni sulla vita sperando di poter raggiungere lo strato più profondo della sensibilità del lettore. Una sorta di atto estremo di egoismo o di pura generosità, a seconda della prospettiva da cui lo scrittore si pone attingendo dalla propria versatilità.

Per me è soprattutto la possibilità di provare a parlare di uomini e donne cogliendoli nella loro interiorità. Con un’attenzione particolare per una prospettiva au feminin, dovuta, forse, al fatto di trattare con maggior consapevolezza argomenti conosciuti.

Ci sono poi ragioni  inespresse, e cioè motivazioni più o meno consapevoli, che provengono dal vissuto e da tutto ciò che chi scrive ha avuto possibilità di esperienziare nell’immediato e nel tempo. Come ho già sostenuto, non credete mai  a un autore che vi racconti di aver concepito un’opera di pura fantasia. L’autobiografico c’è sempre, volenti o nolenti, costituendo il sostrato da cui partire prima di prendere il volo. Un aggancio realistico indispensabile, a mo’ di trampolino di lancio, per proseguire con scioltezza  e autonomia maggiori nell’intreccio narrativo.

Per il I Concorso Letterario “Donne che fanno testo” bandito dal Messaggero ho deciso di scrivere un racconto breve intitolato “Il mare dalla finestra” in cui le mie riflessioni scrittorie si fondono con idee, voci, immagini attinte dal quotidiano altrui e proprio, partendo dall’incipit proposto dalla giuria. Delinenando un’immagine femminile pronta a spezzare le catene prendendo le distanze da una storia affettivo-sentimentale insoddisfacente per riappropriarsi della sua vita con fragilità e insieme determinazione come spesso può accadere. Con una rinata consapevolezza personale a cui il destino ha deciso di dare una mano.

http://www.donnechefannotesto.it/pdf/Il%20mare%20dalla%20finestra%20.doc%20finale.pdf

“Viaggio in Jugoslavia. Zagabria: giovane donna in costume da bagno seduta su una delle terrazze che costeggiano gli argini del fiume Sava”, F. Patellani