Un dì di festa

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“Chop Suey”, E. Hopper (1929)

La vita di provincia è sempre complessa. Non puoi nasconderti in un anonimato comodo e complice e capita assai spesso che di te si sappia ogni cosa. L’esistenza di ciascuno diventa, quindi, una sorta di telaio in cui qualcuno ha provveduto parzialmente a tessere un ordito senza limitazioni di sorta. Finendo col lasciare più o meno inconsapevolmente troppo spazio ad altri per completarne la trama.

La mia proposta di lettura per voi è, oggi, il racconto breve “Un dì di festa”, parte della mia silloge “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” per i tipi della Nulla Die di Piazza Armerina (EN). La raccolta, in ristampa già dopo il primo mese di vita, è stata pubblicata all’inizio del 2012.

“Un dì di festa” è la storia pacata e molto verosimile di Tina ed Erminia, amiche, in un paese del Sud del secondo dopoguerra alle prese con la celebrazione della festa patronale.

Buona lettura

Un dì di festa*

 

… E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etate

Del mio dolore…

 

G. Leopardi, Alla Luna in Canti

 

 

 

L’essenza della sua giornata era tutta lì, in quella tazzina di caffè forte con poco zucchero, centellinata pian piano nel tinello schermato dalle imposte socchiuse. Avvolta nella vestaglietta di seta a rosolacci rossi e rosa morbidamente annodata in vita, Tina se la gustò sino all’ultimo goccio mescolato a una punta di zucchero rimasto e a pochi granelli di polvere scura sfuggiti al filtro della caffettiera napoletana. Troppo esigui per leggervi il futuro come sua nonna era solita fare. Pensò alla giornata senza di lui che l’attendeva e a tutte le altre giornate a venire simili a questa che si sarebbero inevitabilmente avvicendate. Quella settimana era stata la donna del sabato, ma in passato le era occorso di essere donna del lunedì o di un qualsiasi altro giorno feriale. Raramente festivo. Lui non avrebbe potuto. Aveva moglie e figli con cui celebrare ogni ricorrenza e festa comandata del calendario, a meno che non si trattasse di un urgente viaggio di affari che lo impegnava inderogabilmente dalla domenica sera. Ma capitava molto di rado. Il campanile della piazza principale del paese suonò otto rintocchi e lei si riscosse. Afferrò le due tazzine e le poggiò nell’acquaio in cucina. Poi andò in camera per abbigliarsi per recarsi al lavoro.

— Signora Tina, buongiorno, la salutò con deferenza Matteo il barbiere, in maniche di camicia e sull’uscio in pausa dopo il primo taglio e frizione della giornata.

— Buongiorno, Matteo, gli sorrise lei, la veletta appena abbassata nonostante l’aria calda e ferma già a quell’ora del mattino. E passò avanti, guadagnandosi rapidamente la strada tra le bancarelle del mercatino delle erbe e le ali di venditori estemporanei, senza fermarsi ai loro richiami. Aveva già quello che le bastava, per quel giorno non intendeva comperare nulla. Le imposte della merceria erano già aperte, segnale inequivocabile che Annina era arrivata e aveva aperto il negozio alla solita ora.

— Signora buongiorno.

— Buongiorno Annina … La ragazza continuò a spolverare diligentemente il bancone di legno chiaro su cui erano poste ben in fila scatole e scatoline di trine e gale, insistendo con foga per cancellare le ultime impronte lasciate dal giorno prima. A lei toccava ricevere gli acquirenti, inventariare le merci e ogni sera pulire il negozio. Quel venerdì, però, aveva terminato prima.

Pietro, il suo fidanzato, ora in servizio di leva, aveva avuto una licenza breve per tornare al paese per la festa patronale e lei aveva domandato il permesso alla signora di poterlo andare a prendere alla stazione.

— Pietro sta bene?, s’informò Tina. L’altra sorrise e disse che sì, lui stava bene ed era contento di essere giunto quasi a fine naia.

Tra poco meno di due mesi si sarebbe congedato e in casa da lei avrebbero potuto concretamente parlare di nozze. Già si vedeva, il lungo abito bianco di raso e un velo spropositato che finiva al termine della navata centrale della chiesa madre, al braccio di uno zio materno perché lei era orfana di padre e non aveva fratelli maschi.

