Ninna Nanna

Il Festival del Tratturo è un evento organizzato annualmente dall’Associazione Tratturo Magno 4.0 nata in terra d’Abruzzo nel 2021 per valorizzare e rigenerare in chiave “green” il territorio e il tracciato dell’antico Tratturo Magno. Questa lunghissima e antica via erbosa in epoca passata univa, infatti, Abruzzo e Puglia collegando L’Aquila al Tavoliere delle Puglie. Costituiva il percorso principale per la transumanza, ovvero il trasferimento stagionale di greggi alla ricerca di pascoli più ricchi specialmente nei mesi freddi in cui era difficile trovare per loro sostentamento ad alta quota. Al Festival è connesso un premio letterario internazionale intitolato “Il Tratturo Magno” articolato in quattro sezioni (poesia, prosa, saggi e progetti) a cui ho partecipato quest’anno con un racconto breve inedito intitolato “Ninna Nanna” classificatosi al secondo posto.
È la storia dell’amore di Ninetta per Giovanni, lei bracciante e lui pastore, appartenenti a due mondi differenti ma complementari uniti nel desiderio di condividere la stessa sorte con entusiasmo e passione.
Buona lettura a tutti

A presto

Lucia  

Ninna Nanna

Tegne na criatura ch’è nu sciore,
sope ssu sciore ascegne na farfalla,
la farfalla te porta argento e iore:
addùrmete, trasore.*

Ninetta baciò tenera il suo bambino. Il giorno in cui aveva conosciuto il padre di suo figlio era d’ottobre e i filari della vigna erano già stati spogliati dei loro grappoli bruni. Le piaceva spizzicare di nascosto qualche acino dalle ceste dei braccianti come lei intenti con pazienza in quell’impresa. Statta soda, era la raccomandazione più frequente di sua madre impegnata con pazienza in quell’arte antica ma lei la ignorava e continuava sfrontata come niente fosse. Ninetta preferiva la vendemmia alla trebbiatura del grano o alla raccolta delle olive. Le piaceva quell’aria festante di fine estate che si diffondeva lenta nella masseria permeando allo stesso identico modo l’operaio e il vignaiolo esperto. I canti e i balli, le tavolate serali a fine coglitura quando l’aria era ancora dolce e i grilli e le lucciole continuavano a percepirsi nel buio della notte. Lo zelo dei lavoranti, intenti a pigiare nei tini l’uva di cui lei, piccolina, riusciva solo a sentire il profumo oltre l’orlo di legno consunto. Era stata una sorpresa quel luccichio di occhi scuri nell’imbrunire della campagna oramai al tramonto. Lei gli si era avvicinata impavida ma l’altro con un dito sulle labbra le aveva chiesto il silenzio. Voleva restare invisibile ai margini di quell’allegria frutto di lunghe giornate di lavoro altrui, lui che nella vita non era contadino ma pastore. E lei l’aveva assecondato. Non aveva detto una parola né lo aveva tradito consapevole che loro due appartenevano a due mondi diversi anche se complementari. Giuva’ aveva fatto la sua comparsa ufficiale alla masseria qualche giorno dopo con una fiscella di ricotta in mano per barattarla con un po’ di pane appena fatto. Il cane legato alla lunga catena di ferro gli aveva ringhiato e poi abbaiato contro ma lui non s’era scomposto avvezzo com’era alla fama che precedeva a torto o a ragione quelli come lui. Gli uomini erano in campagna, impegnati in altre fatiche, le donne a panificare. L’unica ad andargli incontro era stata quella ragazza esile simile a na iattaredda, una gattina, come sua nonna l’appellava spesso con affetto. Pelle luminosa appena scurita dalla vita nei campi, occhi celesti come l’acqua sulfurea di un fiume che scorreva nei pressi del suo paese in Abruzzo e capelli lisci sfuggiti alla treccia. Incredibilmente biondi, schiariti dal sole che il fazzoletto d’ordinanza in testa non era riuscito a contenere. Lei aveva finalmente notato il vigore delle sue braccia fasciate in una camiciola di tela tessuta in casa, i calzoni corti al ginocchio, i capelli neri e ricci lasciati liberi e non nascosti sotto il cappellaccio informe che portava piegato in tasca. Se l’era tolto per lei, per non spaventarla e per rispetto. Un pezzo di roccia in parte ricoperta da incrostazioni di quarzo come quelle che da bambino trovava in collina e poi barattava col figlio del farmacista del paesello natio in cambio di qualche biglia: luccicante sotto il sole, comunissima all’ombra. Quello erano loro due, una pietra anonima lui abbellita da una promessa di splendore lei.

