The First Time – La prima volta da autrice. Intervista al “Democratico”

Ieri sera mi è capitato di rileggere la mia prima intervista “seria” rilasciata da autrice al web magazine “Il Democratico”. Era il 26 gennaio 2012 e il mio primo libro, la silloge di racconti “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” era appena stato dato alle stampe. Al di là della foto a corredo, che mi ritrae in “posa da affabulatrice” mostrandomi certamente più giovane ( e, magari, forse meno disincantata riguardo alle faccende legate al mondo dell’editoria e alla pubblicazione di un libro di quanto a oggi io sia ), mi sono soffermata a leggerla con un pizzico di attenzione in più. Giusto o sbagliato che sia mi sono rivista appieno: il tempo è trascorso ed è un dato di fatto. E molte cose della mia vita, personale e di autrice, sono cambiate. Restano tuttavia invariati i capisaldi esistenziali, quelli conquistati  in qualche circostanza a denti stretti. Sono ancora in cammino, poco ma sicuro, portando nel mio fardello quotidiano quelle certezze sulle cose e sulla gente sedimentate e poi gelosamente custodite in me stessa, quasi a darmi forza e a spronarmi ad andare avanti, quando il percorso da intraprendere diventa più faticoso e meno agevole.
Un abbraccio a tutti e buona lettura

 

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Incontro con la scrittrice Lucia Guida

 

Abbiamo incontrato nella città dannunziana la scrittrice emergente Lucia Guida, docente di Lingua Inglese: è una splendida quarantenne che ci accoglie nel suo appartamento nella zona dell’università per sorseggiare un tè al bergamotto rigorosamente inglese. Il soggiorno che ci ospita, luminosissimo, ci regala lo spettacolo incantevole di Majella e Gran Sasso al tramonto appena velati dalle nuvole. La sua prima raccolta di racconti “Succo di melagrana. Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” edito da Nulla Die sta raccogliendo il crescente favore del pubblico e recensioni molto positive.  Fra libri, appunti e ricordi di famiglia la prima domanda è d’obbligo: come si diventa scrittrici?

Da un grande amore per la lettura nato precocemente grazie a mio padre e dalla voglia di scrivere storie che ho avuto sin da bambina. Credo che i miei conservino per ricordo ancora qualcuna di queste mie ‘produzioni’. La vita, poi, mi ha portato a scelte importanti come le mie prime esperienze lavorative, all’estero e in Italia, la maternità, che mi hanno fatto temporaneamente accantonare questa mia passione. Scrivere richiede tempo e una certa dose di serenità, anche interiore, almeno questa è la mia opinione. Ho sempre continuato a leggere moltissimo e a scribacchiare postando in un blog i miei ‘appunti di viaggio’, riflessioni sul mio quotidiano più spicciolo…“

Sul suo profilo facebook abbondano citazioni letterarie: colpisce una di Alessandro Baricco tratta da “Questa storia” che recita: “Sono una donna felice, come lo dovrebbe essere qualunque donna nel riverbero di questa età luminosa. Ho debolezze eleganti, e cicatricicharmantes. Non ho più illusioni sulla nobiltà delle persone, e per questo so apprezzare la loro inestimabile arte di convivere con le proprie imperfezioni. Sono clemente, alla fine, con me stessa e con gli altri.” Davvero lei si riconosce in questa frase?

“La citazione è di uno degli autori preferiti miei e di mia figlia. Mi ci riconosco per intero, soprattutto nel riferimento a quelle che l’autore chiama ‘cicatrici charmantes’: vivere appieno è mettersi in discussione e  parimenti accettare anche il rischio di soffrire o di scoprire di se stessi ‘verità scomode’. Credo che questa consapevolezza di fondo, talvolta raggiunta a caro prezzo, ci renda a un certo punto del nostro percorso di vita molto più affascinanti cha a vent’anni e forse più indulgenti verso le fragilità proprie e altrui.“

I suoi racconti descrivono con abilità e disincanto storie femminili
dove spesso le protagoniste vivono amori difficili e contrastati. La sensibilità femminile si scontra inevitabilmente con l’istinto maschile?

“Diciamo che noi donne abbiamo generalmente modalità comunicative verbali maggiori rispetto agli uomini; che investiamo nel sentimento piuttosto che nell’operatività concreta, modalità privilegiata, invece, da voi. Poi ci sono anche moltissimi uomini che hanno scelto di riconoscere (e di accettare!) la parte femminile che è in loro, quella fatta di sensibilità. Come d’altro canto moltissime donne, soprattutto di ultima generazione, che hanno fatto della propria razionalità e lucidità, una volta appannaggio prettamente maschile, un punto di forza del loro agire. Ideale sarebbe, magari, una sorta di complementarietà: accettarsi gli uni e gli altri per quello che si è realmente, per quello che si ha concretamente da offrire, al di là di tipizzazioni ahimè ancora prevalenti nel sentire comune. Una piccola sottolineatura, infine, sulle vicissitudini sentimentali delle protagoniste delle storie: vivono certamente situazioni difficili in cui non c’è sempre posto per l’happy ending, ma alla fine le scelte a cui arrivano sono scelte permeate di speranza, di positività.“

Certe atmosfere del Sud sono lo sfondo privilegiato della sua scrittura. Le sue origini hanno influenzato il suo immaginario emotivo e letterario, ha utilizzato anche spunti del suo vissuto?

“A me piace pensare di essere quella che sono grazie anche alle mie origini e ai valori trasmessi dalla mia terra per il tramite della famiglia. Nei miei racconti, e quindi anche nei sei proposti in ‘Succo di melagrana’, c’è più di uno spunto appartenente al mio vissuto: appunto una storia di famiglia, quella della bambinaia di mia nonna materna nel primo, ad esempio. Ma anche situazioni concrete altrui rivisitate in un’ottica di verosimiglianza in cui, però, c’è sempre posto per una conclusione diversa, personale.“

Quali letture sono state importanti nella sua formazione di scrittrice, considera alcuni modelli imprescindibili per chi voglia accostarsi alla scrittura?

“Da apprendista affabulatrice quale io mi reputo non ho purtroppo potuto avvalermi di corsi di scrittura creativa. Ho sempre, però, letto moltissimo senza limitazioni temporali di sorta con particolare riguardo alla narrativa italiana e straniera; se penso a dei modelli me ne vengono in mente diversi: Thomas Hardy, Jane Austen ma anche Natalia Ginzburg. Sidonie Gabrielle Colette, magari oggi poco apprezzata, Honoré de Balzac. Piacevolissimi i romanzi di Gianrico Carofiglio, scrittore barese di eccellenti legal-thriller, di cui sono una grande estimatrice caratterizzati da uno stile sobrio, essenziale: diretto.“

Ha sempre un libro sul suo comodino e quali libri porterebbe con sé su un’isola deserta per non sentirsi mai sola?

“Il libro attualmente sul comodino è ‘Adamo ed Eva’ di Mark Twain, incentrato sull’eterno conflitto tra uomo e donna, consigliatomi da una cara amica divoratrice di libri come me. Sull’isola deserta porterei decisamente tutti i romanzi di Jane Austen, da me collezionati con certosina pazienza, possibilmente in edizione originale.“

La scrittura al femminile anche in Italia sta conoscendo una stagione di notevole consenso di pubblico. Ama oppure odia qualche autrice in particolare?

“ Consenso e gradimento del pubblico credo siano un omaggio più o meno velato alla grande sensibilità femminile. Ho un ricordo molto tenero dei romanzi di Brunella Gasperini, divorati da adolescente. Credo di non odiare nessuna autrice anche se è capitato talvolta che non portassi a termine la lettura di qualche libro…“

Erotismo e letteratura spesso vanno d’accordo: lei stima più le scrittrici audaci o quelle socialmente e politicamente impegnate?

“Ammiro fortemente chi in maniera aperta e senza pruderie di sorta fa dell’erotismo e della femminilità più intima materia dei propri libri incarnando desideri e fantasie profondi del lettore, anche se le mie simpatie vanno per tutte quelle donne che sono impegnate nel sociale  e nella politica. Sono una bella spinta alla riflessione pubblica, al ruolo della donna nella società e alle sue infinite potenzialità … “

Le donne nel Belpaese non sono mai abbastanza presenti in politica, nel mondo del lavoro e purtroppo anche della cultura. Abbiamo un atavico complesso maschilista?

“Una risposta sincera, scevra da posizioni oltranziste? Io credo di si e lo dico con infinito dispiacere, con quella sottile sofferenza femminile che si prova nell’avere quotidianamente la sensazione di “non essere mai abbastanza” e, di conseguenza, dover faticare il doppio, il triplo per convincere chi si ha di fronte della propria intelligenza e valore intrinseci. In situazioni complesse e straordinarie  come in episodi di vita vissuta e spicciola.“

Pescara è stata a lungo al centro della drammatica scomparsa di Roberto Straccia, lo studente trovato poi morto sul lungomare di Bari. Come ha vissuto questa vicenda piena di ombre che ha smosso una città intera?

“Sono d’accordo, è una vicenda ancora piena di ombre, di chiaroscuri in cui è difficile intravvedere linee precise. Mi ha colpito la determinazione della famiglia di Roberto nello sperare sino alla fine in una conclusione diversa, più umana. Come madre credo che non vi sia al mondo dolore peggiore e contro natura di quello della perdita prematura di un figlio.“

Si dice spesso che i giovani figli di internet non amino leggere: lei oltre che insegnare è anche madre di due figli. Crede che gli italiani siano inguaribilmente pigri o che i docenti non sappiano motivare abbastanza?

