Il Buon Anno d’Autore

A principio d’anno una poesia d’autore famosa per voi per propiziare questo passaggio di consegne dal vecchio al nuovo.
E poi,a breve,tante novità di scrittura che mi riguardano.
Auguri di buona vita a tutti

A presto

Oda al primer día del año

Lo distinguimos
como si fuera
un caballito
diferente de todos
los caballos.

Adornamos
su frente con una cinta,
le ponemos
al cuello cascabeles colorados, y a medianoche vamos a recibirlo como si fuera
explorador que baja de una estrella.

Veo el último
día de este
año en un ferrocarril, hacia las lluvias
del distante archipiélago morado, y el hombre
de la máquina,
complicada como un reloj del cielo,
agachando los ojos
a la infinita
pauta de los rieles,
a las brillantes manivelas,
a los veloces vínculos del fuego.

Oh conductor de trenes desbocados
hacia estaciones
negras de la noche.
este final
del año sin mujer y sin hijos
no es igual al de ayer, al de mañana?
Desde las vías
y las maestranzas
el primer día, la primera aurora
de un año que comienza
tiene el mismo oxidado
olor de tren de hierro:
y saludan
los seres del camino,
las vacas, las aldeas,
en el vapor del alba,
sin saber que se trata
de la puerta del año,
de un día
sacudido
por campanas, adornado con plumas y claveles.

La tierra no losabe:
recibirá este día
dorado, gris, celeste,
lo extenderá en colinas,
lo mojará con
flechas de transparente
lluvia, y luego
lo enrollará en su tubo,
lo guardará en la sombra.

Así es, pero
pequeña puerta de la esperanza,
nuevo día del año, aunque seas igual
como los panes
a todo pan,
te vamos a vivir de otra manera,
te vamos a comer, a florecer,
a esperar.

Día del año nuevo,
día eléctrico, fresco,
todas las hojas salen verdes
del tronco de tu tiempo.

Corónanos con agua,
con jazmines abiertos,
con todos los aromas
desplegados,
sí, aunque sólo seas un día,
un pobre día humano,
tu aureola palpita
sobre tantos cansados corazones,
y eres, oh día nuevo,
oh nube venidera,
pan nunca visto,
torre permanente!

Pablo Neruda

 

Il primo giorno dell’anno

Lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo la fronte
con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte
lo andiamo a ricevere
come se fosse
un esploratore che scende da una stella.

Come il pane assomiglia
al pane di ieri,
come un anello a tutti gli anelli: i giorni
sbattono le palpebre
chiari, tintinnanti, fuggiaschi,
e si appoggiano nella notte oscura.

Vedo l’ultimo
giorno
di questo
anno
in una ferrovia, verso le piogge
del distante arcipelago violetto,
e l’uomo
della macchina,
complicata come un orologio del cielo,
che china gli occhi
all’infinito
modello delle rotaie,
alle brillanti manovelle,
ai veloci vincoli del fuoco.

Oh conduttore di treni
sboccati
verso stazioni
nere della notte.
Questa fine dell’anno
senza donna e senza figli,
non è uguale a quello di ieri, a quello di domani?

Dalle vie
e dai sentieri
il primo giorno, la prima aurora
di un anno che comincia,
ha lo stesso ossidato
colore di treno di ferro:
e salutano gli esseri della strada,
le vacche, i villaggi,
nel vapore dell’alba,
senza sapere che si tratta
della porta dell’anno,
di un giorno scosso da campane,
fiorito con piume e garofani.

La terra non lo sa: accoglierà questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline
lo bagnerà con frecce
di trasparente pioggia
e poi lo avvolgerà
nell’ombra.

Eppure
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani
a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire,
a sperare.

Ti metteremo
come una torta
nella nostra vita,
ti infiammeremo
come un candelabro,
ti berremo
come un liquido topazio.

Giorno dell’anno nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte le foglie escono verdi
dal tronco del tuo tempo.

Incoronaci
con acqua,
con gelsomini aperti,
con tutti gli aromi spiegati,
sì,
benché tu sia solo un giorno,
un povero giorno umano,
la tua aureola palpita
su tanti cuori stanchi
e sei,
oh giorno nuovo,
oh nuvola da venire,
pane mai visto,
torre permanente!

  Pablo Neruda, Terzo libro delle odi, (1957)

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photo credits: isolafelice.forumcommunity.net

 

Il giardino di Marinella

A volte basta poco per sentirsi partecipi della Natura. Per Marinella possedere la sua essenza attraverso i fiori del suo giardino.
Un racconto breve che parla della diversità in termini reali e autentici di valore aggiunto.
Buona lettura

A presto

 

Il giardino di Marinella

Marinella coglie un fiore e poi lo annusa; è un narciso selvatico, piccolo e delicato. In paese è usanza andare a coglierli nel bosco a Pasquetta, a frotte, per venderli agli angoli di strada a qualche forestiero arrivato lì per caso, in transito prima di raggiungere il borgo del frate cappuccino santo.

Lei non ha mai fatto parte del gruppo di ragazzotti schiamazzanti che, a piedi, s’inerpicano per la montagna, violando pascoli centenari alla ricerca dei sucamele, fiori che, a reciderne la corolla di netto, lasciano colare in bocca stille dolcissime di nettare divino. A Marinella non piace condannarli a morte repentina; preferisce coglierli con garbo nel terreno incolto della Forestale e poi metterli ordinatamente in una vecchia brocca a occhieggiare in cucina o nel tinello perché possano spandere la loro fragranza dolce per l’aria circostante.

In quella brocca antica, piena di crepe, in cui due contadinelle si contendono la scena, coi i loro canestri e i loro sorrisi persi in chissà quale universo lontano, trovano posto fiori d’ogni tipo a seconda della stagione. Le più penalizzate sono certamente le orchidee selvatiche, meraviglie della natura in miniatura. Tentano disperatamente di mantenersi a galla, annaspando tra fiori di campo forse meno rari ma di sicuro più sfrontati, in grado di sovrastarle. Il gambo esile non permette loro di emergere e questi fiori così esotici, per uno scherzo della natura sbocciati sulla terra arida di montagne avare, devono davvero a caro prezzo contendersi l’attenzione dei visitatori di quella casetta arrampicata, come tutto il resto intorno, sulla fiancata della roccia.