Nisciune penza che, senza li ruve
e spine, non sciurisce la staggiona,
e senza neve, senza lampe e trone,
non po menì lu magge bell’e nnove.*

All’inizio avevano fatto all’amore in modo sommesso, Ninetta e Giovanni, attenti che nessuno scoprisse che erano quasi una cosa sola. Giuva’ era accampato in una casupola con altri pastori e le greggi a poca distanza dalla masseria nei pressi del tratturo. Ma davvero tiene un castello lu patrone toa?, gli aveva chiesto lei mentre con gli occhi azzurri sgranati ascoltava le storie che lui le raccontava su di sé e sulla sua terra. Scine, sì. Giovanni l’aveva guardata quasi in tralice. Quella citiletta che sembrava scomparire al primo soffio di vento si sorprendeva delle parole di uno come lui, diventato pastore per campare sua madre e i suoi fratelli, avvezzo alle intemperie della natura e a quelle degli uomini… Ma la tenerezza era prevalsa e lui se l’era prima mangiata con gli occhi e poi l’aveva stretta a sé. Ninetta era temeraria. Per carpire qualche momento di complicità tra di loro era capace di inventarsi le faccende più disparate: la necessità di cogliere un po’ di cicorietta selvatica nei terreni limitrofi, di cui suo padre, Andune u sangiuvanner, era ghiotto; la fantomatica ricerca di un coniglio scappato dalla garenna lasciata aperta da qualcuno per sbaglio; il giorno di mercato settimanale in paese a cui di recente non mancava mai e che le serviva per incrociarsi quasi per magia col suo innamorato. Quel pomeriggio aveva convinto Mariuccia, sua coetanea, ad accompagnarla nell’oliveto più lontano dalla masseria proponendole di raccattare da terra e dai rami più bassi qualche oliva risparmiata dalla bacchiatura in cambio di una blusetta ancora nuova che cominciava ad andarle stretta e che all’altra piaceva assai. L’amica aveva accettato ma poi aveva storto la bocca quando aveva riconosciuto la figura alta e muscolosa di Giovanni. Aveva però abbozzato limitandosi a sbirciarli a doverosa distanza con un misto di invidia e curiosità mentre qualche oliva la coglieva davvero per riportarsela a casa. Lei lo sposo non lo teneva, ma cionondimeno aveva deciso di essere solidale con la sua compagna, almeno per quella volta. Giuva’ e Ninetta avevano continuato a fabbricare castelli di carta baciandosi con trasporto dietro il muretto di pietra a secco tra l’imbarazzo e il desiderio. Nessuno si era accorto del sopraggiungere di Antonio che voleva vederci chiaro, insospettito dallo zelo mostrato da quella figlia a cui il lavoro di raccattatura non era mai piaciuto.

“Quanno te vòde, mi sento ‘u core ‘mbacce, Nine’.”

“Nun pozze cchiu stà’ senza ‘e te, Giuva’.”

Possibile che si fossero spinti così in là? Possibile. Ma proprio con un pastore doveva finire sua figlia? Con uno come lui un pastoricchio,  arte de mazze, nu frustire bbruzzèse di cui poco si conosceva. Un anno lì da loro e l’anno successivo chissà dove.

Uaglio’, e mo’ t’a ddà piglià

E non era, la sua, una richiesta ma un’imposizione. Ninetta si era alzata di scatto ravviandosi i capelli e lisciandosi la camiciola scrollandosi di dosso polvere e senso di colpa mentre Giovanni le si metteva davanti con fare protettivo sfidando la collera dell’altro trattenuto a stento da un bracciante. Si erano guardati velocemente negli occhi, pieni di lacrime quelli di lei, di orgoglio e ostinazione quelli di lui scambiando una promessa muta prima che il padre incollerito la trascinasse via.

«Nun m’scuordà, Giuva’»

«Te vôi bene, Nine’»

Il mucchietto di olive picchiettate di marrone di Mariuccia era rimasto sotto il tronco di una pianta. Abbandonate in fretta, sarebbero diventate cibo per qualche animale selvatico o qualche uccello. Ninetta sospirò. Non era così che aveva immaginato il giorno della sua richiesta di matrimonio. Sapeva bene che dalla stanzetta che divideva con i suoi fratelli ci sarebbe uscita solo nel giorno delle nozze celebrate di sicuro alle prime luci dell’alba com’era d’uso per quelle come lei compromesse che avevano necessità di riabilitarsi agli occhi del mondo assumendo il ruolo di moglie senza troppo clamore.