Uno scampanellio deciso segnò l’ingresso della prima cliente e Annina storse il naso, riconoscendola. Era la signora Irma, moglie del farmacista. Avrebbe preteso l’impossibile, rivoluzionato il negozio e alla fine se ne sarebbe andata a mani vuote senza comprare niente. Sospirò rassegnata.

— Buongiorno, signora Irma, la accolse Tina ricevendo a mo’ di saluto un cenno del capo appena ingentilito da una smorfia che aveva ben poco di amabile. L’altra la studiò da capo a piedi, notando con estremo disappunto come in lei non vi fosse niente di sbagliato o eccessivo.

— Avrei bisogno di qualcosa per ornare la falda di questo cappellino …, esordì finalmente, esaminando con sguardo critico i barattoli di vetro colmi di fiori artificiali e ordinati nella scaffalatura con gusto impeccabile. Tina fece un segno impercettibile ad Annina, che aveva fatto il gesto di avanzare verso di lei. Ci avrebbe pensato lei a servire la signora e fu quanto fece. Alla ragazza non restò che riavvolgere con cura eccessiva della passamaneria che era stata momentaneamente accantonata in una valigetta di cartone sotto il bancone, sbirciando in contemporanea il via vai dei passanti, richiamati in strada dal bel sole di maggio. Nel frattempo erano entrate altre due clienti, madre e figlia, in cerca di certe applicazioni di pizzo con cui ornare il davantino di un abito. Annina le servì con competenza e gentilezza, compatendo la sua padrona ancora alle prese con quella donna sempre così indecisa. Poi fu un susseguirsi di persone arrivate alla spicciolata una dietro l’altra per gli ultimi acquisti per quel giorno speciale, da tutti pregustato e atteso con gioia. In cui ciascuno dei paesani avrebbe mostrato il meglio di sé rispolverando l’abito buono per lo struscio sul corso o per ascoltare ai piedi del palchetto in piazza la banda di un qualche paese limitrofo giunta appositamente per l’occasione. Oppure passeggiando mollemente per il viale alberato sfilando davanti ai banchetti della fiera pieni di merci di ogni tipo. A ora di pranzo entrambe erano sfinite, ma decisero comunque di riporre con cura ciò che non era stato possibile conservare al momento, prima di serrare definitivamente le imposte. Quel pomeriggio niente vendita. C’era la Madonna in processione attorniata da una miriade di santi e angeli, evento al quale non si poteva mancare. Annina prefigurò brevemente la serata che si sarebbe concessa al braccio del suo Pietro e che sarebbe culminata negli spettacolari e consueti fuochi d’artificio a notte inoltrata a ridosso della campagna. Anche lei si sarebbe pavoneggiata nel suo abitino a giacca color celeste polvere, borsetta e scarpine di capretto bianco. A quella toeletta aveva destinato i risparmi di qualche mese, aiutata da sua madre, abile sarta, col vantaggio di poter acquistare a buon prezzo stoffa e accessori nel negozio in cui lavorava.

— A lunedì, salutò alla fine, dopo aver riposto l’ultimo rotolo di gros-grain nel cassetto, chiedendosi fugacemente come la sua datrice avrebbe trascorso quel breve intermezzo di festa.

Ma fu un attimo solo e la ragazza chiuse dietro di sé la vetrina con lievità, allontanandosi al fianco del suo Pietro, in paziente attesa, una sigaretta dopo l’altra, all’angolo della via. Tina li accompagnò con uno sguardo comprensivo e indulgente, senza la minima ombra di livore. Avevano tutte le carte in regola per essere felici. Erano giovani, ansiosi di vivere e pieni di speranza. Perché la vita non avrebbe dovuto accontentarli?

Di ritorno a casa, si fermò a bussare al portoncino di Erminia, la sua amica più cara. Una delle poche che non l’aveva giudicata per le sue scelte di vita più recenti in quel paesino di provincia in cui tutti amavano a dismisura passare minuziosamente al setaccio la vita altrui sorvolando per contro con troppa leggerezza sulle proprie debolezze.

— Tina, accomodati.