“Dovrei rispondere da prof o da mamma? Scherzi a parte, credo di avere spezzato più di una lancia a favore della lettura. Che nell’invogliare in tal senso i propri figli servano innanzi tutto buone pratiche genitoriali:  un buon libro come regalo quale alternativa al più costoso e gettonato video gioco del momento… Ma la lettura come buona abitudine necessita anche di insegnanti sensibili e attenti che sappiano proporre ai propri alunni titoli stimolanti, che li crescano con il gusto della carta stampata. Insomma, che alla teoria più raffinata corrisponda una pratica di sostanza a 360°.“

Vivere e lavorare nella città di Gabriele d’Annunzio ed Ennio Flaiano non la condiziona in qualche modo, scrivere nella città di due mostri sacri non le crea un certo imbarazzo?

“No, affatto. Mettiamola così: la mia è la stessa ammirazione che una brava donna di casa prova di fronte alle raffinatezze preparate da uno chef rinomato. Non c’è contrasto né imbarazzo, dal momento che l’una e l’altro sono impegnati in ambiti differenti. Ciò non toglie che la brava donna di casa non possa cimentarsi nella preparazione di una prelibatezza: non raggiungerà magari la perfezione del primo, ma si divertirà e imparerà senz’altro qualcosa, che poi è, forse, la cosa più importante.“

Sta preparando un seguito alla sua prima silloge di racconti o preferirà  cimentarsi con un romanzo vero e proprio? Vuole darci qualche anticipazione.

“Per scaramanzia non anticipo niente, ma come ho già detto ad altri, dopo questa prima silloge di racconti non intendo mettere limiti alla Provvidenza. Ricorro a un’altra citazione, questa volta di Daniel Pennac che recita: ‘Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare.) Rubato a cosa? Diciamo, al dovere di vivere’. Bello è quando al dovere/piacere di vivere si riesce a coniugare la soddisfazione sottile di sviluppare un’idea fino a vederla concretizzarsi in una storia compiuta.“

Grazie per il tè, squisito davvero, come i biscotti preparati con estrema cura, una ricetta segreta naturalmente. Il sapore di melagrana li ha resi ancora più delicati!

“Le ciambelline sono un felice connubio di tradizione culinaria abruzzese e pugliese. La melagrana una piccola e gradevole concessione scaramantica e innovativa all’oggi…“

 

Martino Cristiano*

* Il link originale dell’articolo lo trovate qui

 

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La stanza della memoria

Non è facile parlare di femminicidio senza rischiare di cadere nella retorica o, peggio, di parlarne in maniera scontata e poco incisiva. In questo racconto breve, scritto qualche tempo fa per un reading, ho cercato di calarmi nei panni di una donna vittima dell’ossessione amorosa del proprio partner. Dandole voce per poterle far raccontare con voce postuma “da donna a donna” ma anche “da donna a uomo”  lo strazio di un amore femminile tradito, avvilito e annientato da parte di un uomo che con altrettanto amore e rispetto non è stato capace di ricambiare.

Buona lettura e a presto

 

La stanza della memoria

 

Sul comò di legno bianco laccato c’è ancora una cornice portafoto.

Nella foto che racchiude ci siamo io e te, capelli spettinati dal vento e sorrisi al cielo, il mondo intero stretto nel pugno di una mano in due, felici e irridenti. C’è un velo di polvere sottile e persistente sulla cornice dorata in stile veneziano che nessuno ha avuto il coraggio di toccare. Ciononostante, tutto in questa camera dai toni chiari, volutamente rilassanti, ha conservato la fragranza di un tempo.

Il letto dalla testata in ferro battuto decorato con volute e arabeschi sapienti, il comò sovraccarico dei miei gioielli etnici e di un mazzolino di rose secche lasciate appassire lentamente durante il tempo di un’estate mite, indulgente. Ricordi? Me le avevi comprate da un fioraio ambulante che te le aveva legate con un nastro rosso lucente, contro la sfortuna. Un nastro avvolgente come la passione che allora ci univa. C’è anche il tuo dopobarba, disperso tra le mille cose di poca e grande preziosità della mia quotidianità femminile che attorniano questo ritratto così evocativo di un giorno di sereno tra di noi che pure c’è stato: un’immagine unica, bella, radiosa, spettacolare.

“Siamo una bella coppia”, quante volte me l’avrai ripetuto? Non me lo ricordo più. So, però, per certo che all’epoca ci credevo davvero.

Sulla toeletta di legno scuro intarsiato troneggia una lampada dalla base di porcellana chiara con un’impercettibile fessura sul lato posteriore, nascosta all’occhio dei più. Deve quella crepa a un tuo atto di intemperanza, di cui a suo tempo mi hai prontamente chiesto scusa con un sorriso pentito, offrendoti di ripararla. Di comprarne addirittura un’altra.

Io ti ho celato il mio sguardo lucido e ho fatto finta, quel giorno, di osservare, attraverso le tende avorio della portafinestra, la collina e il biancore immacolato delle montagne antiche che tanti nostri risvegli hanno celebrato e salutato. “No”, ho, poi, trovato la forza di risponderti, nell’attimo in cui ho ritrovato un filo di voce. “Non occorre, vedrai che si potrà aggiustare”.

E, giorno dopo giorno, mettendoci tutto l’impegno di cui sono stata capace ci ho lavorato con amore, con speranza, incaponita com’ero a riportarla al suo splendore originario: quello dei nostri momenti migliori in cui felici, innamorati, frugavamo dalla prima all’ultima bancarella dei mercatini di paese alla ricerca di un oggetto qualsiasi che potesse suggellare i nostri primi attimi d’infinito insieme.

La poltroncina in stile è ancora nell’angolo in cui io l’avevo collocata, impregnata dell’odore maschile del tuo corpo sprigionato dai vestiti che eri solito poggiarvi. Le prime volte che facevamo l’amore non occorreva neppure che tu li sistemassi lì: i miei abiti, la tua camicia e il tuo maglioncino finivano frettolosamente in terra e nessuno di noi si dava peso di raccoglierli per lungo tempo. A coprirci bastavano il mio desiderio di te e il tuo di me.

Se spalanco le ante del nostro armadio riesco a percepire ancora la fragranza, sottile e persistente, della mia essenza di donna unita a quella tua, di uomo,  nei cassetti, negli scomparti e nei ripiani ora desolatamente vuoti. La nostra vita insieme mi ritorna in mente col suo ritmo lento e pacato iniziale; furioso e tumultuoso, inspiegabilmente frenetico e inumano al suo epilogo. Una fine impietosa, inusitata, brutalmente violenta, che qualcuno ha stentato a credere, leggendo di noi sulla pagina di cronaca nera di un quotidiano locale.

E’ incredibile notare come oggi i muri di questa camera sospesa nel tempo e nello spazio, luogo privilegiato dei nostri pensieri migliori, siano immacolati e perfetti come una volta.

Niente pare averli scalfiti o insozzati. E le parole durissime e le grida di rabbia e di rancore, di timore che pure ci sono state sembrano quasi essere rimbalzate verso l’esterno, verso quell’orizzonte, a volte più nitido da scorgere a volte meno, così speculare e simile alle fasi altalenanti della nostra relazione d’amore.

In questo sentimento io ci ho creduto sino alla fine, sai? Coprendomi il capo di cenere e passando sopra alla tua furia e alle tue giustificazioni pietose, alla profanazione del mio corpo di donna e al cilicio che a un certo punto, sempre più spesso, hai voluto che io indossassi. Per motivi futili, hanno detto alcuni. Per non averti amato abbastanza, mi sono ripetuta a mente io, restando ostinatamente, pervicacemente fedele al giuramento che ti avevo fatto davanti a tutti.

Ho cercato di sorridere anche quando mi sono costretta a guardami per metà nello specchio tondo di camera, nel tentativo maldestro di celare un’ombra violacea su uno zigomo, segno tangibile della tua profonda insoddisfazione verso di me e verso il mio modo di esistere, o un labbro spaccato e dolente, colpevole di aver portato un rossetto per te troppo colorato e vistoso. Le mie scelte estetiche ti sono apparse di volta in volta troppo audaci o troppo poco appariscenti, procurando il tuo fastidio, la tua collera. Un mutare d’accento continuo, il tuo, per me destabilizzante e poco indicativo del tuo reale sentire del momento. Una iattura che non mi ha portato affatto bene e che mi ha condannata a un lento, inesorabile declino, facendomi perdere consistenza e consapevolezza umana, di persona.

Non sono stata capace di guardare al di là del mio naso e la colpa è stata solo ed esclusivamente mia. Forse avrei dovuto e potuto fare diversamente. E’ questo l’ultimo pensiero con cui ho colmato il mio sguardo attonito, interrogativo, mentre il tuo coltello affilato frugava impietoso all’altezza del cuore di questo mio corpo troppo docile, desolatamente arrendevole. Impossibile pensare e credere che tu potessi arrivare a tanto. Eppure l’hai fatto.

Tu, il mio primo e unico amore, il mio compagno di vita, il mio uomo.

In questa stanza dai toni tenui e rassicuranti il mio spirito ha voglia di trattenersi ancora sino a quando il tempo delle risposte non si sarà compiuto.

Di aprire cassetti ossessivamente svuotati. Di accarezzare con la punta delle dita ogni cosa poggiata su quel comò antico con i gesti familiari di un tempo; ridando vita a oggetti che nessuno ha avuto il coraggio di chiudere in uno scatolone e dimenticare nel fondo di un magazzino buio e senz’aria. Sono stata io a suggerirlo con voce bassa e suadente, a farli desistere da questa incombenza pietosa per loro certamente rassicurante. Tutto deve restare così com’era allora sino a quando ce ne sarà ancora bisogno.