La primavera è anche il tempo degli iris azzurri e gialli dai petali setosi. Un delitto accarezzarli troppo. Si rischia di infastidirli e di condannarli a un veloce oblio. Marinella si è chiesta più volte se sia davvero il caso di cogliere tutta quest’opulenza fiorita o se, invece, sia preferibile lasciarla a dimora nella terra umida e bruna quando è la pioggia a irrigarla e a renderla soffice al passo.  Ne ha concluso che, forse, ai fiori piace essere coccolati dal suo sguardo amorevole piuttosto che affievolirsi lentamente sotto aria, sole, vento implacabili e rudi come i luoghi che li accolgono.

Un altro fiore che adora è il croco, violetto col suo cuore di fuoco. E’ una gioia leggera vederlo spuntare dal terreno ancora ricoperto di neve. Segna con brio e un pizzico di voluttà il passaggio dall’attimo di transizione invernale, fatto di silenzio, uniformità e riflessione, a quello di ripresa lenta ma efficace verso la bella stagione, i giorni luminosi e l’aria più mite. Il croco ha vita brevissima che lei cerca di procrastinare poggiandolo, appena divelto con amorevolezza, sul palmo di una mano. Poi lo lascia navigare sulla superficie ridotta di una tazza da tè scompagnata, poggiata sul comò della sua camera da ragazza di un tempo, tra una spazzola dall’impugnatura di osso, una boccetta di profumo con lo spruzzatore a pompetta e una madonnina sottile vestita di azzurro dallo sguardo mesto rivolto verso il basso.

Marinella non ama discriminare i suoi fiori.

Anche un comune bocciolo di tarassaco o un anemone selvatico giallo o celestino possono entrare a far parte dei suoi ricchi bottini floreali colorando le stanze della sua quotidianità. A volte il suo entusiasmo si manifesta colmando di natura odorosa anche le tasche del grembiulone confezionatole da sua madre, ora informe e di uno sbiadito rosa, sempre pronto a coprire la maglietta e la gonna regolamentari che le fanno assumere l’aria un po’ buffa e fané di una bimba d’epoca camuffata da donna, i capelli castani inframezzati da fili argentati e tagliati corti, alla spalla, lisci come fili d’erba in attesa di essere piegati da un refolo di vento indulgente.

Il grembiule le serve per non sporcarsi di terra, cosa che capita in realtà assai di rado; procurandole, per contro, la soddisfazione di sapere sempre di aria buona e pulita, di campagna e di sole, fiore tra i fiori ricercati con certosina pazienza e poi collezionati in ogni contenitore possano essere infilati. Rimpiazzati di continuo, al minimo segno di tempo che scorre, da altra natura fresca, viva, vitale. Come la luce che le fluisce dallo sguardo color ambra, da tigre ridotta in cattività e tuttavia mai irreggimentata in uno stile di vita scontato: quello dei clienti dell’unico bar del borgo, attratti lì dalla frescura estiva ma pronti a ripartire alle prime foglie d’autunno, al vento implacabile e alle rigide temperature invernali.

Qualcuno sorride nel vederla passare ma soltanto perché vuol vedere ciò che ha deciso di vedere. A lui Marinella non regalerà mai un fiore, né prenderà con impeto la mano per chiedergli silenziosamente di accarezzare una corolla di velluto dal mazzolino che conserva gelosa in tasca. I suoi pensieri migliori, le sue primizie in fiore sono tutte per la bimba che le ha offerto una caramella all’anice, succosa e dolcissima, e che non ha avuto paura di cogliere il suo invito muto per affondare la manina nei tesori frutto del suo duro lavoro di raccolta giornaliera.

Oggi il cielo è grigio e l’aria sa di pioggia.

Marinella guarda seria il paesaggio uniforme che ha davanti ma non è triste al pensiero che dovrà fare a meno della sua passeggiata nei campi perché sua madre non vuole che si bagni, potrebbe anche ammalarsi. Sa che nella sua vita ci saranno tante altre giornate colorate di vento e di sole nell’aria frizzantina di aprile. Tanto le basta.

Sorride piano mentre accudisce tenera i fiori colti il giorno prima. Sa che il suo amore e un po’ d’acqua fresca faranno il resto, aiutandoli a sopravvivere e a farle da contrappunto per un altro po’. Fino al prossimo volo nella natura, fino al prossimo amorevole e paziente viaggio.

Poi guarda con stupore rinnovato le gocce argentine di pioggia che rigano i vetri, battendo sulle tegole del tetto per tenerle compagnia come amiche sincere, presenti al bisogno ma pronte ad andar via alla prima schiarita, ritmando la sua felicità dell’oggi con semplicità e sincerità.

Lucia Guida

 

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Silvia Martignago, ‘Fiori selvatici’

L’è ‘n gran bel Proust! Oggi in compagnia di Lucia Guida.

Un’intervista sui generis del 21 novembre 2015 di Gaia Conventi, scrittrice e blogger ferrarese, alla sottoscritta sul suo blog “Giramenti” . Con leggerezza (ma anche no!)  si parla di cose importanti e altre che lo sono un po’ meno. Nella vita, scrittoria e non.
Buona lettura e a presto

L’È ‘N GRAN BEL PROUST!

L’è ‘n gran bel Proust! Oggi in compagnia di Lucia Guida.