L’altra si affrettò per la scalinata ripida e scomoda che portava al primo piano e a un disimpegno su cui davano tinello, cucina e uno studiolo in cui Erminia preparava le sue lezioni. Era professoressa di lettere e aveva studiato all’università, cosa ragguardevole e degna di nota. Non si era mai sposata. Qualcuno insinuava che fosse rimasta legata al ricordo di un amore di gioventù. Si era tanto parlato di quel fidanzamento in semi clandestinità col medico condotto, osteggiato dalla famiglia di lui. Alla fine il dottorino aveva preferito a lei una ragazza di famiglia facoltosa che aveva assolto con premura e coscienza ai suoi doveri di moglie portando una dote cospicua e dandogli cinque figli. Le due amiche presero accordi per la serata. Si sarebbero incontrate dopo la consueta siesta pomeridiana. Il caldo e le rondini non avevano mancato all’appuntamento annuale caratterizzando con la loro presenza quella ricorrenza che per tutti era celebrazione religiosa e rito propiziatorio per la bella stagione oramai imminente. Tina si alzò dalla poltroncina capitonné e voltandosi le annunciò con noncuranza che lui era ripartito. Quindi si diresse verso le scale, reggendosi fermamente al corrimano di ferro per guadagnare velocemente l’uscita. Erminia non commentò. Qualsiasi cosa avesse aggiunto alla precisazione dell’altra sarebbe stata inutile. Inutile e dannosa, aggiunse. Si accese con mano ferma una sigaretta e ne aspirò avidamente l’aroma. Tina era una delle tante vedove di guerra che delle gioie del matrimonio avevano conosciuto pochissimo. Lui era partito per il fronte due giorni dopo le nozze, celebrate in grande fretta e sobrietà, e non era più tornato. Lei lo aveva atteso a lungo non rassegnandosi a quella fine precoce che l’aveva lasciata sola al mondo. Per un lungo periodo si era trascinata tra le macerie della sua vita, rifiutando una qualsiasi forma di ricostruzione, semplicemente lasciandosi vivere. Sino a quando non era comparso lui, aitante commesso viaggiatore, che non le aveva promesso niente (e del resto come avrebbe potuto?) ma che l’aveva riportata in superficie. A Tina tanto era bastato.

Naturalmente c’era chi aveva pontificato sulla sconvenienza di quell’amicizia ”indecente” e le comari del paese l’avevano senza appello condannata, celando sotto i loro sguardi impassibili giudizi morali irriferibili e severissimi. Ciò nonostante Tina aveva continuato a procedere a fronte alta da combattente nata, schivando tanta palese disapprovazione e commenti ingenerosi con abilità e leggerezza ostentate. Erminia sentì dentro di sé un moto che era insieme amore e odio per quel paese natio così abbarbicato ai pregiudizi da preferire la pura apparenza alla reale sostanza nelle cose. ”Cambierà mai qualcosa?”, si chiese dubbiosa e con un po’ di amarezza, sbriciolando con decisione nel posacenere quello che restava di quella cicca fumata con rabbia e perdendosi in un ricordo lontano.

La musica era piacevole e invitante da ascoltare tra i tavolinetti del caffè di piazza occupati dalla gente che contava. C’erano anche loro a gustare una fetta di cassata rimirando divertite il passeggio variegato che si offriva ai loro occhi. Più di un concittadino ammirava estasiato le luminarie allestite dall’amministrazione comunale nel centro urbano e lungo i viali alberati che portavano alla stazione e ai giardini pubblici. Ogni cosa di quella serata era il riflesso studiato di una grandiosità che aveva dell’incredibile dopo il lungo periodo di guerra e privazioni che li aveva flagellati. C’era un’autentica voglia di rinascita scaramanticamente esibita da quella parvenza di lusso e benessere mostrati quasi con sfrontatezza. Da lontano il farmacista, moglie e prole al seguito, fece loro un cenno di saluto. Tina, ricambiando educatamente, si attardò a considerare l’abito rigoroso di seta dai toni pacati indossato dalla donna a malapena stemperato dalla paglietta con il suo tralcio di glicine pastello, indugiando anche sui due figli, ragazza e ragazzo, palesemente a disagio negli abiti nuovi. Erminia li guardò con indulgenza. I gemelli, entrambi in classe con lei, erano bravi alunni. Tuttavia stette al gioco e continuò a tratteggiare con leggerezza con l’amica un paesano o l’altro suscitando spesso la sua ilarità. La voce le si affievolì in gola soltanto quando vide sopraggiungere da lontano, portati verso di loro da una fiumana vociante e briosa di gente, il suo amore di un tempo, ora marito e padre integerrimo, accompagnato dalla moglie e dai figli. Per qualche istante distolse lo sguardo, sperando che l’incedere sostenuto della folla li portasse lontano da lei, ma invano. Per tutti decise un venditore ambulante di palloncini, cui la famigliola si era rivolta per accontentare i figli minori, fermandosi a pochi passi dal loro tavolino. Impossibile far finta di niente. Per qualche frazione di secondo lei poté scrutare da vicino, ricambiata, quel bimbo, loro ultimogenito, che le sorrideva ignaro, il palloncino rosso legato a un polso, pensando al viso di quel figlio che pure per pochi mesi aveva anch’ella portato in grembo: a come sarebbe stato a quell’età, al colore che avrebbero avuto i suoi occhi, scuri come quelli del piccino che aveva di fronte o forse castani come i suoi. Con struggimento rinnovò quell’antico dolore che l’accompagnava ancora, macerandola senza tregua, e che le aveva impedito di pensare a un amore nuovo e a una nuova vita da far germogliare e sbocciare dentro di sé.