La vucelluzza inte lu nide è stracqua,

lu nide è calle mo che sta la mamma,

la mamma l’ha purtate n’atu sciore:

addùrmete, trasore.*

Fare la transumanza con suo marito, il suo mezzo pane, era stato faticoso ma meraviglioso. Ninetta aveva conosciuto la struggente bellezza del cielo stellato sopra di loro, il sapore deciso della micischia masticata come companatico quando non c’era niente di meglio da mangiare. Il tepore degli agnellini appena nati e il freddo penetrante delle ultime folate di strina, come Giuva’ chiamava il grecale. Le era talmente piaciuto da tacere a tutti, marito incluso, il motivo di quella pancia che cresceva sotto la veste dall’orlo sempre più corto. Ma poi si era arresa e quel bambino aveva scelto di partorirlo accarezzata dai primi refoli di favonio attorniata dalle donne di famiglia.

La vi’, la vi’, camina na mureia
sope la nannavicula ‘nnucenta.
Addùrmete, trasore, non è nente:
iè l’ombra mia che te nazzecheia.*

Sua madre lo ninnava quando lei era stanca per il sonno che le mancava per la fame continua di latte e di vita di quel piccino desiderato più dell’aria. E intanto la mala fortuna se ne andava sconfitta da un amore che non temeva né spazio né tempo.

Bbellu comu u sule, stu criatur: brunu cu l’uocchi chiaru, u piantu putenti, le bracce versu l’alte cu li pugni chiusi. Pare ca cerca giustizia pe’ tutti, era stato il commento di Concetta la massara forestiera, sua commare d’anello. Ninetta aveva sorriso pensando che presto padre e figlio si sarebbero finalmente conosciuti e che a lei in dono sarebbe toccato l’abbraccio di un uomo forte e silenzioso che sapeva di aria buona, di sole, di terra e di speranza. Di preziosità segrete solo a lei note.

Lucia Guida

*
Le strofe citate nel racconto, presentate dall’autrice in ordine sparso per questione di coerenza narrativa, sono tratte dalle poesie di Joseph Tusiani “Verne bbone pane megghie” e “Ninna nanna”  e parte della raccolta  Storie dal Gargano, Poesie e narrazioni in versi dialettali (1955-2005) a cura di Antonio Motta, Anna Siani e Cosma Siani, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud (2006)

"Popolana abruzzese", Francesco Paolo Michetti (1895)

Recensioni d’antan. “Questo indomito cuore” di Pearl S. Buck

Secondo anno consecutivo come articolista freelance per Mentinfuga, rivista web  indipendente con la prima recensione di un romanzo della scrittrice americana Pearl S. Buck.
Buona lettura a tutti
A presto