Perché io avverto ancora l’esigenza di far ondeggiare e tintinnare le stampelle dell’armadio come al soffio d’aria benevolo e leggero di brezza di primavera, prima di richiuderne con cura le ante fino al prossimo utilizzo.

Desidero coprirmi con leggerezza con un lenzuolo freschissimo di lino ricamato a mano, quello della nostra prima volta insieme, lasciandolo scivolare sulla mia pelle nuda, liscia e levigata di ragazza di un tempo.

Voglio spegnere con dolcezza l’abat-jour sul comodino al lato del letto aspettando pian piano che i miei occhi spalancati sul nulla si abituino al buio profondo e prendano a sondare attraverso le ombre della sera i contorni conosciuti della nostra quotidianità di coppia, mia e tua. In attesa di te e del tuo spirito che ora, ne sono certa, sta vagando in un altrove impensabile e indescrivibile, certamente disumano e ben lontano da questo limbo che mi è stato concesso di popolare con silenzioso e rinnovato dispiacere.

Ancora per qualche giorno, ancora per qualche ora, formulando domande a cui nessuno, per l’eternità, potrà forse più rispondere per noi.

Questa stanza della memoria sarà il nostro sentiero battuto per altri che non avranno scusanti per non pensare, per fingere di non ricordare e poi fuggire con colpevole leggerezza dal dolore e dal prevedibile orrore del mio sangue versato per noi, per loro, per tutti nel chiarore di un’alba ancora troppo vicina per poter dimenticare.

 

Lucia Guida

 

Tramonto_aldo sterchele

Il dipinto “Tramonto” è di Aldo Sterchele

Presentazioni d’autore: “Lanterne per riconoscermi” di Maria Luisa Mazzarini

Ho conosciuto Maria Luisa diciotto anni fa e per un intero anno scolastico abbiamo condiviso un pezzetto di percorso professionale come docenti, lei di Lettere e io di Lingue. Incontrarci nuovamente rispettivamente in veste di poetessa, per lei, e di prosatrice, per me, nel corso di un evento letterario è stato uno di quegli scherzi esistenziali che  il Destino, bontà sua, ogni tanto si diverte ad architettare.
Gli amici che mi conoscono sanno che nutro per la poesia una sorta di timore reverenziale e, quindi, accoglieranno questa piccola recensione, da me fatta puntando più su questioni di gusto che su un tecnicismo e una specificità che non posseggo, il giusto tributo a un’Arte posseduta ed esercitata, invece, da Maria Luisa Mazzarini con maestria ed estrema eleganza.

Buona lettura

La silloge

 

“Lanterne per riconoscermi” è la terza silloge di poesie di Maria Luisa Mazzarini. Attraverso un percorso fatto “D’Amore, di Acqua e di Luce, di Sole e di Luna, di Fiori, di Sogno”  narra le sensazioni e le emozioni di un’anima in stretto e profondo contatto con la natura e con tutto ciò che la circonda, facendosi per lei Vita, elementi rappresentati attraverso una scelta precisa e minuziosa di vocaboli in cui il significato e il significante coincidono con una sensibilità squisitamente femminile, pur lasciando ampio margine di discrezionalità al lettore che si accinge a tuffarsi in un mare di tableaux vivants fatti, appunto, di parole usate con sapienza, capaci di prenderlo per mano e di portarlo in più di una dimensione spaziale e temporale in cui il terreno si mescola abilmente al divino; in un gioco di parti in cui, tuttavia, non c’è vinto o vincitore ma soltanto lo stupore di vivere un’esperienza sinestetica, fatta di espressività contrastante ma, al contempo, emotivamente assai coinvolgente.

Maria Luisa definisce le sue crezioni poetiche “i miei gioielli” ed è accorta e lungimirante in questo; in più di una circostanza le sue liriche fanno, infatti, pensare certamente a uno scrigno capiente in cui trovano la giusta accoglienza preziosità elaborate in foggia diversa, caratterizzate dalla stessa luce fatta di brio e stupore: la medesima meraviglia di una bimba posta di fronte alla luminosità di un tesoro con cui  potrà giocare a lungo perché qualcuno l’ha autorizzata a farlo, premiandola per la sua diligenza e la sua abilità a maneggiarlo con cura, sicuro della sua buona fede e autenticità a preservarlo dall’opacità del tempo e della quotidianità.

Nei suoi versi trovano, quindi, posto minuterie di un microcosmo vivo e brulicante fatto di fiori di campo e di serra, animali e insetti, i quattro elementi evocati da ciò che li rappresenta visivamente a noi esseri umani ( il sole, il vento, le nuvole, il cielo, l’aria, le acque di ruscello e di mare … ) , in cui non c’è distinzione alcuna tra ali di farfalla e petali di rosa, sorriso di fiori e silenzio di sogni e di stelle, ma appare unicamente la consapevolezza dell’autrice di gratificare  e cullare quegli uomini e quelle donne che possiedono la capacità di immergersi e nutrirsi di queste preziosità, liberandosi e ritemprandosi dagli affanni di una vita spesso frenetica, distratta e di poca soddisfazione.

Viene da pensare che se possibilità di salvezza ci sarà per noi, in primis una salvezza emotiva e sentimentale capace di liberarci da un’esistenza che potrebbe tendere a desertificare la nostra interiorità, questa sarà certamente racchiusa nella bellezza della Poesia, unica chiave di volta e di accesso alla riscoperta di un rapporto vivo e reale, fatto di scambi generosi con tutto ciò che ha determinato la nostra umanità più profonda e che, ancora, è alla base e a fondamento della nostra unicità, un’ essenza fatta di naturalità rigenerante e feconda, pronta di slancio a perdonare l’umana debolezza e ingratitudine.

 

ORO E ARGENTO

Il Poeta

d’oro sublima

ciò che l’uomo

calpesta.

A sera

sa dove trovare

la sua luna d’argento.

M.L. Mazzarini

 

L’autrice

 

Nata ad Umbertide (PG) e laureata in Lettere Classiche, Maria Luisa Mazzarini vive da più di 40 anni a Loreto Aprutino (PE) dove ha svolto attività di docenza e di scrittura. Ha pubblicato nel 2010 “E poi soltanto il vento” e nel 2012 “Fuga in gonna di farfalle” per Aletti. “Lanterne per riconoscermi” (2014 ) è edito da Divinafollia.

Maria Luisa Mazzarini, Lanterne per riconoscermi, ISBN: 9788898486274, € 12,00

 

 

Sulla riva del mio Presente

Fino a qualche anno fa ho lasciato che fossero le pagine di un blog della community di libero a custodire le mie riflessioni, divertendomi, da prosatrice più che da poeta, a esprimerle qualche volta in versi.

Approfittando dell’indefinitezza di questa giornata festiva di agosto, tutta nuvole e sole, vi propongo un mio componimento intitolato “Sulla riva del mio Presente”

A presto

Lucia

Sulla riva del mio Presente

 

Sulla riva del mio Presente

mi son seduta,

lo sguardo al cielo

e al cielo i miei pensieri.

Sentendomi  ricca dentro

ho taciuto,

crogiolandomi nel tepore

insperato

di una giornata di festa,

di sole e di sereno.

Il Passato è lì

che attende,

sagoma di monti all’orizzonte

sfumata nel blu

di ciò che è già stato.

Ma è un’ attesa pacata,

simile al saluto di chi

resta;

mentre il treno

dell’ancora possibile

pian piano prende la rincorsa

per portarmi

via e lontano.

 

L. Guida  (2011)

 

 

“Past. Present. Future.1” , Anna Razumovskaya

La storia perfetta

Esisterà la storia perfetta? Quella in cui fabula e intreccio si compenetrano alla perfezione con naturalità, senza che siano stati operati interventi forzosi di vario tipo a titolo preventivo, e cioè prima che l’opera prenda la strada della pubblicazione? Me lo chiedo e ve lo chiedo in quest’articolo pubblicato qualche giorno fa sulla mia pagina di LiberArti

Buona lettura e buon weekend

 

La storia perfetta

Esisterà la storia perfetta? Per intenderci, quella rispondente a tutto ciò che possa renderla tale, e cioè   decaloghi scrupolosi  e certosini, minuziosamente stilati dal gotha scrittorio, supportati magari da preediting sapienti, meditati, compassati. Rituali pedissequamente onorati prima di inviarle a chi conta e sa: a chi può, volendo e potendo, pubblicarle.

Un po’ come andare dal tuo chirurgo plastico di fiducia, promemoria alla mano, chiedendogli di incavarti gli zigomi, spianare inopportune rughe d’espressione, ridurti o aumentarti di una taglia il seno, scolpirti con una poderosa opera di liposuzione l’addome. E poi ci sarebbero i polpacci da rimodellare, la pelle cadente delle braccia che, figurarsi, a una certa età è evidentissima e va rimessa a posto. Al resto ci penseranno un personal trainer e una dieta favolosa iperproteica, possibilmente à la page. Ma poi, vuoi mettere di te cosa ne verrà fuori? Una te stessa strarifinita, bella da paura. E irrimediabilmente diversa (e lontana) dalla tua essenza più vera e genuina.