All’improvviso un colpo lontano ristabilì equilibrio facendola trasalire. Era il segnale convenuto di inizio dei fuochi. La moltitudine febbrilmente invertì la propria direzione, come un ordinato sciame di api che con diligenza cerca di seguire la propria regina, puntando velocemente verso quel richiamo e spopolando le vie cittadine, fino a poco prima brulicanti. Lei e Tina indugiarono lì impigrite a sbirciarne dalla piazza soltanto il riflesso variopinto e multicolore nel cielo oramai di velluto scuro, cullate dalla sinfonia di un noto melodramma, brano finale della serata, volenterosamente suonato dai musicisti per i pochi ascoltatori rimasti. Il loro applauso garbato si confuse con il fragore prepotente dei botti e loro si affrettarono con gli ultimi avventori a lasciare i tavolini al lavoro di riordino del cameriere in farfallino con i capelli impomatati di brillantina, ben felice di mettere la parola fine al quel faticosissimo turno di lavoro.

— Ho sempre amato la Tosca, esordì Tina, mentre i lastroni di pietra locale della stradina che le portava verso casa rimbombavano dei loro passi lenti. Erminia le sorrise e si accese l’ultima sigaretta, fumandola con la solita bramosia. Era stato uno strano sabato, pensò. ”E la domenica non sarebbe stata da meno”, aggiunse mentalmente, gettando in terra quello che rimaneva del mozzicone.

— Mi chiedevo, …

— Cosa, volle sapere Erminia.

— Se alla fine valga davvero la pena morire per amore, buttò lì Tina.

Erano giunte al portoncino dell’altra, già pronta a inserire nella toppa la pesante chiave di ferro brunito. Erminia si voltò pensosa, la mano a mezz’aria e la guardò. Sapeva che l’amica aveva sofferto e che la situazione attuale, apparentemente vissuta con nonchalance, era in realtà per lei fonte di profonda insoddisfazione. Scrollò le spalle, sentendosi all’improvviso stanchissima.

— Non saprei, Tina, temporeggiò. Domani passo a prenderti io per la funzione solenne se vuoi, propose poi con un mezzo sorriso. L’amica fece di sì col capo e le augurò piano la buonanotte prima di andar via.

Erminia salì adagio le scale, una rampa dopo l’altra, sino a raggiungere il secondo piano della sua abitazione con le tre stanze da letto vuote e perfettamente in ordine ed entrò nella sua, lasciando spenta la lampada sul comodino. Con antica abitudine tra le fessure delle persiane accostate sbirciò per strada, intravvedendo la sagoma di una coppia di innamorati che si baciavano con foga, protetti da un lampione provvidenzialmente spento prima che altra gente sopraggiunta d’improvviso li mettesse in fuga. Erminia chiuse le imposte e accese finalmente il lume, lasciandosi cadere seduta sul letto e perdendosi nella contemplazione silenziosa di una foto di diversi anni prima, mentre l’odore pregno di aria umida di quell’estate precoce e già così vicina si mescolava al profumo dei gerani rossi in prorompente fioritura sul suo balconcino, avviluppandola. La scuola avrebbe chiuso con i lavori di mietitura e trebbiatura per riaprirsi, come sempre, al profumo intenso del mosto conservato nei tini delle cantine interrate e fresche. Prese un libro di poesie poggiato di lato sul comodino apprestandosi a leggerne qualche pagina. L’avrebbe rasserenata con dolcezza, conciliandola con garbo con quello che del mondo a volte le era difficile accettare.