Torna “L’è ‘n gran bel Proust”, oggi pigliamo uno spritz con Lucia Guida: «Acquario ascendente Gemelli, nativa di S. Severo (FG), vive e lavora a Pescara come docente di Lingua Inglese. Ha pubblicato racconti brevi in collane di autori vari e come solista per Nulla Die nel 2012 la raccolta di racconti Succo di melagrana e poi nel 2013 il suo romanzo d’esordio La casa dal pergolato di glicine. Cura un blog nella piattaforma di WordPress, una pagina di autrice su LiberArti Reader Social Artist e due pagine dedicate ai suoi libri su Facebook. È alla ricerca dell’editore e dell’uomo ideale ed è pronta a scommettere su chi dei due incontrerà per primo».
Donna interessante, mi spiace non poterla sposare e pubblicare… ma voi candidatevi. Anche per rispondere al Questionario di Proust, ovviamente.

Il Questionario di Proust e Lucia Guida

1. Qual è il colmo della miseria?
Sforzarmi di essere semiseria. Io sono serissima, sempre e comunque.

2. Dove le piacerebbe vivere?
In un paese caldo d’estate. In un paese nordico d’inverno. Giusto per contraddire i meteopatici e le signore di età alle fermate dell’autobus.

3. Il suo ideale di felicità terrena?
Nutella a colazione, pranzo e cena. E una bilancia compiacente come alleata.

4. Per quali errori ha più indulgenza?
Per i miei, manco a dirlo. E per quelli dei miei amici.

5. Qual è il suo personaggio storico preferito?
Anita Garibaldi, donna assai paziente col suo Giuseppe. La pazienza non è mai stata il mio forte con gli uomini.

6. I suoi pittori preferiti?
Kandisky, lo trovo molto trendy e bonton. Perfetto nei salotti bene cittadini.

7. I suoi musicisti preferiti?
Quelli ascoltati nei salotti bene di cui sopra. Fanno molto pendant con la pittura astratta.

8. Quale qualità predilige in un uomo?
La concretezza. Se ho voglia di giocare con le parole, so benissimo farlo da sola.

9. Quale sport pratica?
Relaxing a oltranza sul divano di casa. Almeno per tre serate a settimana.

10. Sarebbe capace di uccidere qualcuno?
Sì, se fosse possibile farlo con un sorriso a trentadue denti.

11. Qual è la sua occupazione preferita?
Prendere in giro con intelligenza e ironia la gente. Ma solo quella che se lo merita.

12. Chi le sarebbe piaciuto essere?
Giovanna d’Arco. Senza rogo, però. Sono intollerante all’odore della legna bruciata.

13. Qual è il tratto distintivo del suo carattere?
La tolleranza zero verso i rompiscatole (ma non lo diciamo all’uomo di cui sopra…).

14. Qual è il suo principale difetto?
Sono troppo buona. Lo dico sul serio, eh…

15. Qual è la prima cosa che la colpisce in un uomo?
Diciamo che degli uomini ho una visione d’emblée. In genere è alla fine che focalizzo i particolari. Alcune volte porta bene, altre un po’ meno.

16. Qual è il colore che preferisce?
Azzurro grigiolino e grigio azzurrino.

17. Qual è il suo fiore preferito?
Il crisantemo. Posso giocare a “m’ama, non m’ama” più a lungo e con più soddisfazione.

18. Quali scrittori preferisce?
Quelli maledetti e maledettamente bravi.

19. Quali poeti?
Quelli malinconicamente poetici.

20. Quali sono i suoi nomi preferiti?
Debora, Pamela per le femminucce. Mi piaceva moltissimo giocare con le Barbie da bambina.
Per i maschietti vado sul tradizionale: Asdrubale e Aristide, adoro le allitterazioni.

21. Che cosa, più di tutto, detesta?
La semplicità. Amo tutto ciò che è complicato. Se non è dannatamente complicato non fa per me: nella quotidianità spicciola, in amore, nella scrittura.

22. Quale talento naturale le piacerebbe possedere?
Saperle raccontare con sapienza ed essere creduta a ogni battito di ciglia. Un talento che non ho ancora imparato a coltivare. Ma prometto d’impegnarmi a farlo. Nella vita bisogna sempre tendere a migliorarsi.

23. Crede nella sopravvivenza dell’anima?
Ci credo e questa è la mia peggior condanna. O forse salvezza, se questo significherà riuscire a togliermi qualche sassolino dalla scarpa in versione esoterica

24. Di che morte vorrebbe morire?
Dolce, dolcissima: affogata in un mare di panna screziata di cioccolata fondente e croccantino.

Gaia Conventi

 

L’intervista originale la potete trovare qui

 

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Donne per le Donne

Cari amici, in questo periodo ho avuto bisogno di tempo per mettere a punto più di una situazione personale e mi scuso con voi per essere stata poco presente. Per riflettere con attenzione sulle cose della vita c’è bisogno di spazio e di tempo infiniti. Sono arrivata a delle conclusioni e farò in modo che non restino lettera morta ma che si concretizzino in azione: pensare senza agire non ha alcun senso.
Riparto come al solito da me e da quello che mi sento di offrire agli altri.

Una bellissima iniziativa a cui sono stata invitata a partecipare e che voglio segnalare qui da me per gli amici blogger dell’area di Pescara è l’evento del 28 novembre 2015 presso il Circolo Arci  Babilonia.

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L’evento   si propone di sensibilizzare al fenomeno della violenza di genere attraverso arti e performance al femminile di pittura, poesia, prosa e danza, perfettamente integrate da una lettura psicologica ad hoc.

Un po’ di noi partecipanti.

In rigoroso ordine alfabetico iniziamo da Maria Grazia Di Biagio, poeta.

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Lucia Guida, scrittrice

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Ludovica Lufino, maestra e ballerina di danze orientali

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Vilma Maiocco, pittrice

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Chiara Mastrantonio, psicologa – psicoterapeutaimg108

Vi aspettiamo.

Lucia, Maria Grazia, Ludovica, Vilma, Chiara

‘Quando si violentano, picchiano, storpiano, mutilano, bruciano, seppelliscono, terrorizzano le donne, si distrugge l’energia essenziale della vita su questo pianeta. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile e domato.’