E il lettore che ti ha conosciuto per quello che tu, autore, nel bene o nel male ab origine eri? Quel lettore che, forse, ti ha apprezzato per i tuoi pregi e i tuoi difetti, riconoscendosi anche nelle tue défaillance più o meno consapevoli ed evidenti, perché, si sa, anche un autore ha un cuore. Quel lettore, dico, come la prenderà? Se farà parte della folta schiera di lettori beneducati, pronti ad accettare a buon viso qualsiasi prodotto mediaticamente presentato ad hoc, beh, probabilmente accetterà anche la tua nuova personalità scrittoria. Ma siamo davvero sicuri che sia proprio questa la categoria di lettori preferita da uno scrittore?

Mi viene in mente un racconto tratto dal mio primo lavoro pubblicato da autrice solista, intitolato “Bella bella bella” in cui Sara, la protagonista, faceva del proprio corpo oggetto di culto esasperato nella prospettiva impossibile e vana di fermare l’inesorabile scorrere del tempo. La scrittura, come del resto ogni altra arte, è fatta di crescite e decrescite. Di percorsi più o meno lineari, rettilinei, solo nella migliore delle ipotesi in piano. E non esiste regola o diktat che tenga se a te, autore, mancano lo slancio, la forza, quel quid in più che ti distingue dagli altri e che riaffiorerà, come gioielleria barbarica, anche in un testo poco limato. Poco affinato, attenzione, e non stravolto e snaturato dalla penna abile, disincantata, smaliziata e complice di un editor a cui tu, autore, travolto dalla frenesia di pubblicare tutto e subito, hai concesso carta bianca a oltranza.

Non tutto ciò che si scrive è pubblicabile. La frase non è mia ma di un editor di professione. Eppure l’offerta editoriale odierna è ricca di opere, ( in origine lontane anni luce dai parametri essenziali editoriali), che poi tali sono diventate dopo un restyling accurato e circostanziato, mirato a procacciare l’attenzione del lettore medio, per giungere all’agognato traguardo della pubblicazione. Qualcuno lo chiamerebbe accanimento terapeutico, prefigurando l‘immagine di un paziente a cui sono stati trapiantati tutti gli organi vitali possibili, certamente restituito a nuova vita. Ma a che vita, ci si chiederebbe? Una vita propria o mutuata da altri, seppure con le migliori intenzioni?

Appartengo alla scuola di pensiero secondo la quale l’originalità e l’incisività di un autore si collocano proprio a metà tra la perfezione formale, anche linguistica ed espressiva, e la talentuosità latente in ciascun appartenente a questa categoria di artisti. Eppure è proprio questa seconda caratteristica quella che permette di superare ostacoli di ogni genere, a dispetto della prima, sebbene opzione necessaria. E quindi, cui prodest?

Per come la vedo io non esiste la storia perfetta intesa come un insieme di vicende talmente ben congegnate da prendere il lettore per intero e subito. Semplicemente perché nella scrittura, come del resto in molte altre arti, tutto ciò che era possibile esprimere è stato detto, esplicitato, metabolizzato, sia pure a livelli di differenziazione varabili. E visto che ciò che era umanamente proponibile è stato già presentato sia pure in salsa differente, la grandezza (o, se preferite, la bravura) di un autore sta nel riproporre, attraverso sapienti variazioni su tema, quanto migliaia di altri scrittori più o meno importanti hanno cercato di rendere attraverso un uso della scrittura a volte più attento, altre volte un po’ meno, combinando in modo diverso il proprio pensiero e l’uso e la padronanza di significato e significante della parola.

Personalmente credo che la nuova frontiera risieda, appunto, in un utilizzo certamente non improvvisato né ridondante di quest’ultima, molto più che nella ricerca di situazioni mirabolanti e tali da colpire l’attenzione di un lettore sempre più costretto a digerire testi di varia pezzatura, proposti da un mercato editoriale molto più propenso, per mera sopravvivenza, a tollerare interferenze di natura consumistica piuttosto che, invece, osare, con forza e coraggio doverosi, attraverso opere di qualità certa, sostanziale.

Due giovani innamorati pronti a morire per rendere eterno il loro amore da un lato; dall’altro due innamorati pronti a lottare fino alla fine per poter vivere in piena quotidianità il loro sentimento: due trame semplici, fin troppo scontate, eppure perni di due narratività diverse, quella inglese e quella italiana. Il miracolo compiuto da Shakespeare e da Manzoni è stato quello di rendere talmente verosimili e coinvolgenti due storielle all’apparenza di poco conto, seppure mutuate da una quotidianità storicamente concreta, rendendole immortali tanto da concedere con estrema benevolenza ai posteri di farne uso smisurato fino a sfiorare l’abuso.

Due grandi della letteratura, mi direte voi; tra l’altro neanche contemporanei l’uno all’altro. Eppure capaci, per il modo affascinante di trattare una materia all’apparenza così routinaria, di appassionare generazioni e generazioni di lettori, per altro minimamente l’un contro l’altro armati o pronti a schierarsi da una sola parte della barricata.

Non sottovalutiamo il lettore, mai. Il lettore è per la stragrande maggioranza un essere pensante, sa scegliere e sa operare le dovute distinzioni. Checché se ne dica o si immagini. Evitando soprattutto di portarlo in giro vendendogli specchietti per le allodole. Piuttosto che sprecare energie preziose in contese di poco spessore facciamo in modo di onorarlo sempre, di non deluderlo mai: creando per lui qualcosa di unico, di caleidoscopico, se siamo in grado di farlo. Altrimenti proviamo, per un istante, a fare un passo indietro, ascoltando chi sa usare la parola meglio di noi, magari con consapevolezza e sobrietà maggiori.

Lucia Guida

 

N.B. : Il link originale del mio articolo lo trovate qui

 

                       

 Photo taken from Writing Forward

Il cielo resta sempre

Una ragazza alle prese con una quotidianità scialba e con un amore che fa male decide di punto in bianco di cambiare rotta e andare via. Dirigendosi verso il mare e la sua grande apertura, alla ricerca di nuove possibilità  di vita; scoprendo all’improvviso di non avere mai smesso di volersi bene.

Buona lettura

 

Il cielo resta sempre*

La percezione era quella, spiacevole, di un malessere subdolo e serpeggiante. Un senso di disagio che si insinuava in lei in profondità sin dal risveglio scandendo la sua quotidianità passo dopo passo, inesorabilmente. Un accenno di nausea che la prendeva all’improvviso accompagnato da una sensazione di vertigine che l’attanagliava a tradimento, facendole desiderare distese sconfinate di erba verde ondeggiante al vento dal chiuso di quell’ufficio minuscolo in cui da circa tre anni svolgeva la sua attività di contabile part-time. All’inizio le era bastato inspirare profondamente davanti alla finestra aperta e ripetersi che tutto andava bene, che tutto sarebbe andato a posto. Ma quel sollievo momentaneo non era durato a lungo e lei si era trovata a fronteggiare da sola, specialmente in orario di lavoro, attacchi d’ansia dalla portata devastante che nemmeno l’idea consolatoria di poter, a una certa ora, fare ritorno a casa, riuscivano a smorzare. Rifugiarsi in quella stanza minuscola dell’appartamento in condivisione con altre tre ragazze era stata da sempre la sua ancora di salvezza ma ora non le bastava più al pensiero di un presente che era un meschino tirare a campare e nulla più. Un’esistenza appesantita anche dalla storia di poco conto con un cliente della ditta per cui lavorava. Si erano conosciuti discutendo animatamente per una partita di appariscenti borse made in china griffate da lui ordinate da tempo immemore che tardavano ad arrivare. Lei era stata la prescelta mandata in avanscoperta per tentare di placarne le ire, contando sul fatto che l’altro avrebbe contenuto le proprie rimostranze alla vista di quella figura femminile esile, capelli corti e occhi scuri grandissimi in un viso dall’incarnato diafano. Una ragazza d’altri tempi. Stando tacitamente al gioco, si era scusata per l’inconveniente promettendo con solennità di risolvere personalmente la faccenda in tempi brevi. Erano finiti a prendere un caffè a un tavolino del bar Ideal all’angolo frequentato da avventori occasionali e rappresentanti annoiati in cerca di uno stacco minimo prima di poter andare avanti nel prosieguo della giornata. Lui le aveva preso la mano per leggerle il futuro ostentando la sottile fede d’oro che indossava. Dopo meno di una settimana si erano rivisti in un motel a ridosso dell’autostrada ed erano diventati amanti, con un patto di reciproca non interferenza suggellato dalle volute di fumo azzurrino della sigaretta di lui e dallo sguardo di lei al soffitto, concentrato sul movimento vorticoso di un immenso e vetusto ventilatore a pale impegnato a stemperare l’atmosfera rarefatta di un venerdì sera come tanti.

Può un cioccolatino dall’aspetto invitante saziare un affamato? Se l’era chiesto più volte; concludendo amaramente che non era possibile e tuttavia continuando a non mancare a nessuno di quegli appuntamenti clandestini consumati in agriturismi o alberghetti fuoriporta che coloravano la sua quotidianità scialba e inconsistente. Sino a quel fatidico giovedì in cui una sensazione strana, sgradevole si era impossessata di lei per il resto della giornata; facendole dapprima pensare di aver contratto uno di quei  virus capricciosi e passeggeri, capaci tuttavia di scombussolare, anche se per breve tempo, una vita senza scossoni, senza infamia e senza lode come la sua. Sentendosi soffocare l’aveva chiamato sul cellulare di servizio con un numero schermato, come da lui ampiamente raccomandatole, defilandosi per il giorno successivo con una scusa a cui lui non aveva replicato, accettando quel diniego piattamente, quasi impersonalmente; probabilmente per non destare sospetti nella persona che, dall’altro capo del telefono, lo fronteggiava. Senza percepire nulla del bivio che lei scientemente aveva deciso di intraprendere.