Tina sedette sul divanetto della toeletta che le rimandò la sua immagine sottile fasciata da una camicia da notte leggera. Sciogliendosi la crocchia dei capelli biondo scuro iniziò a spazzolarli con lentezza, colpo dopo colpo, con andamento ritmico. Un insieme di macchie colorate vistosamente attrasse la sua attenzione. Su una delle due poltroncine ai piedi del grande letto matrimoniale giaceva la vestaglietta della mattina, abbandonata in tutta fretta. Lei si alzò e la mise su una stampella che infilò nel fondo dell’armadio chiudendoselo in fretta alle spalle. Poi si appoggiò pensosa al mobile.

Lunedì mattina avrebbe di sicuro ricevuto la solita chiamata interurbana, avvisata dal fattorino del centralino telefonico. Questa volta, però, sentiva di dover trovare una scusa per non accettarla. Non aveva più voglia di continuare per quella che era diventata una salita impervia. Non traeva più gioia da quella passioncella che l’aveva restituita al mondo ma a un prezzo che adesso le pareva davvero esoso da pagare. Dalla cassapanca tirò fuori il suo copriletto più bello di seta di San Leucio, quello che aveva spiegato sul letto di sposa per la sua prima notte di nozze. Affondandovi il viso ne respirò l’odore di spigo tra cui anni addietro l’aveva riposto. Allora ce l’aveva col mondo intero e con quel Dio impietoso che l’aveva privata del suo piccolo microcosmo senza un apparente perché. Desiderò di lasciarlo l’indomani sventolare dal balcone come più non faceva, secondo un’antica consuetudine delle donne del suo paese, per omaggiare quella Madonna bizantina nera con Bambino in visita per le viuzze del centro tra frotte di fedeli adoranti. Terminando la sua tisana di biancospino si lasciò scivolare tra le lenzuola, scrutando serena l’oscurità familiare che l’avvolgeva da cui avrebbe forse, quella notte, tratto maggiore conforto.

In strada poco lontano un cane abbaiò alla luna piena e luminosissima, accucciato ai piedi del suo padrone, un vecchio contadino che stentando nel prendere sonno scrutava, sulla soglia del suo sottano, il cielo notturno e limpido pensando a quella giornata di lavoro che nessuno avrebbe intrapreso, offerta ”per devozione” a Maria Vergine, perché portasse acqua nei campi e un po’ di prosperità per tutti. E intanto sospirava con rassegnazione e con speranza. Il mondo andava sempre come doveva andare e tutti loro erano poveri cristiani in balia dei suoi capricci, come la terra dei campi soggetta alle tante stravaganze e intemperanze della natura. Ma il grano avrebbe finito con lo spuntare come sempre, lo sapeva. Ed era quella, forse, l’unica cosa che contava davvero.

Lucia Guida

* “Un dì di festa” in  Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

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Presenting “La casa dal pergolato di glicine”, my first novel

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Beach Hotel Punta de l’Est, 22nd August 2013, Francavilla al Mare (CH)

Nella foto Antonio Corradi, voce narrante, Catia Napoleone e Lucia Guida

( photo by Roberta Di Nicola)

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Festival Artistico-Letterario “Incaténati all’arte”, 24th August 2013, Auditorium Comunale, Catignano (PE)

Nella foto Chiara Cesarone, Lucia Guida e Alessio Masciulli

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VI Festival Internazionale della Letteratura-Saggistica-Filosofia-Arte al Femminile “Alchimie e Linguaggi di Donne” 21st September 2013, Museo Eroli, Narni (TR) 

Nella foto Esther Basile, Clara Schiavoni e Lucia Guida

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Feltrinelli Bookshop, Pescara 31st October 2013

Arianna Di Tomasso and Lucia Guida introducing “La casa dal pergolato di glicine”

 

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“Più Libri Più Liberi 2013” Bookfair, Rome, 8th December 2013

 

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” Primo Vere ” Fair Trade Emporium in Pescara,  Italy, 13th December 2013

Rita Pelusi and Lucia Guida talking about “La casa dal pergolato di glicine”

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“Shakespeare & Co.” Bookshop in Rome, 23rd May 2014

Maurizio Milazzo presenting the novel “La casa dal pergolato di glicine” by Lucia Guida

“Weekend d’Arte 2014”, Montorio al Vomano (TE), Italy, 29th June 2014

Presenting my novel with Cinzia Maria Rossi

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I Festival “Bevi ad Arte”, Poggiofiorito (Ch), Italy, 29th August 2014