Eve Ensler

Meglio la gallina domani o l’uovo oggi? – Piccole riflessioni a mezza voce su scrittura e lettura

Qualche sera fa in chat su un sito social si parlava di editoria e di scrittura con un piccolo editore indipendente. Del fatto che sia l’una che l’altra non vivessero tempi felici e di come questa crisi toccasse indistintamente piccoli editori illuminati e autori non omologati.

La discussione è andata avanti per un po’. Io portavo avanti le mie ragioni scrittorie, l’editore le sue di divulgatore di idee e parole. Procedendo su due strade parallele alla fine ci siamo incontrati a un bivio. E manco a parlarne, il nostro trait d’union è stato il lettore.

Il ragionamento, assai semplice, contemplava la difficoltà di pubblicare buoni testi che potessero anche incontrare il favore del pubblico soprattutto da parte dei piccoli editori. Libri che potessero gratificare, quindi, autore ed editore. E la possibilità, molto più diffusa di quanto non si pensi, di stampare libri da parte di major assolutamente impubblicabili. Accolti, tuttavia, dal grande pubblico dei lettori con quello che io chiamo “favore di gloria riflessa”: legittimati, cioè, dal provenire da una scuderia di per sé garanzia di qualità legata a case editrici già conosciute e apprezzate.

Mi è venuto in mente qualcosa che ho letto in web diverso tempo fa in un articolo di scrittura. Si parlava di  quanto la comunicazione, in maniera di pubblicizzazione e propaganda editoriale, fosse importante. Di come un testo, a prescindere dalla sua bontà intrinseca, avesse comunque bisogno di essere conosciuto e diffuso per essere apprezzato. E che, paradossalmente, una pubblicità martellante o l’esposizione di un libro accanto ai pacchetti di caramelle, cioccolatini e chewing gum  ai lati delle casse di un supermercato spesso giocasse molto a favore facilitando l’acquisto di testi di qualunque tipo.

L’editore, indipendente ma grintoso, manifestava il proprio disagio nel compiere scelte di qualità a sprezzo delle scelte di mercato compiute da grandi gruppi editoriali, più ammiccanti e meno “di sostanza”, certamente favorite dalla prospettiva di proporre al grande pubblico su un terreno ben preparato e concimato dal fatto di vantare una lunga tradizione editoriale. Per altro con ottimi margini di guadagno. Molto maggiori di quelli da lui ottenuti per il medesimo autore a proposito di un testo formidabile e di spessore, commercializzato nel passato da lui con minor successo. La conclusione da me tratta, drastica forse per qualcuno, è stata che non gli conveniva colpevolizzarsi per aver incentivato un testo di qualità che aveva venduto in misura minore rispetto alle sue aspettative se, alla fine, i buoni lettori si potevano contare sulla punta delle dita.

Passano un paio di giorni e in un momento di pausa mi capita di intrattenere una conversazione più o meno dello stesso tenore con una mia collega accanita lettrice. Discorso che finisce inevitabilmente con la stessa considerazione: non si può, cioè, pensare che l’editoria italiana e internazionale si risollevi se chi dovrebbe ergersi a garante di opere di qualità finisce, poi, col pubblicare librini. Attirando in una sorta di spirale perversa lettori che, forti di un marchio editoriale di chiara fama, o di accorpamenti sapienti, accettano di buona volontà testi di media levatura come un qualsiasi consumatore poco consapevole porta a tavola di buon grado cibo di produzione e fattura industriale preconfezionato e megapubblicizzato.

Mi viene anche da pensare all’affermazione di Marcello Fois, scrittore e docente universitario, nella sua recente presentazione di “Luce perfetta” avvenuta un paio di settimane fa a Pescara in una libreria del centro. Della sua necessità di leggere in pagine scritte da terzi libri “altri”, e cioè romanzi e testi d’autore famosi collocati in una chiara prospettiva metascrittoria.  Che, poi, è come riuscire a scorgere nelle pennellate di un pittore fiammingo la storia e la tradizione di altri artisti di epoca contemporanea e precedente. Leggere con lo stesso impegno di un gourmet. Per qualcuno una mission impossible, ma probabilmente l’unica strada da seguire per tentare di salvare la buona editoria, quella fatta di pratiche ottimali e non di proposte mordi e fuggi di chiara matrice estemporanea.

Lucia Guida

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photo credits : tiptop.az

Presentazioni d’autore: “XXI Secolo” di Paolo Zardi

La mia lettura dell’ultima fatica letteraria di Paolo Zardi, finalista al Premio Strega 2015.

Buona lettura e a presto.

Il romanzo

Una vita ordinaria, all’apparenza senza infamia e senza lode a emblema del tempo che la racchiude, è quella del venditore di depuratori d’acqua protagonista di “XXI Secolo” di Paolo Zardi, la cui narrazione è inserita in un frangente storico non troppo lontano dai nostri giorni perché il lettore non si immedesimi e non ne indossi con empatia i panni. Il protagonista si barcamena con abilità col suo lavoro, in bilico tra la determinazione che lo caratterizza e il senso di precarietà trasudante dal nuovo millennio; una famiglia composta canonicamente da moglie e due figli, una casa, infine, di periferia, baluardo della media borghesia di una volta sono il suo punto di partenza e di arrivo giornalieri.

Una tragica fatalità convince l’uomo, che è anche narratore della storia, a fermarsi a riflettere con attenzione sulla propria routine: sua moglie viene colpita da un ictus. Quest’evento cambierà, rinnovandola e, in qualche modo vivificandola, la prospettiva esistenziale sua e delle persone che ama, nonostante lui si muova su un palcoscenico complesso e  difficile da calcare.

Del nome di quest’uomo non sapremo nulla se non che è composto da tre sillabe, pronunciate da sua moglie in un letto d’ospedale solo nelle ultime pagine del libro.