Le successive due settimane in cui non aveva incontrato il suo amante, in vacanza in montagna con moglie e prole al seguito, le avevano tuttavia dato modo di mettere a punto quell’idea nuova, singolare che l’aveva stupita per l’insospettabile forza che conteneva strappandola con fermezza a quel bozzolo soffocante che si era costruita attorno, prontamente aiutata dalla casualità che dal cappello a cilindro aveva d’improvviso estratto un’amica da poco in città desiderosa di un  appoggio temporaneo che potesse tramutarsi in punto di riferimento stabile.

Quella mattina Irene si era mentalmente ripetuta il discorsetto da propinare al suo titolare e approfittando di qualche minuto di relax che lui si era concesso per festeggiare una transazione conclusa in maniera particolarmente favorevole, gli aveva dato il preavviso ridicolmente breve di una settimana, facendogli andare di traverso quel vetrino freddo ordinato al Bar Ideal con così tanto entusiasmo. Con insolita determinazione gli aveva anche chiesto una parte di ciò che le spettava come liquidazione, forte di quei quattro anni di impiego diligente e scrupoloso, aumentando lo stupore dell’uomo che si era limitato a sgranare gli occhi, incapace di metabolizzare quell’insospettabile voltafaccia da parte di una persona  apparentemente innocua come lei. Convocandola il giorno successivo e chiedendole, tra una sigaretta e l’altra, cosa l’avesse indispettita a tal punto da spingerla a una risoluzione così radicale. Con un impercettibile sospiro e un sorriso che non arrivava al cuore la ragazza aveva replicato che la sua era una decisione dettata esclusivamente da difficoltà familiari, impelagandosi in spiegazioni frammentarie in cui aveva parlato di affari urgenti cui badare e della necessità di doversi a breve trasferire in altra città. Lui l’aveva ascoltata con sguardo meditabondo senza proferire parola, poi aveva estratto da un cassettino della scrivania un modulo dattiloscritto che lei aveva firmato senza leggere, a fiducia, prendendo la busta che le porgeva quasi con rammarico, con una fermezza che sentiva prossima al capolinea, senza controllare minimamente cosa contenesse.

Preparando il borsone, il quarto in quel sabato di chiaroscuri fatto di afa estiva inutilmente attenuata da un susseguirsi incessante di temporali, aveva elaborato il passo successivo. Mara aveva ascoltato in silenzio del suo licenziamento e della sua difficoltà presente di affrontare la spesa del subaffitto di quella stanzetta di dieci metri quadri in un condominio di periferia. Accettando con magnanimità di conservarle in una cantinola tutto ciò che lei non fosse riuscita a caricare nella sua utilitaria fino a quando lei non avesse trovato adeguata sistemazione in un altrove imprecisato di cui non aveva voluto sapere nulla. Aveva anche promesso discrezione assoluta sulla sua partenza, compatendola mentalmente per quanto le era in così poco tempo accaduto, e a quel punto Irene le aveva trascritto su un post-it il suo nuovo cellulare ringraziandola per tutto e assicurandole di chiamarla presto per farle avere sue notizie. Delineando di se stessa e della propria vita in quella mezzora molto di più di quanto in quattro anni di coabitazione non avesse fatto. Poi era partita.

Per andare dove non lo sapeva nemmeno lei. Certamente allontanarsi in fretta da una situazione che le aveva tolto serenità e vitalità, smagrendola e conferendole un’aria più patita del solito che le era diventata inaccettabile. Uscire dalla cinta d’asfalto di quella città di provincia le aprì i polmoni liberandola in parte dal peso di angoscia e di incertezza che le premeva sul cuore.

D’istinto decise di puntare verso la costa, verso il mare. Aveva voglia di respirare aria pulita di salsedine mista all’odore penetrante di ozono che le solleticava le narici, guidando blandita dal ticchettio rasserenante della pioggia sulla capote della sua macchinuccia e dal confortante ritmo dei tergicristalli in azione.

Quando arrivò in quella cittadina pulitissima dal nome antico di sibilla si accorse con stupore di avere fatto più strada del previsto incalzata dal temporale e da pensieri vorticosi che tuttavia si erano dipanati come il filo di una matassa prontamente districato da un’esperta tessitrice.

Scendendo dall’auto per sgranchirsi le gambe intorpidite fu assalita dal richiamo del mare infuriato e dall’odore dell’arenile bagnato a quell’ora deserto.

Tra l’insegna fluorescente dell’hotel che prometteva vacanze marine roboanti e quella, più modesta, di un bed and breakfast a poche decine di metri più in là scelse quest’ultimo, cenando, come spesso le capitava da bimba, con un cappuccino e un croissant. La stanza era piccola ma graziosa e tra i tetti degradanti di quel centro storico così compito, mostrava un piccolo scorcio di mare aperto, beneaugurante, appena illuminato dallo scintillio di un quarto di luna sbucato non si sa come dai nuvoloni dispersi dal vento. Si addormentò con semplicità, come oramai da tempo non le capitava, le braccia strette attorno al corpo smagrito e le persiane aperte sull’aria fresca e invitante della notte.

– Buon giorno.

La padrona del Mistral l’accolse con un sorriso e la condusse verso un terrazzino odoroso di bouganvillea e gerani in cui aveva apparecchiato per lei. Irene fece onore alla colazione mentre guardava con occhi impenetrabili verso il mare, certo e incredibilmente presente anche da quella nuova prospettiva.

Un gabbiano intraprendente svolazzò dalla pensilina che la sovrastava e lei si stupì di quell’audacia osservandone ammirata l’apertura delle ali e il volo sicuro a metà tra la libertà e la consapevolezza di dover tentare nuove strade, nuovi mari, alla ricerca del necessario per andare avanti con dignità.

– Per stasera cosa ha deciso? Pensa di trattenersi ancora?

Cincischiando distrattamente con un’unghia sul ricamo della tovaglietta della colazione Irene si riscosse e accennò a un sorriso, lo sguardo verso il cielo rimesso al bello, nella carezza di una brezza gradevole e sottile.

– Resto, le disse.

E, con la lievità di una nuvola trasportata da correnti d’aria propizie, si diresse verso il fulcro di quel paese antico che sapeva di nuovo, che sapeva di buono.

 

Lucia Guida

 

* “Il cielo resta sempre” ha partecipato al Premio Dialogare 2014

 

 

“Promenade sur la falaise, Pourville”, Claude Monet (1882)

Presentazioni d’autore: “Strada Facendo” di Maurizio Milazzo

Maurizio Milazzo è un autore romano pubblicato dalla Nulla Die di Piazza Armerina (EN), da me conosciuto in occasione dell’edizione di Più Libri Più Liberi 2013. “Strada facendo”, edito nel 2013 e da me qui recensito, è il suo romanzo di esordio.
Dello stesso autore “La pietra di Cesare”, romanzo storico umoristico di imminente pubblicazione.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

 

Immaginate di dover fare un viaggio sostanzioso, da Roma a Großostheim Ringheim Flughafen per esempio, magari per riabbracciare nuovamente la donna della vostra vita, conosciuta in un’occasione singolarissima, nella citta che è la vostra e a casa dei vostri genitori dai quali non capitate spessissimo. 

E’ quello che accade a Nicola Enaldi, giovane impiegato romano, ben deciso a compiere un tragitto di tutto rispetto in autostrada, casello dopo casello, accompagnato da un’ottima colonna sonora musicale, varcando  ben due confini nazionali alla ricerca di un sogno che sta per concretizzarsi dopo un lungo tempo di attesa e di riflessione.

La strada è certamente lunga e quale occasione migliore per Nicola di frugare nella sua memoria rivisitando quei luoghi appena sfiorati e annunciati da un cartello stradale, riassaporandone i ricordi e gli aneddoti ad essi legati, curiosità di vario genere incluse; ma anche riascoltare per radio, grazie a un più che tempestivo DJ,  canzoni della sua adolescenza e del suo tempo presente, ben allineate in mente a segnare momenti passati, resi piacevoli da un senso di amarcord vivido, a tratti struggente come sanno essere quelle cose che ti sono rimaste dentro pur non essendo più temporalmente alla tua portata.

Assonanze scherzose, aneddoti gustosi e immagini ancora intense nella mente di questo viaggiatore che ha deciso di raccontarsi in prima persona, non rinunciando tuttavia a segmenti di narrazione “seri”, da narratore onnisciente in terza persona, finalizzati a descriverci Nicola nei momenti cruciali di quest’esperienza: per esempio nell’atto di decidere qualcosa che non sia semplicemente una variazione su tema di un percorso prestabilito. Pensieri e riflessioni si rincorrono, ritmando il tempo di questa storia dalla durata di poco meno di un giorno, a ridosso di un perno cardine del nostro millennio, l’11 settembre 2001, segnando la fine e il principio di un tempo nuovo, forse più consapevole, certamente più disincantato, per quest’uomo alla riscoperta di se stesso ma anche, forse, per tutti noi.

“C’è sempre un forse nella vita … forse” è tra le frasi preferite di Nicola; una sorta di motto scaramantico che lui ama ripetersi per mettersi a riparo dagli inconvenienti dell’ultim’ora, mai come in questo frangente dal sapore realmente profetico. Per incontrare Alina gli toccherà, infatti, percorrere un bel po’ di strada in più, prolungando la chiacchierata con la propria anima sino ad arrivare a Berlino, dal momento che l’attentato alle Twin Towers newyorkesi ha influito, sia pure in misura infinitesimale ma certamente con concretezza, anche sul suo destino e su quello della sua ragazza.