Presenting my novel with Stefano Carnicelli, writer, and Dante Quaglietta, poet

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 FLA 2014 – XII Edizione del Festival delle letterature dell’Adriatico, Pescara, 6th November 2014


Presenting my book with Arianna Di Tomasso, Premio Aurum and Settimo Senso International Film Festival Art Director and Creator

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“Il salotto di Odilla”,  Justen Club, Pescara 15th February 2015

With Lucio Vitullo, poet, and Stefano Carnicelli, novelist

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“Domenica con gli autori” at Caffè Letterario, Pescara, 29th November 2015
With Ilaria Grasso and Cinzia Rossi

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“Buone Feste con i libri” Gran Caffè Cigno, Chieti Scalo, 21st December 2016 – Lucia presenting herself

È un viaggio per viandanti pazienti, un libro.

Alessandro Baricco

“All’ombra del Pergolato” – intervista a cura di INFOGESTIONE per “I Caffè Culturali”

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Nel mese di luglio 2013, grazie a una dritta di Cristina Lattaro, scrittrice versatile e ottima compagna di scuderia per un pezzetto del mio cammino editoriale,  ho avuto la possibilità di partecipare a un’esperienza davvero interessante: l’elaborazione di un’intervista online “a puntate” per conto de “I Caffè Culturali” , sito di INFOGESTIONE “dedicato alle parole e ad ogni loro espressione”. Questa conversazione a più voci è terminata ieri, 3 settembre 2013. Seduta comodamente a uno dei “tavolini riservati” agli autori che, come me, hanno voluto aderire a quest’iniziativa stimolante, ho avuto la possibilità di parlare dei miei trascorsi personali e professionali, delle mie idee sulla scrittura, di letteratura e cultura, quest’ultima intesa nella sua accezione più ampia, grazie alla competenza attenta di Gian Stefano Mandrino, Oriana Deiulio e Fabio Lauri.

Ve la propongo qui di seguito senza soluzione di continuità, aspettando i vostri commenti di contrappunto alle mie risposte e ringraziandovi sin da ora per la vostra pazienza e disponibilità