RECENSIONI D’ANTAN. “QUESTO INDOMITO CUORE” DI PEARL S. BUCK

Che cosa accade quando in una vecchia libreria domestica trovi libri di grande narrativa straniera nelle loro prime edizioni italiane? Incuriosita provi a leggerli. E scopri che accanto alla traduzione che rispecchia fedelmente gli standard linguistici dell’epoca c’è la freschezza e l’attualità di capolavori senza tempo. Ecco Questo indomito cuore di Pearl S. Buck.
Susanna Gaylord è una talentuosa e giovane ragazza americana. Vive in una piccola città americana di provincia negli anni trenta in una famiglia composta da padre, professore universitario e musicista mancato, madre e Maria, personaggio emblematico, che mal sopporta il fatto di avere accanto a sé una sorella così geniale. Susanna si percepisce da sempre come una outsider nell’ambiente di provenienza pur mantenendo un basso profilo per rendersi bene accetta al suo entourage; il suo sogno è quello di realizzarsi come Donna formando una famiglia con Marco, suo ex compagno di scuola che la adora da sempre, continuando in parallelo a coltivare il dono artistico che possiede da bambina conducendo un’esistenza tranquilla in un contesto urbano in cui poco posto è lasciato ai desideri e alle aspirazioni femminili. Sceglie di diventare madre perché considera la maternità un ulteriore modo creativo per infondere la vita che scorre attraverso le opere in creta che realizza.
Queste velleità trovano grande risonanza in suo marito che pur rendendosi conto della disparità culturale che li separa è ben intenzionato a supportare per quanto possibile sua moglie sino alla fine dei suoi giorni, arrivando a sacrificare la sua vita così come Susanna, quanto meno all’inizio della loro biografia coniugale ha fatto, negandosi opportunità di crescita all’estero.  La perdita del coniuge dà a Susanna, che non vuol restare intrappolata in un’esistenza piatta e incolore, la forza di intraprendere quel viaggio di rifinitura artistica e culturale a Parigi tanto caldeggiato da uno dei suoi maestri, l’affermato scultore Barnes. Susanna parte accompagnata da Giovanna, tata tuttofare dei suoi figli Giovanni e Marzia, con poche sostanze e molto entusiasmo. A Parigi oltre ad affinare la sua arte ha la possibilità di riscoprire la sua femminilità grazie a Blake Kinnaird, americano, artista a tempo perso appartenente a una facoltosa famiglia che se ne innamora e in poco tempo la convince a sposarlo. Rientrata negli Stati Uniti Susanna mal si adegua alla routine tipica di un’agiata moglie newyorkese e a un sentimento in cui riconosce una certa manipolazione da parte dell’uomo che ha accanto. Pian piano riprende la sua attività di scultrice incoraggiata da Michele, giovane pittore estremamente capace anche se non particolarmente convinto della sua abilità, e dal suo antico mentore Barnes ottenendo risultati notevoli sino a diventare un’artista affermata a dispetto di una società che mal sopporta donne dai meriti particolari capaci di vivere di luce propria invece che di luce riflessa. Il personaggio di Susanna è dalla Buck ben tornito; scolpito con la stessa abilità che la sua eroina mette nella forza con cui si cimenta materialmente e simbolicamente nella creazione di statue dalla grandezza imponente ricavate da blocchi di marmo pregiato, mentre il suo secondo marito resta prigioniero altrettanto metaforicamente in un’arte sterile che vorrebbe essere innovativa ma che non vi riesce restando mero esercizio virtuosistico di abilità fine a sé stessa. Susanna, al contrario, fa tesoro di quanto la vita le ha consentito di apprendere sublimandolo in opere in cui con sapienza coniuga tecnica e capacità di interpretare l’anima di chi ritrae creando uno stile suo, personale e particolare, che le consente di ottenere il plauso di critici importanti come Hart e Barnes. Il sacrificio della sua vita privata (divorzierà da Blake riprendendosi quella parte di sé stessa di cui il marito l’aveva privata tentando di adeguarla alla sua idea preconcetta di compagna di vita)  le consentirà di vivere in equilibrio con la propria interiorità, portando con sé soltanto gli affetti più cari: i suoi due figli, la fedele governante, sua madre, Barnes. Quelle persone che in maniera disinteressata le hanno consentito di realizzarsi come Donna ma soprattutto come Persona in tempi in cui la società e le consuetudini avrebbero voluto per lei strade diverse. Con un ritorno felice al punto di inizio di questa storia: la fattoria in cui ha intrapreso i primi passi d’artista ai tempi del primo matrimonio, in un ambiente lontano dalla città in cui è nata abbastanza per continuare a esercitare talento e abilità in una riconquistata prospettiva esistenziale essenziale e feconda.
Lucia Guida

*Letto nell’edizione del 1940 di Arnaldo Mondadori per la collana Medusa

Note biografiche su Pearl S. Buck (ndr)

Pearl S. Buck nasce nel 1892 a Hillsboro, West Virginia. Figlia di migranti di origine europea si trasferisce da bambina con i suoi genitori missionari della chiesa presbiteriana in Cina dove assorbe molto della civiltà del popolo con cui vive a stretto contatto. Nonostante i frequenti rientri in America conserva un legame forte con la Cina ritornandovi più volte dopo aver conseguito negli Stati Uniti la laurea in letteratura inglese che le varrà la docenza in quest’ambito all’Università di Nanchino prima di riparare successivamente in Giappone. Vincitrice dell’ American Academy of Arts and Letters , del premio Pulitzer nel 1932 per il romanzo The Good Earth e successivamente nel 1938 del premio Nobel per la letteratura. Sensibile a tematiche sociali con riferimento soprattutto all’infanzia deprivata dei bambini di tutto il mondo fonda la “Pearl S. Buck International”. Lascia un’eredità letteraria consistente pari a oltre ottanta opere di varia tipologia di cui alcune scritte sotto pseudonimo. Muore nel Vermont nel 1973 di cancro chiedendo che il suo nome venga riportato sulla lapide in caratteri cinesi come omaggio alla sua patria di elezione.

NB: L’articolo in originale è qui