Maurizio Milazzo si diverte a giocare sulla curiosità del lettore, in alcuni casi soddisfacendola con dovizia di particolari e cesellando pagine degne del miglior monologo interiore in cui, talvolta, c’è solo l’imbarazzo della scelta per poter passare da un argomento all’altro. Lasciando al lettore, tuttavia, la possibilità di completare degnamente questa narrazione con un finale a scelta, adattabile (mi piace pensarlo!) all’indole del suo pubblico.

Lo stile è fresco, frizzante, mai eccessivo, dando a chi legge l’impressione di una guida sapiente ma pronta ad adattarsi al percorso intrapreso, tra rettilinei e curve, per portare sino alla fine del tragitto chi ha voglia di spiccare, Nicola al fianco, voli di pensiero fatti di buonsenso, saggezza esperita, semplice e bonario fatalismo  privo di rassegnazione e ricco di costruttività.

“Roma, Berlino, cosa importa il luogo per due persone che si amano? “ è una delle conclusioni a cui l’autore arriva, lasciandoci intravvedere un finale connotato positivamente, ma ricordandoci comunque di tenere bene a mente la differenza che passa tra “viaggiatore” e “turista” , il primo ben deciso ad assaporare le mille sfaccettature dell’esistenza e il secondo impegnato, viceversa, a recitare , evitando di prendere attivamente posizione per vivere e agire.

 

 

L’autore

Maurizio Milazzo è nato a Roma nel 1968, si occupa di Sistemi di Pagamento per la Pubblica Amministrazione. Socio della Free Lance International Press, collabora con giornali e riviste, scrive e conduce programmi radiofonici e televisivi su network locali. Da presidente della Promoit Onlus persegue progetti di solidarietà. Nel 2009 pubblica la raccolta di racconti “Sogno o son destro? Incubi di un mancino”. Nel 2012 pubblica in e-book i racconti “Rompete le righe… ma anche i quadretti”.

 

Maurizio Milazzo, Strada facendo, ISBN: 9788897364696, € 10,00

 

 

NB: Il link originale della presente recensione è qui

Intervista

Cari  amici, vi riporto integralmente l’intervista realizzatami dall’autore e blogger Mario Borghi sul suo “Pubblica bettola, frammenti di cobalto” che si era già occupato di recensire qui il mio romanzo d’esordio “La casa dal pergolato di glicine”. Nella chiacchierata abbiamo parlato di tante cose: di piccola editoria, dei problemi incontrati dagli autori emergenti, dei miei lavori e del mio modo di concepire la scrittura.

Se ne avete piacere ve lo propongo come lettura odierna. Questo è il link per leggerlo in versione integrale

A presto

 

Quattro chiacchiere con Lucia Guida, scrittrice pescarese

22.05.14

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Dunque, ho convinto Lucia Guida, bravissima autrice di La casa dal pergolato di glicine, edito da Nulla Die, di cui ho parlato qui, a farsi fare un po’ di domande. Eccovela.

Ciao Lucia, grazie per la disponibilità, partiamo subito con la domanda di rito: puoi dirci nel minor numero di battute, il maggior numero di cose su di te, gossip compresi?

R- Ben risentito e grazie a te! Comincio subito: tendenzialmente non omologata, sincera ( per qualcuno “scomoda”), pasionaria, chiacchierona, impulsiva, idealista … può bastare?

Certo, ora però ti chiedo qualcosa di più. A quando risale la tua passione per la scrittura?

R- All’epoca in cui compitavo le prime lettere, errori ortografici inclusi. Mi piaceva scrivere piccole fiabe e storie su tovagliolini di carta sottili di forma quadrata (quelli di solito usati nelle pasticcerie) che, poi, regalavo a persone di famiglia perché potessero leggerle.

Quando è uscito il tuo primo lavoro “serio”?

R- Il mio primo lavoro da autrice solista “seria” è stato pubblicato nei primi mesi del 2012 dalla Nulla Die, casa editrice siciliana indipendente. È una raccolta di racconti au feminin che parla di donne a 360°. Non collocatelo, però, nelle opere “di genere”, è un’etichetta che trovo limitativa. I protagonisti dei miei racconti sono certamente “personagge” perché la loro autrice ha deciso di descrivere e dar voce a una materia che conosceva molto bene, ma sono rivolti a tutti, indistintamente. Il messaggio che volevo veicolare è che ciascuno di noi può farcela. Può, cioè, riconquistare uno stile di vita che gli è maggiormente congeniale, imparare a volersi bene se non l’ha fatto in precedenza. Un augurio di tipo universale, insomma.

Hai mai ricevuto una “stroncatura”?

R- Di recente un critico letterario mi ha fatto sapere su un forum di scrittori cui mi ero iscritta che non avrebbe mai comperato il mio libro. Si riferiva al mio romanzo d’esordio, “La casa dal pergolato di glicine”, edito sempre per i tipi della Nulla Die a settembre del 2013, di cui aveva letto una breve anteprima da me postata. Alla mia replica di come ritenessi il suo giudizio riduttivo, invitandolo a leggere il mio lavoro per intero prima di esprimere un giudizio, ha ribattuto che, comunque, i 16,00 € del prezzo di copertina non li avrebbe mai spesi per un’autrice poco conosciuta come me. Trovo desolante e deprecabile un atteggiamento pseudosnobistico come questo. Non sei abbastanza conosciuta, quindi posso eventualmente giudicarti “a gratis”. Quanto, poi, a comperare il tuo libro, non se ne parla proprio. Ed è un’opinione quanto mai invalsa. Di questo passo farsi conoscere, per quelli che pubblicano per piccoli editori, diventa un’impresa erculea. Ma del resto, di cosa meravigliarsi? Se anche fiere internazionali di tutto rispetto continuano a privilegiare le major editoriali a discapito di case editrici indipendenti? Insomma, continua a piovere sul bagnato, tra l’indifferenza generale. E al lettore viene propinato di tutto, sotto l’egida di marchi famosi, purché sia di tendenza. Una sorta di consumismo scrittorio, se così si può dire. Un fenomeno che non è certamente positivo.

Quali sono, se ci sono, i temi o i soggetti sui quali ami scrivere?

R- Mi piace scrivere di anime semplici come i bambini ma anche di anime complesse, adulte. Provare a ricamare attorno a cose o eventi all’apparenza quotidiani, forse per qualcuno scontati, storie e situazioni. Parafrasando un autore inglese, William Blake, “To See a World in a Grain of Sand”, intravvedere un mondo intero in un granello di sabbia. E poi provare a costruirci un castello, magari. Credo sia la cosa più bella e appagante che possa accadere a un autore, almeno secondo me. La realtà che ci circonda è uno scrigno inesauribile di tesori; basta, appunto, saperli riconoscere. 

Hai degli scrittori preferiti?

R- Passati e presenti? Un’infinità, scelti tra generi diversi, non esclusivamente di narrativa. Diciamo che da ragazza ho avuto ottimi maestri in tal senso. Persone di riferimento di famiglia e insegnanti che potessero darmi dritte eccellenti e che non ringrazierò mai abbastanza. Attualmente sul mio comodino c’è l’opera omnia della Munro, da centellinare pian piano, “Donne che corrono coi lupi” della Pinkola Estés, un paio di romanzi di autori emergenti che conosco personalmente. Tra i grandi del passato: T. Hardy, Colette, de Maupassant. Italiani contemporanei: Cassola, Pea, la Ginzburg … 

Come ti poni di fronte alla poesia?

R- Con una sorta di timore reverenziale. Sono convinta che per prosare occorrano ottime basi linguistiche. Per la poesia, se possibile, ne occorrono ancora di più. Ciò non significa, tuttavia, che il tecnicismo debba imbrigliare il sentimento. La poesia è arte anche attraverso la sensibilità e la profondità con cui tu provi a sfumare una sensazione, un’emozione evitando di cadere nell’ovvio.

Ci fai una carrellata delle tue pubblicazioni con una piccola didascalia per ciascuna?

R- Come autrice di racconti brevi ho pubblicato per diverse case editrici in collane di autori vari. “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile”, opera prima costituita da sei racconti, tre ambientati nel Novecento e tre ai giorni nostri, in cui le protagoniste provano a vivere con compiutezza maggiore la loro vita, riuscendoci. “La casa dal pergolato di glicine”, romanzo in cui do voce a Marina Federici, una donna alla ricerca della propria identità in un’epoca, il 1970, in cui scegliere una nuova stagione esistenziale era meno semplice di oggi. In entrambe queste opere da solista ho voluto trasmettere una speranza. Come anche nell’ultimo lavoro, in fase di pubblicazione, un’opera a tre mani edita da Fefè Editore, intitolata “Streghe d’Italia 2” che raccoglie tre personali punti di vista sulla figura della “magàra”, della strega vera o presunta che sia. Io credo che ciascun autore abbia precise responsabilità in merito ai contenuti, anche valoriali, che decide di trasmettere ai suoi lettori.

Che idea ti sei fatta del panorama editoriale odierno, sulla scorta delle tue esperienze di pubblicazione?