ALL’OMBRA DEL PERGOLATO

L’intervista all’ospite
I Caffè Culturali: “Chi è Lucia Guida?”.
Lucia Guida: “Gran bella domanda. Lucia Guida, classe 1965, segno zodiacale Acquario ascendente Gemelli, è un’apprendista affabulatrice in continua crescita. Ha iniziato a scrivere quando era una scolara delle elementari, continuando a farlo per buona parte della sua adolescenza. Poi si è dedicata ad altro, laureandosi nel marzo 1987 in Lingue e Letterature Straniere con una tesi di letteratura inglese su due romanzi di Thomas Hardy, Tess of the d’Ubervilles e The Return of the Native. Erano anni in cui non c’era corso monografico di letteratura in cui non si accennasse a buone pratiche come quella dell’analisi testuale. Ha, poi, per un anno insegnato all’estero italiano e all’età di 23 anni è diventata docente a tempo indeterminato della scuola statale italiana, continuando a studiare. L’ultimo corso di perfezionamento in Cultura, Diritto, Economia e Politica della Comunità Europea l’ha frequentato nell’a.a. 1993/94 presso la facoltà di Economia e Commercio di Pescara concludendolo prima di partorire sua figlia Roberta. Una lunga parentesi dedicata alla famiglia e ai figli. Nel 2006 ha partecipato a esperienze di lifelong learning per insegnanti di Lingua Straniera presso l’Università di Limerick, in Irlanda, partecipando a un progetto Comenius ed è risultata intestataria di una borsa di studio messa a disposizione dal Consiglio d’Europa per docenti dei paesi membri nel 2007. Nel medesimo anno si è nuovamente avvicinata alla scrittura aprendo il suo primo blog; nel 2008 si è cimentata con discreto successo in concorsi letterari nazionali e internazionali, pubblicando racconti brevi per diverse case editrici in volumi di autori vari. Nel settembre 2011 ha deciso di tentare da solista la strada della pubblicazione, realizzando con la Nulla Die di Piazza Armerina (EN), casa editrice non a pagamento, la silloge di racconti Succo di melagrana incentrata su storie di donne in bilico tra passato e presente. Figure femminili di riferimento che potremmo definire della porta accanto: l’universo femminile è così variegato che non si ha davvero necessità di andare troppo lontano per parlarne diffusamente. Nel luglio 2013 è, infine, stato dato alle stampe il suo primo romanzo La casa dal pergolato di glicine: una nuova storia al femminile per parlare di donne ma anche di uomini, di amicizia, di amore, di tematiche attuali come quella dell’Alzheimer e di molto altro ancora”.
I Caffè Culturali: “Perché Lucia Guida scrive?”.
Lucia Guida: “All’inizio confesso di averlo fatto per scopo terapeutico: scrivere nero su bianco su un foglio cartaceo o virtuale mi ha aiutata a mettere a fuoco molti dei miei pensieri e talvolta a riequilibrarli. Ho continuato a farlo perché i feedback sul mio primo blog, aperto nella community di libero per provare a vedere come buttava in quell’ambiente, erano più che accettabili: condividere sensazioni ed emozioni con i miei amici blogger mi gratificava tantissimo. Una grossa spinta in tal senso me l’hanno data anche i concorsi letterari nazionali e internazionali cui ho partecipato a partire dal 2008, dopo aver acquisito una maggiore disinvoltura scrittoria. Dopo il primo riscontro positivo ottenuto dall’essere rientrata in finale di un premio bandito dalla biblioteca di Capoterra (Cagliari), ho deciso di continuare a mettermi alla prova. L’ho fatto con sistematicità fino al 2011. In Italia si bandiscono tantissimi premi letterari, molti di pregio e altri di valore discutibile. Con un minimo di attenzione e di buonsenso si può riuscire a ricavare da quelli migliori, certamente non orientati al profitto di chi li organizza, spunti apprezzabili a migliorare e a tirar fuori ciò che si vuol condividere con gli altri. La parola è un potentissimo mezzo di comunicazione e premia sempre chi la utilizza con discrezione, senza snaturarne il senso. Alla filosofia olistica, che sento di abbracciare per molti versi devo, inoltre, l’idea che la parola, proprio in virtù della forte potenzialità evocativa che esprime, si riesca a concretizzare in azione pratica concreta. Un invito chiaro e forte a non abusarne, mai. Un’ultima considerazione, non meno importante, e in questo mi sento molto prof: la parola educa, che ci piaccia o no. Quindi attenzione ai messaggi che vogliamo dare scrivendo. L’arte giustifica le nostre scelte valoriali fino a un certo punto. Non si può correre il rischio di sbagliare in tal senso”.
I Caffè Culturali: “Cosa rappresentano gli altri per Lucia Guida ed in particolare per una scrittrice?”.
Lucia Guida: “Certamente potenziale umano. Da trattare con cura ma anche da osservare attentamente, in un’ottica possibilmente empatica. Come scrittrice e come essere umano. A volte mi capita di fare ciò in modo maggiormente distaccato e avviene che io prenda spunto, nelle mie storie, dalle persone che ho incontrato nel corso della mia vita. Da buona narratrice onnisciente cerco sempre di descriverle evitando di esprimere giudizi, per portare il lettore a farsi del personaggio un’idea propria, personale. Se accade che io mi affezioni a qualcuna delle mie creature scrittorie (e può succedere, le emozioni non si comandano sempre a bacchetta, neanche quando sono frutto di un processo di pensiero, creativo!) cerco di non farlo trasparire. Dagli altri, infine, si impara sempre e comunque qualcosa, anche da quelli che ci hanno fatto soffrire. Quanto meno a non ricadere negli stessi errori. Con un briciolo di consapevolezza si utilizzano le scelte di vita meno felici per andare avanti con maggior consapevolezza nel nostro percorso di crescita, cercando di tenere sempre bene a mente che, come qualcuno ha già detto, non esistono scelte sbagliate ma scelte funzionali a quel determinato momento. Una sorta di resilienza esistenziale, se così si può dire”.