Il XXI secolo di Zardi è accusa forte e potente, per certi versi monito della realtà in cui stiamo lentamente scivolando, glissando sulle nostre colpe, la nostra indifferenza e un certo grado di superficialità che potrebbe tranquillamente afferrare chi preferisce buttarsi ogni cosa dietro le spalle perché troppo pigro per guardare con grinta e coraggio maggiori al presente. All’inizio il venditore porta a porta è prigioniero di una rassegnazione che, tuttavia, non è mera lotta per la sopravvivenza ma resilienza, e cioè capacità di far fruttare in positivo, con un atteggiamento mentale di apertura alle occasioni del mondo nonostante tutto cospiri a fagocitarlo pian piano.

I temi trattati in questo romanzo, che io definirei solo in parte distopico, sono tanti e giocati su paradossi estremamente verosimili che cozzano in modo voluto contro alcuni puntelli consolidati dei nostri giorni. Uno tra tanti la scelta di gruppetti di anziani di consorziarsi in gang per assaltare, specie durante i sempre più frequenti blackout di energia elettrica, ospedali, condomini e centri commerciali contrapposta al desiderio di ragazzi e adolescenti di periferia meno smaniosi di cercare completamento nel piccolo o grande gruppo, certamente più intenti a cogliere a piene mani la vita da soli o in coppia, nelle sue sfaccettature più istintuali e primordiali.

In questo mondo futuro molto più prossimo di quanto si creda la sofferenza è tollerata nella misura in cui rientra in una gestione consumistica di se stessa rappresentata dal “kit di sopravvivenza” consegnato al nostro protagonista dall’efficiente factotum di un albergo con sapienza aperto proprio di fronte al mega ospedale che ospita Eleonore in una camera a lunga degenza: pochi oggetti di uso comune per  consentire ai parenti dei malati di tirare il giorno, aspettando che qualsiasi situazione si evolva o, peggio, s’involva.

La solitudine è nelle pochissime parole delle donne amiche di sua moglie che il nostro decide di incontrare per cercare di dare un senso alla realtà del tradimento subito e scoperto per caso, provando a forzare la privacy della donna della sua vita.  Saranno appuntamenti consumati in appartamenti e bar fatiscenti, residuati bellici di una società che ha cercato aggregazione fittizia costruendo nonluoghi improbabili come una pensilina d’autobus, capace di riunire solo per qualche istante persone di sensibilità differente. Rendez-vous che non forniranno nessun tipo di risposta alle domande dell’uomo/venditore ma che avranno il merito di portarlo finalmente a riflettere su se stesso e a farlo giungere a una conclusione che la decriptazione della memoria del cellulare di Eleonore non potrà che confermare. Trionferà l’amore e sarà un sentimento sfrondato da ogni possibile sovrastruttura distorsiva. Un’attitudine di cuore e di mente priva di senso di possesso e ricca di gratitudine vera, sentita, per una donna che ha scelto comunque di non rinunciare a lui e agli affetti di famiglia, pur rivendicando una possibilità concreta di vivere la propria femminilità.
Le scelte stilistiche di Paolo sono estremamente lineari e approfondite. La narrazione corre su un filo ben teso che cattura il lettore da subito impedendogli di volgere altrove lo sguardo. Definirei quest’opera un concentrato di vita vissuta ed esperita, priva totalmente di qualsiasi velleità didascalica, resa in modo accattivante, mai seduttiva tout court. La filosofia esistenziale del suo autore impregna ogni singola pagina contribuendo a conferire valore aggiunto a fabula e intreccio con un’estrema coerenza scrittoria e personale che viene da principio percepita e accettata rendendone la lettura piacevole dall’inizio alla fine.

L’autore

Paolo Zardi, nato a Padova nel 1970, ingegnere, sposato, due figli, ha esordito nel 2008 con un racconto nell’antologia Giovani cosmetici (Sartorio). Successivamente ha pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (Neo Edizioni, 2010) e Il giorno che diventammo umani (Neo Edizioni, 2013), spingendo molti a definirlo il miglior scrittore italiano di racconti vivente. Suoi il romanzo La felicità esiste (Alet, 2012) e il romanzo breve Il Signor Bovary (Intermezzi, 2014). Ha partecipato a diverse raccolte di racconti (Caratteri Mobili, Piano B, Ratio et Revelatio, Hacca, Psiconline, Galaad, Neo Edizioni) e suoi racconti sono stati pubblicati su Primo AmoreRivista Inutile e nella rivista Nuovi Argomenti. È il primo autore italiano ad essere stato tradotto e pubblicato dalla rivista Lunch Ticket dell’Università di Antioch (Los Angeles) con il racconto “Sei minuti” in Antropometria, con la traduzione di Matilde Colarossi. Cura il seguitissimo blog grafemi.wordpress.com.

“XXI Secolo”, edito da Neo Edizioni nel 2015, è stato finalista al Premio Strega del medesimo anno.

Paolo Zardi, XXI Secolo, ISBN 9788896176313      € 13,00

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Paolo Zardi, XXI Secolo, ISBN 9788896176313      € 11,05

 

Il link originale di questa recensione lo trovate qui.

 

Presentazioni d’autore: “Per il bene che ti voglio” di Michele Cecchini

“Per il bene che ti voglio”, seconda pubblicazione per Erasmo Edizioni di Michele Cecchini, scrittore lucchese, è la recensione libraria che oggi vi propongo. Una piccola anteprima alla presentazione di questo bel romanzo presso la Libreria Mondadori di Pescara che si terrà giovedì 9 luglio 2015, ore 18.00, da me introdotta alla presenza del suo autore.
Buona lettura e a presto

Il romanzo

“Io la storia di Antonio Bevilacqua vorrei raccontarla così, senza partire dall’inizio, tuttavia non so se sia il caso di cominciare proprio dalla morte. Il fatto è che vorrei iniziare da un finale. La vita di un uomo è costellata di finali e quello della morte è solo uno dei tanti”.