R – La stessa idea che, quando stavo per partorire la mia primogenita Roberta, mi venne in mente, dopo essere stata ricoverata, incinta di otto mesi, in ospedale, per un malessere. All’epoca avevo della gravidanza e del parto un’idea piuttosto rosea e, diciamolo pure, ingenua e poco calata nel reale. A contatto con le altre partorienti me ne sono dovuta fare un’altra, realistica e, per certi versi, più cruda. Pubblicare sempre e comunque può soddisfare l’ego di un autore ma non lo aiuta a crescere. La mia idea è quella di scegliere consapevolmente le mani editoriali cui affidarsi, che è un po’ quello che ho fatto io nel momento in cui ho deciso di fare sul serio. Per contro c’è comunque la difficoltà di pubblicizzare e propagandare quello che hai scritto, a lavoro ultimato; le piccole case editrici, pur avendo una buona distribuzione anche online, possono arrivare fino a un certo punto. Tocca, quindi all’autore, con molto olio di gomito, fare il resto. Non è semplice, specialmente quando devi fare tutto da solo e i proventi derivanti dalle tue pubblicazione sono minimi. C’è, poi, il discorso di cui parlavo poc’anzi circa la diffidenza verso gli autori esordienti/ emergenti, anche da parte degli addetti ai lavori. Imporsi in questo mare magnum non è facile. Specialmente per chi cerca di tenersi fuori da compromissioni di vario tipo, evitando di cercarsi sponsorizzazioni del tipo “do ut des” di varia provenienza.

Cartaceo o digitale?

R- Cartaceo ma anche digitale. Ben venga la tecnologia, dalla quale è assurdo prescindere, anche nel mondo della scrittura e, soprattutto, della lettura.

Qual è l’opera, tra quelle che hai scritto, che ami di più?

R- “Succo di melagrana”, decisamente. Anche se ho dovuto pensarci parecchio e farmi supportare dal fatto che buona parte dei suoi racconti aveva raccolto recensioni positive o era arrivato in finale in concorsi letterari nazionali. Io la chiamerei l’insicurezza dello scrittore esordiente. Un male necessario, comunque, che ti aiuta senz’altro a mantenere i piedi per terra e a non montarti la testa.

Che ruolo deve avere, secondo te, una scrittrice, nella società? Pensi che esista una differenza sostanziale tra scrittore e scrittrice?

R- Delle responsabilità implicite ed esplicite contenute in un atto scrittorio ho già parlato. La differenza sostanziale tra scrittore e scrittrice risiede per me in una sensibilità espressa differentemente e in modo complementare. A ogni modo entrambi sono portati a ricoprire, oggi, un ruolo che è necessariamente mediatico e che è inutile e poco onesto negare. Mi spiego: il lettore che ti ha scelto come autore ha la necessità di conoscerti “live”, di sapere come la pensi anche in questioni di quotidianità. Io credo nell’idea di un’arte fruibile e non in quella di una torre d’avorio in cui trincerarsi. Apprezzo dei grandi artisti la loro capacità di relazionarsi costruttivamente col pubblico, ricercando il giusto equilibrio con la necessità di preservare comunque il proprio spazio intimo, privato.

Hai dei progetti nel cassetto?

R- Tanti e non tutti di natura scrittoria. Per il resto non sono un’autrice esageratamente prolifica; scrivo quando mi va e quando ne ho la possibilità, tempo e impegni vari permettendo. Sono per lo slow writing, per la scrittura che porta fuori il meglio di te, a dispetto di mode o tendenze che non ti appartengono e che, per tale ragione, lasciano il tempo che trovano. Il lettore ha bisogno, per certi versi, di identificarsi in te scrittore, passare da un genere all’altro lo manda in confusione.

Cosa vuoi fare “da grande”?

R- Continuare a essere felice delle piccole e grandi cose della mia vita. Per me è stata una conquista raggiunta da “ragazza cresciuta” nel momento in cui ho cominciato a volermi bene sul serio

E ora la terribile domanda, che fa arrabbiare molti scrittori: perché scrivi?

R- Potrei dire che la scrittura ha ricoperto, nella mia via, ruoli diversi. All’inizio è stata, come blogger, terreno di conferme ma anche terapeutica. Poi è diventata piacere di scrivere fine a se stesso. Voglia di ringraziare i lettori che hanno creduto in te e che si aspettano di rileggerti ancora. Certamente mai imposizione o qualcosa di preconfezionato. Scrivere così richiede tantissimo tempo ma io non mi lamento. E aspetto che arrivi l’ispirazione giusta, quella che fa la differenza. Grazie per questa bellissima chiacchierata.

Grazie Lucia per il tempo che ci hai regalato e a buon ri-leggerci.

Mario Borghi

 

Presentazioni d’autore: “I profumi del cedro” di Catia Napoleone

“I profumi del cedro” è il secondo romanzo di Catia Napoleone, autrice esperta in comunicazione, edito, per i tipi della Demian Edizioni di Teramo, nel marzo del 2014. Ho avuto il piacere di conoscere Catia in occasione dell’intervista da lei rivoltami per conto di Rosa TV, emittente televisiva digitale, nella trasmissione “Leggiamo insieme”, realizzata nella primavera scorsa in cui parlavo della mia silloge di racconti “Succo di melagrana”.

E’ appena il caso di dire che sono davvero contenta di essere tra i primi a recensire questo suo secondo figlio scrittorio.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

I profumi del cedro è la storia di Giulia, una ragazza calabrese che ha imboccato una strada decisa da altri per lei, sforzandosi di percorrerla per buona parte della sua vita per seguire con estrema malleabilità i dettami di un’educazione parentale e familiare antichi e consolidati, prima di decidere di scardinarli e riappropriarsi della propria esistenza, della propria identità di Donna e di Persona.

Elemento catalizzante assume nella storia, narrata in prima persona, il ricordo profondo e radicato del nonno di Giulia, padrone di una cedriera in Calabria, e delle sue riflessioni che ha voluto trasmettere alla sua nipotina, portandola a passeggio tra i filari della sua proprietà e spiegandole con semplicità, da uomo concreto e gran lavoratore, le piccole e grandi verità della vita sino al giorno della sua morte, avvenuta quando la ragazza è ancora un’adolescente.  Il paradosso è proprio quello; da un lato l’arrendevolezza di Giulia, ben pronta ad accontentare i suoi genitori rispondendo alle aspettative da questi riversate sulle sue scelte di vita adulta, e dall’altro l’impossibilità di prescindere dagli insegnamenti saggi e pacati di questa figura maschile così preponderante nella sua vita che, per contro, la invita a osare, a sognare.

Un matrimonio male assortito sin dall’inizio e tuttavia condotto con pacata e amichevole indifferenza da entrambi i suoi protagonisti, ambientato in una provincia in cui ogni cosa ha un senso se opportunamente collocata e sancita dall’approvazione della comunità di appartenenza. Da lì Giulia potrà, comunque, svincolarsi per una questione dovuta al caso o al destino, se così si può dire: il trasferimento della sua famiglia in Abruzzo, deciso dal marito che ha desiderio anch’egli di liberarsi da un retaggio familiare che sente sempre di più per se soffocante. Una decisione subìta ma che le aprirà uno spiraglio e la spingerà a guardarsi attorno, realizzando l’aspirazione di laurearsi e di rendersi donna libera, quanto meno culturalmente, da un marito che non ha nessun piacere a mostrarla nella sua cerchia di amicizie se non in situazioni istituzionalizzate come cene di lavoro o iniziative benefiche in cui tutto appare piuttosto che essere.

Di questo Giulia soffre silenziosamente, riuscendo soltanto nella dimensione onirica ad affrancarsi; nei suoi sogni, infatti, spesso popolati dall’immagine di nonno e dalle sue sagge indicazioni, la ragazza trova assai spesso rifugio per raccontarsi e spiegarsi molte cose della sua quotidianità che comincia sempre più a trovare ingombrante.

Saranno l’amore per Luca, suo figlio, e l’ammirazione e l’affetto per Alessandro B., professore universitario a cui Giulia si è mostrata per quella che è veramente, a darle lo slancio finale per recidere con un taglio netto il cordone ombelicale che la lega a una vita che non le è mai appartenuta. Il suo paese in Calabria e l’immagine delle cedriere colte nel momento in cui gli ebrei vi si recano per la ricorrenza del Sukkoth, oltre a una riconquistata autostima, (grazie anche, finalmente, alla tardiva ma incondizionata accettazione delle sue scelte di vita da parte di sua madre e di suo padre) caratterizzeranno la sua nuova stagione esistenziale, questa volta ricca di speranze e di sogni a cui non manca nulla perché diventino realtà.

Catia Napoleone narra la sua storia mantenendosi in bilico tra il genere diaristico, in cui trovano posto pensieri volanti ma anche brani di conversazioni passate e presenti, e quello propriamente narrativo in una sorta di “stream of consciousness” interrotto spesso, tuttavia, dalla concreta possibilità di Giulia di consigliare il lettore, forte del traguardo raggiunto, al meglio. Così come a suo tempo nonno aveva inteso fare, con la determinazione e la caparbia di guidare fino a quanto gli fosse stato possibile, quella nipote pulita daveru, immolata alla tranquillità familiare dei suoi genitori ma destinata a ben altre scelte.

 

L’autrice

Catia Napoleone è nata a La Louvière (Belgio) nel 1973.

Si occupa di comunicazione. Ha pubblicato il suo primo romanzo, intitolato “Per un atomo d’amore”  per Youcanprint nel 2012.