La citazione è parte dell’incipit di “Per il bene che ti voglio”, seconda fatica letteraria di Michele Cecchini, docente e autore lucchese e ben rappresenta quello che sarà il prosieguo della narrazione. Il romanzo racchiude più di una fine e più di un principio, affidando fabula e intreccio a una progressione temporale variegata, a tratti analettica, e a punti di vista altrettanto diversificati, palesi e impliciti, che permettono al lettore di osservare con attenzione le vicissitudini di Antonio Bevilacqua, in mericano Tony Drinkwater, emigrato nel 1926 in America, maggiante di successo e rampollo di buona famiglia di Fabbriche di Careggine in Garfagnana, invidiato e stimato dai suoi compaesani.
Antonio ha un sogno. Da buon teatrante vorrebbe provare a cimentarsi nell’arte del Muvinpicce, del Moving Picture oltreoceano. In una situazione di assoluta controtendenza, nonostante la Merica non sia più considerata una sorta di paese di Bengodi e l’Italia sia diventata una nazione da cui è difficile partire, si fa aiutare a espatriare imbarcandosi alla ricerca della realizzazione concreta di un sogno. Ma la realtà per i Dagos come lui in cerca di un futuro di maggiore fortuna è difficile da affrontare. Antonio non si perde d’animo. Può contare sulle proprie finanze per poter scegliere, almeno all’inizio, cosa fare. Si stabilisce a San Francisco e lì inizia a lavorare nell’avanspettacolo e a farsi conoscere. La sua grande occasione, la sua cianza, gliela offrirà tuttavia Hollywood nell’attimo in cui verrà scelto e lavorerà per un paio d’anni come “controfigura schermatica” di Charlie Chaplin nella realizzazione del film City Lights.Quest’esperienza, però, sarà destinata a non avere un seguito. E a Tony/Antonio non resterà che fare ritorno a San Francisco, riprendendo a viverci con l’indolenza e la nonchalance tipici di questa città multietnica, grandiosa e bellissima con un retrogusto di malinconia che ben rappresentano il protagonista del romanzo. Una città affascinante, disincantata e poco generosa, o quanto meno prodiga soltanto per coloro che riescono ad adeguarsi ai suoi ritmi da nuovo continente, lenti e al contempo frenetici. A una vita in cui c’è pochissimo spazio per l’arte intesa in senso ampio come moltissimo, invece, ce n’è per chi sa dare prova di buone pratiche di bisiness, lottando, ingegnandosi e tentando il tutto e per tutto per aderire totalmente al sogno americano di fare fortuna a ogni costo.

Antonio non si lascia travolgere da lusinghe di tipo sentimentale, considerando l’amore una specie di male necessario a cui adeguarsi mantenendovisi, però a debita distanza. Stesso atteggiamento mostra per tutte le persone amiche che costelleranno la sua vita di emigrante e nella parentesi americana e nei giorni della disillusione italiana, quelli di una rondine partita che ritorna, paradossalmente, proprio in un maggio mite del 1952. La sua continua ad essere una solitudine ricercata, agita e subita, a cominciare dal gesto educato e distaccato delle sue sorelle ad attenderlo alla stazione al suo rientro e a finire con la separatezza che caratterizzerà i suoi ultimi giorni di outsider nel paese natio. Continuerà, però, ad avere un sogno nel cassetto: la ristrutturazione di un piccolo teatro pubblico, quello di Vetriano, che diventerà per lui l’ultima battaglia da affrontare.

Lo stile di Michele è scorrevole senza rinunciare alla ricercatezza lessicale e formale. Le pagine del suo romanzo invitano a riflettere ma lo fanno con eleganza misurata, suggerendo e mai imponendo al lettore idee o prospettive esistenziali. Accurata la documentazione di cui l’autore si è avvalso e che colloca quest’opera in un’ottica storica oltre che narrativa in senso stretto, raccontando con estrema verosimiglianza uno spaccato di vita italiana del XX secolo. Il romanzo possiede, infine, un piccolo vocabolario di termini di italiese/italiano, ampiamente usati da Cecchini nella sua narrazione, per quei lettori che vorranno calarsi con maggior profondità nella storia per assaporarla anche nelle sfumature più infinitesimali.

L’autore

Michele Cecchini è nato a Lucca nel 1972. Si è laureato presso la Facoltà di Lettere moderne dell’Università di Pisa, indirizzo italianistico. È docente di materie letterarie in una scuola superiore di Livorno, dove risiede. Con la casa editrice Erasmo ha pubblicato nel 2010 il suo primo romanzo, “Dall’aprile a shantih”, che ha aperto a Praga una serie di presentazioni di autori esordienti organizzata dalla Società Dante Alighieri.
‘Per il bene che ti voglio’, uscito nel 2015 sempre per Erasmo, è il suo secondo romanzo.
Michele Cecchini, Per il bene che ti voglio, ISBN 9788898598380     €. 16,00

 

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In fondo al mare

Nell’attesa che la questione dei cookies di profilazione venga chiarita anche per quei blog che, come questo, non dovrebbero utilizzarne, volevo postare uno dei miei racconti scritto a progetto per un concorso letterario ma non per questo meno sentito.
Si intitola “In fondo al mare” ed è la storia di  Samia Yusuf Omar, atleta somala (aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino nel 2008) annegata a Lampedusa nel 2012 tentando di raggiungere prospettive di vita migliori e la possibilità di poter partecipare anche alle Olimpiadi di Londra.
Una storia emblematica e tragica che ce ne riporta alla memoria tantissime altre a noi vicine: le vicissitudini dei molti italiani emigrati alla fine del XIX secolo e per buona parte del XX. Partiti alla ricerca di un’esistenza diversa, più umana ben al di là della mera concretizzazione di un sogno.
Buona lettura e a presto
Lucia

In fondo al mare*

Ho sempre amato il mare, con quell’idea di immenso e di apertura racchiusi in una promessa grigioverde.

L’ho intravisto a occhi chiusi nelle mie notti silenziose trascorse a Bondere, respingendo la polvere sottile e penetrante che la brezza solleva dalla strada, respirata assieme alla frescura e alla speranza di un’alba finalmente luminosa, beneaugurante.