 

 

Catia Napoleone, I profumi del cedro, ISBN: 9788895396873, € 13,00 

 

 

 

Luglio

Dodicidio è una collection letteraria, un romanzo noir in dodici capitoli realizzato da me e da alcuni membri del F.I.A.E. Ha contribuito alla giusta causa dello  I.O.V.Art di Padova attraverso la donazione delle royalties derivanti dalla sua vendita.

Nasce da un’idea degli scrittori Fabio Musati e Amneris Di Cesare ed è stato pubblicato dalle Edizioni La Gru nel luglio 2013

Questa è la sua quarta di copertina:

Un uomo sui cinquant’anni, un contabile, fissato con i numeri e i calcoli. Uno che si confonde tra la folla, che non si fa notare, che non vuole farsi notare. Fa bene il suo noioso lavoro; onesto, pignolo, puntuale, preciso. Un brav’uomo. Un Grigio, insomma. Prima di Natale viene licenziato e il suo mondo frana improvvisamente. A farlo crollare è l’Ingegnere, padrone dell’azienda in cui lavora, uomo influente, di successo, introdotto negli ambienti che contano nella piccola cittadina dove vivono entrambi; lui diviene il nemico da abbattere, da eliminare. Da anonimo uomo di provincia, e da neo disoccupato, eccolo quindi diventare il Protagonista, eccolo trasformarsi in eclettico serial killer che medita con precisione, e minuziosa pedanteria, il delitto perfetto. Gli autori: Fabio Musati, Amneris Di Cesare, Luca Fadda, Francesca De Logu, Francesca Montomoli, Falconiere Del Bosco, Luciana Ortu, Valerio Piga, Fabrizio Colonna, Lucia Guida, Cristiana Pivari, Cristina Lattaro, Massimiliano Mistri.

 

Per voi, oggi, in lettura il mio piccolo contributo. A presto

 

LUGLIO*

 

La guida è giovane e carina, avrà circa vent’anni. Forse è una studentessa di Architettura che ha deciso di arrotondare le sue magre entrate da universitaria. Finge di darsi un contegno, ma in realtà ha una paura fottuta. Fortuna che il giro di visite che guiderà, è composto da poca gente. I turisti più accorti sono tutti in piazza, sotto le nuvole evanescenti degli evaporatori, all’ombra di ampi tendoni chiari.

La ragazza scruta i suoi compagni di sventura, pentita di aver indossato, per un po’ di frescura in più, quegli shorts che lasciano ben poco all’immaginazione. Riceve conferma della propria avventatezza dallo sguardo famelico di un padre di famiglia in bermuda, sandali da frate e t-shirt stile make-love-not-war. Lui le gira attorno lasciandole poco respiro; porta la guida-radio noleggiata all’ingresso al collo e un voluminoso libricino intitolato all’imponente Palazzo Ducale di Mantova in cima al borsello portato a mo’ di cartucciera a tracolla.

La ragazza sospira con insofferenza, valutando desolatamente lo sguardo di puro odio della moglie dell’uomo: una tizia bionda, capelli alla maschietto, piatta e magra come un chiodo, chiaramente esasperata tanto dal machismo del marito, quanto dal ragazzino di una decina d’anni, certamente loro progenie, arrampicato con sguardo assassino sulla transenna di metallo all’ingresso delle stanze museali.

Di fronte a lei c’è una coppia di turisti orientali. Con irritazione la ragazza pensa che le toccherà sfoderare il suo inglese scolastico. Del resto il tour promette pomposamente una visita guidata della durata di mezzora con la possibilità di ricevere informazioni in lingua. Che giornata! Dà un’ultima sbirciata all’orologio da polso: ancora cinque minuti allo start. Cinque minuti di attesa snervante, appena attenuata dal fresco garantito dagli spessi muri di quella casa patrizia, vanto e fiore all’occhiello della città oggi deserta.

Il nostro uomo, oggi in versione globetrotter, sogghigna per la fortuna di essere capitato al Palazzo Ducale proprio in questo sonnacchioso pomeriggio domenicale. Un momento reso ancor più propizio dalla distrazione di quella specie di Barbie occhialuta che non si è nemmeno accorta della sua sparizione, intenta com’è a messaggiare col suo smartphone. Sarà che di matti al mondo ce n’è a iosa, ma di sprovveduti ce n’è almeno il doppio. Superare la transenna fatiscente è stato un gioco da ragazzi, e lo è stato altrettanto proseguire silenzioso, sulle morbide suole delle sneakers, per gli ampi corridoi. Scarpe fantastiche sui cui lui è intervenuto creando una leggera ombra sul dorso limando la mina di una matita e applicando poi la polvere usando un batuffolo di cotone. L’effetto è perfetto. Si ferma un attimo solo, giusto per individuare il pannello di controllo delle telecamere a circuito chiuso, e per manometterne qualcuna, tanto per cancellare ogni traccia di sé, se mai ne dovessero restare. Nello zainetto ha tutto ciò che gli occorre per lavorare in modo pulito e professionale in qualsiasi circostanza. Bastano pochi minuti per allentare i tasselli e i fermi che tengono ancorato alla parete l’imponente arazzo, protetto da una pesante teca di vetro, riportato con tanta fedeltà sulla copertina della guida turistica.

Una scena silvestre in cui c’è tutto quello che gli serve: l’orrore della dama che si copre con una mano gli occhi per non vedere i tre caprioli inondati di sangue ai piedi del trionfatore, il cacciatore impavido. Un arazzo dal sapore profetico e per lui beneaugurante. Pronto a cedere rovinosamente al battito d’ali di una farfalla.

Luglio si veste di novembre se non arrivi tu. Luglio sarebbe

un grosso sbaglio non rivedersi più.

Alla comitiva, intanto, si sono aggiunti un uomo sulla cinquantina in polo di piquet, pantaloni color kaki e mocassini ai piedi, e un tipo con uno zainetto in spalla e un ridicolo berrettino da baseball americano unto e bisunto. La famigliola, la coppia di cinesi di Shangai e i due uomini seguono la guida per le stanze. Lei si impegna sfoderando un italiano fluido e un inglese accettabile nel descrivere i particolari che sa a memoria. Sogna un ghiacciolo alla menta e una doccia tiepida.

Mancano ancora un paio di sale da vedere.

Il ragazzino ricomincia a dare di matto. Probabilmente gli mancherà la playstation. La guida è certa che la scelta dei suoi genitori di andare per palazzi d’epoca sia stata dettata dalla necessità di sopravvivere alla cappa di calore insopportabile. Il marito le dà più l’impressione di un frequentatore di YouPorn che quella di un cultore d’arte, mentre la sua compagna è intenta a chiacchierare al telefono con un’amica. I due cinesi sembrano gli unici interessati al contenuto delle teche polverose. Il globetrotter, con le cuffie della guida-radio in testa, poco si cura delle sue spiegazioni.

Poco male.

La Barbie occhialuta procede con buona volontà negli approfondimenti, mentre l’ingegnere con i pantaloni kaki si premura di controllare che questi corrispondano alla virgola a quanto riportato nel suo libricino. Il globetrotter non può evitare di osservare con disgusto il suo dannato ex capo, fiscale e bacchettone persino nei momenti di relax. In un paio di circostanze l’ingegnere si spinge a correggere la guida, guadagnandosi un’alzata di spalle di quest’ultima, incurante della sua spocchiosa meticolosità.

Mancano circa dieci minuti alla fine del giro e la ragazza non vede l’ora di terminarlo. A passo spedito entra nella grande sala da pranzo, portando il suo gruppo al cospetto dell’arazzo. Il globetrotter si asciuga il sudore dalla fronte. I cinesi osservano rapiti i corpi dei caprioli straziati dai colpi del cacciatore. Persino il maniaco padre di famiglia e l’ingegnere si avvicinano incuriositi all’enorme pannello per osservarlo meglio. Il bambino tira fuori da una tasca una hot wheels. Vuole farla passare tra le gambe del distinto professionista che è impegnato in un’interminabile discussione con la guida, visibilmente scocciata. L’uomo insiste nel voler oltrepassare il sottile cordone di protezione per ammirare da vicino.

Il bambino sta per lanciare la macchinina, ma sua madre lo afferra per la collottola, esasperata dalle sue intemperanze, e lo strattona via.

La hot wheels cade al suolo. Il globetrotter la raccoglie, senza essere visto, e la scaglia contro l’arazzo davanti al quale la guida e l’ingegnere discutono animatamente attirando l’attenzione di tutti i presenti che si sono avvicinati ai due. Poi, silenziosamente, l’uomo si distacca dal gruppo e guadagna l’uscita. In sottofondo sente un fragore celestiale  e le urla di paura e dolore dei visitatori.

Aiutata dai due cinesi, la ragazza cerca di estrarre il corpo del padre di famiglia martoriato dai frammenti di vetro della teca. La moglie, basita, regge per un braccio il ragazzino finalmente ridotto al silenzio.

L’unico a non battere ciglio è l’ingegnere, stizzito per questa fastidiosa interruzione.

Ormai giunto in strada, il globetrotter si frega le mani soddisfatto. Stavolta è andata. Con audacia si nasconde dietro un capannello di curiosi prontamente accorsi, per ascoltare i primi commenti sull’accaduto. Una scarica gli attraversa il corpo quando vede avvicinarsi una sagoma a lui familiare. È lui! Possibile che…? Possibile che sia ancora vivo? Possibile sì, accidenti!

Luglio ha ritrovato il sole non ho più freddo al cuore

perché tu sei con me…

Maledetta schifosissima canzone.

 

Lucia Guida

 

“Luglio” in A.A.V.V. (2013) Dodicidio, Padova, Edizioni La Gru