Mi sono immaginata a riva, in piedi sulla battigia, ad aspettare con pazienza un barcone dal colore indefinito, prima che si riempia di noi migranti e dei nostri fardelli pesanti, scomodi. Dei nostri poveri abiti a coprire corpi affastellati gli uni agli altri in una bizzarra composizione cromatica in cui, quasi per caso, si mescolano sfumature pacate a colori brillanti.
Su un carretta del mare non c’è posto per molti oggetti.

A mala pena ci è permesso di portare un sogno ciascuno. Io ne ho uno speciale. Tendere il mio corpo esile e aggraziato in avanti, scattando dopo il segnale di partenza con la determinazione e l’agilità di una gazzella: finalmente verso la libertà e la possibilità concreta di sperare in qualcosa di bello senza dovermi guardare dalla paura di non farcela per la disapprovazione e il disprezzo della mia gente.

Per molti io sono soltanto una donna e le mie braccia tese nello sforzo di far bene, controbilanciando con sapienza e perizia la forza di gravità del mio corpo esile in corsa, potranno semplicemente stringersi a un uomo durante l’amore o serrare a sé un bambino per allattarlo.

Io voglio di più.

Voglio sfinirmi nella durezza di un allenamento quotidiano mettendomi alla prova per potercela fare, lo desidero per me stessa e per tutti quelli che hanno creduto in me. Per l’amore e l’affetto di coloro che mi hanno sempre sostenuta e che ora non ci sono più, e anche per quelli a cui è mancata la forza e la volontà di lottare, e che pure mi hanno incitata, con le loro ultime parole, ad andare via.

Verso un nonluogo, una terra promessa che non oso immaginare e che non sarà mai la casa che mi ha vista nascere e combattere sin dal mio primo vagito ma che spero potrà accogliermi con sufficiente benevolenza. Da principio, forse, con curiosità silenziosa, poi con crescente rispetto per la mia volontà di riscatto. Mia e di tutte quelle donne che hanno pensato di non farcela, smettendo di interrare un desiderio possibile nell’arida sabbia del deserto e di attenderne il minuscolo germoglio verde, primo passo verso una vita finalmente degna di essere vissuta.

Il dondolio di questo barcone stipato di gente e di sospiri appena accennati mi stordisce piano.

Sono stanca e cerco di recuperare le poche forze che mi restano pensando a qualcosa di bello dopo un tragitto lunghissimo attraverso Etiopia, Sudan e Libia: un ricordo d’amore lontano intriso di sensualità e passione; il viso di mio padre, mio primo mentore; la felicità che proverò quando riabbraccerò mia sorella. Con lei potrò parlare ancora fino a notte tarda e tirare l’alba intessendo progetti e ridendo al pensiero di momenti lontani fatti di piccole gioie ricavate con esercizio paziente di positività. Riunite finalmente per volontà di Allah e per nostra determinazione terrena.

Il cielo è ancora indefinito e non sa dare risposte. A lui si sostituisce la protervia dell’uomo, sempre pronta a fornirle.

Nelle acque di questo paese, l’Italia, prima porta verso una riconquistata dignità, ci intimano l’alt. Non vogliono farci sbarcare ma la carretta del mare che ci ha accolti non ha più forza per trattenerci, stentando a navigare dopo gli innumerevoli viaggi sostenuti.

Anch’io mi sento stanca e non ho alternative a cui pensare. Socchiudo gli occhi, appannati e indeboliti dalla salsedine di giorni e giorni di navigazione, cercando di focalizzare con tutta me stessa la sagoma scura, all’apparenza così vicina, dell’isola di Lampedusa, fantasticando che sia una specie di striscione di “arrivo” di una competizione ben lontana dall’essere terminata, tentata con la forza della disperazione.

E’ il momento di agire e mi costringo a tornare vigile. Attorno a me molti hanno smesso di lottare, facendo calare sui volti impassibili, già martoriati da ogni tipo di sofferenza materiale e psichica, una maschera silenziosa di indifferenza.

Ora so cosa fare.

Inspiro profondamente prima di tentare il rush finale. Poi mi getto in acqua.

La prima sensazione è di gelo infinito, paralizzante, che mi toglie il fiato. Cerco di concentrarmi come in una delle tante gare sull’attimo presente, scacciando via qualsiasi cosa possa fungere da zavorra. Ho bisogno di tutta me stessa per farcela e so che stavolta non avrò grida amorevoli d’incoraggiamento a sostenermi.

Il cielo è sereno ma non riesco a scommettere sulla sua sincerità.

Decido di puntare tutto su un capo di fune sottile ma robusta che un marinaio giovane e compassionevole ha lanciato da un peschereccio verso di me a pochi metri. Non mangio da tre giorni e l’ultima goccia d’acqua assaporata è stata il regalo di ieri di un vecchio rugoso che non ha voluto lasciare il ponte dell’imbarcazione, stringendosi al parapetto scrostato per scrutare noi temerari. Nuoto con lentezza, consapevole delle forze che mi stanno abbandonando e per la concentrazione che metto in quest’ultimo gesto. Il polpaccio destro comincia a farmi male, l’acqua fredda la fa da padrone sull’agilità e sulla prontezza dei miei movimenti. Decido di fermarmi per un solo istante. Un solo attimo, un solo respiro, una sola memoria, una sola parola.
Nel mio cuore affaticato c’è ancora tanto sole; non abbastanza, tuttavia, per avere il sopravvento sul mio corpo affranto.

A un passo da me quella corda intrisa d’acqua salmastra sta cominciando ad affondare. Mi tendo in avanti come per spiccare il volo ma non è abbastanza per afferrarla, non ce la faccio.

Il mio braccio proteso verso l’alto è un ramo scarno di un’acacia nelle strade della mia Mogadiscio: sottile e affusolato, slanciato verso il cielo.

Nello stato di gran quiete in cui sono precipitata riesco ancora a percepire il grido dapprima deciso, poi stranito e quasi disperato del mio salvatore italiano che non vuol smettere di puntare sulla mia vita. L’acqua del mare che ora mi avvolge per intero trattenendomi a sé ha lo stesso sapore salato delle lacrime che gli sono spuntate. Con uno sforzo incredibile decido di sorridere. Di dedicargli l’ultimo guizzo felice che mi resta. In fondo se lo merita, ha creduto in me e nella mia voglia di vivere, scommettendo sino all’ultimo istante sulla mia fragile salvezza.

In alto il sole ha deciso alla fine di spuntare.

Sarà una giornata mite e gloriosa per molti ma non per me.

Priva di energia scivolo con dolcezza in fondo al mare, perdendomi nel suo verde intenso sfumato di blu. A occhi aperti cerco di vincere l’oscurità che mi assale, guardando verso l’alto, verso l’ultimo raggio di luce che non è riuscito a trattenermi. So di essere al capolinea, ne sono spaventata ma avverto anche un senso di liberazione, una sorta di pacata rassegnazione

Questa terra che non mi ha voluta sarà il mio ultimo scrigno.

Nel silenzio ovattato che ora mi circonda mi sembra di udire ancora il dispiacere autentico di quell’uomo di mare giovane dal cuore palpitante come unica forma di riscatto e tardivo atto d’amore per me. A lui va la mia ultima benedizione.

Ti libero dal mio ricordo e dalla mia immagine, dal mio carico di frutti ingombranti e troppo preziosi. Pensami per il solo istante di questa giornata di Primavera fugace. Pesca per la tua gente e per le persone a te care. Lotta per la tua felicità quotidiana respirando a polmoni ampi. Centellina con parsimonia il tuo Tempo senza sprecarne un nanosecondo. Ama e fatti amare.

 

Lampedusa, 2 aprile 2012

*A Samia Yusuf Omar

 

Lucia Guida 

INAUGURAZIONE-OLIMPIADI

Photo  Credit: Repubblica.it

Madri per sempre

Si diventa madri poco a poco e la progettualità che ha spinto ogni donna a sceglierlo è solo il primo, infinitesimale passo di un percorso che non le abbandonerà mai. E che durerà per una vita intera.

In questo estratto Marina Federici, protagonista del mio romanzo “La casa dal pergolato di glicine”, Nulla Die, (2013) si abbandona ad alcune riflessioni davanti a un dipinto antico raffigurante una maternità nella Chiesa Madre di Todi. Pensando a se stessa per la prima volta come madre e accettando di esserlo per sempre, nel bene e nel male.
Buona lettura a tutti

Lucia

‘Marina contemplò assorta quel volto estatico di Madonna con Bambino nel frammento di affresco che, a beneficio dei numerosi visitatori e abitanti del luogo, aveva sfidato secoli e secoli prima di toccare anche il suo cuore. La salita alla Chiesa Madre era stata faticosa, affrontata gradino dopo gradino, pian piano, in quel primo mattino di agosto in cui pochi erano ancora i turisti ad affollare la piazza sottostante. Sua madre avrebbe desiderato accompagnarla, ma lei non aveva voluto. Essere circondata dall’amore dei propri cari era una cosa impagabile, ma l’intento principale con cui lei si era recata a visitarli era quello di fare un po’ di luce in se stessa. Decidere di riscoprire le bellezze di quella cittadina medioevale, incantevole e intrisa del suo vissuto infantile

e adolescenziale, poteva essere un’ottima scusa per ritagliarsi qualche frammento di autonomia che potesse sfuggire alla seppur affettuosa ma eccessiva sollecitudine dei suoi genitori.

Aveva deciso di tenere il bambino.

Quel miracolo piovuto dal cielo in un frangente così complicato era un chiaro invito a guardare con attitudine positiva alla vita, dandole senso e concretezza, vivificandola di nuova linfa vitale. Sua madre, con l’intuito di tutte le madri del mondo, aveva già preso a sospettare qualcosa, notando il suo scarso appetito al risveglio e la sua insolita propensione a prendersi piccole pause di riposo nell’arco della giornata da cui attingere energie extra per arrivare, senza eccessiva fatica, alle prime ore della sera, quelle in cui non sempre riusciva a dare il meglio di sé. Nella tranquilla routine di suo padre, eternamente confinato nel suo studio, il suo arrivo aveva apparentemente fatto poca breccia. Lui era certamente contento di rivederla e il suo abbraccio rude gliene aveva data conferma, ma le sue esternazioni si fermavano lì e dopo una decorosa parentesi di convenevoli condivisi con sua moglie era tornato alle sue occupazioni di studioso di storia antica, lasciando che fossero gli altri a fare gli onori di casa.

Seduta all’estremità di un banco lucidissimo di legno Marina rivolse nuovamente lo sguardo a quell’immagine sacra femminile di altri tempi, notando con stupore come questa si limitasse a sorreggere in braccio il suo pargolo rivolgendosi a lui con un’amorevolezza che le parve quasi empatica. Sembrava quasi presagire il carico di sofferenza umana che l’avrebbe condotto via da sé, facendole assaporare soltanto per pochissimo le gioie della maternità. La Madonna e un Cristo minuscolo, in erba; una donna e un bambino come tanti senza un padre accanto; era la giusta dimensione, esclusiva e incondizionata, tra una madre e un figlio. Si toccò il ventre, cercando di stabilire un contatto con la creatura che vi era custodita. Le chiese scusa per la confusione che sentiva dentro di sé e, nello stesso tempo, la rassicurò sulla sua piena volontà di fare presto chiarezza. A un figlio, sia pure in nuce, tutto ciò era dovuto, si disse, augurandosi di trasmettergli quella serenità necessaria per potergli far decidere di restare con lei sino alla nascita, nel calore confortevole del suo grembo. Con gioia assurda sentì un moto d’affetto incredibile per il suo bambino e un coinvolgimento insperato per tutto ciò che lui, con il suo arrivo, avrebbe rappresentato per entrambi.’  *

*in Lucia Guida, (2013), La casa dal pergolato di glicine, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

Gustav_Klimt-La-Speranza-II

“La Speranza”, Gustav Klimt