I Caffè Culturali: “Cosa scrive Lucia Guida?”.
Lucia Guida: “Sono nata come autrice di racconti brevi e la mia preferenza va tutta a questo genere ingiustamente ritenuto ancora da molti minore. In realtà, almeno per quanto mi riguarda, c’è una sottile soddisfazione a creare in un arco narrativo temporale e scrittorio così breve una storia che abbia un inizio, uno svolgimento e un termine con coerenza e coesione testuali. E sempre a proposito del racconto breve, ho ancora alcune mail conservate in memoria di case editrici che, pur lodando il mio stile narrativo, mi esortavano a cimentarmi in qualcosa di più corposo: un romanzo, ad esempio. Vedere sei delle mie storie pubblicate da Nulla Die nella silloge Succo di melagrana è stata una piacevole sorpresa, riconciliandomi con un’editoria percepita per certi versi come matrigna e poco attenta ai bisogni/ interessi degli autori esordienti.
Nei primi mesi del 2012 ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo, La casa dal pergolato di glicine, terminato a ottobre dell’anno passato. E’ stata una fatica enorme, forse anche in virtù di ciò che vi ho già raccontato: la mia attitudine di vedere in poco tempo realizzate le mie fatiche. La scrittura per me è ancora un piacevole passatempo accanto a impegni lavorativi e familiari sostanziosi. Non avere talvolta il tempo di dedicarmici mollando tutto il resto è davvero desolante. Alla fine ce l’ho fatta ed è nato Pergolato.
Al centro di molte delle mie narrazioni c’è il mondo interiore femminile con le sue mille sfaccettature ma ho scritto anche di altro: ad esempio il mio racconto La Cumparsita, presentato al Modena Buk Festival 2013 in una raccolta di autori vari per il Violino, è la storia dell’ultimo giorno di vita di Mario, pensionato. Il mio battesimo scrittorio, avvenuto nel dicembre 2008, era, invece, incentrato sulla storia di Valerio, un bimbo di sei anni, e del suo primo giorno di scuola e si intitolava Il volo dell’aquilone. A me piace partire dalle piccole cose anche routinarie: un oggetto, un’idea peregrina, il ricordo di un particolare di qualcosa che qualcuno mi ha a suo tempo narrato e poi ricamarci attorno una storia. Trovo sia grandioso ed estremamente gratificante trasformare la realtà in qualcosa di unico, di nuovo, pur restando sempre e comunque ancorati a essa”.
I Caffè Culturali: “Come sono state accolte dal pubblico le sue opere?”.
Lucia Guida: “Dei racconti brevi pubblicati in collane di autori vari non saprei dire; in queste circostante fare gruppo aiuta certamente a raggiungere un buon risultato e nella diffusione e nelle vendite. La mia prima raccolta Succo di melagrana è andata in ristampa dopo due mesi, un risultato niente male per un’autrice esordiente/emergente come me. Sono soddisfatta anche delle recensioni ottenute dagli addetti ai lavori, complessivamente più che positive. Per il resto mi emoziona sapere che il mio libricino ( Succo conta 65 pagine, ringraziamenti e indice inclusi ) sia riuscito a toccare il cuore delle persone che l’hanno letto e mi auguro di cuore che per Pergolato possa ripetersi la stessa magia”.
I Caffè Culturali: “Cos’è il successo per un’autrice? Quanto è importante il pubblico per una scrittrice?”.
Lucia Guida: “Per come la vedo io successo è vedere bene accolte le tue produzioni dai tuoi lettori: da quelle persone, cioè, che hanno deciso di camminarti accanto nel processo di affabulazione da te iniziato; oppure passare la selezione di un concorso letterario, piccolo o grande che sia, perché evidentemente il messaggio che volevi trasmettere attraverso il tuo lavoro è arrivato al destinatario. E’ comunque continuare a mettersi in discussione e ad aggiornarsi, leggendo le opere di scrittori contemporanei noti e meno noti senza pregiudizi o atti di snobismo di sorta. Tutto serve a imparare qualcosa, anche il romanzo scritto in maniera forse un po’ troppo rapida, con sovrabbondanza di d eufoniche e scelte sintattiche e lessicali che non faresti mai. La scrittura è certamente un atto tecnico, di padronanza linguistica e stilistica, ma è anche un atto di cuore e, forse, talvolta di pancia.
Se è importante il pubblico per uno scrittore? Certo che lo è; la prima immagine che mi viene in mente è la gratificazione che mi dava, ai tempi del mio primo blog, leggere il feedback dei miei followers dato dai commenti a fine post. Nella scrittura seria il meccanismo è fondamentalmente lo stesso. Continui a scrivere anche perché chi ti ha apprezzato ti ha fornito rinforzo necessario per farlo ancora. Con un occhio di riguardo maggiore, man mano che passa il tempo, per il tuo pubblico: non credo ci sia nulla di più triste della delusione di un lettore che su di te ha puntato per vedere espresse e rinnovate le sue emozioni più significative e che si è visto tradito nelle sue aspettative”.
I Caffè Culturali: “Come avviene il suo atto creativo? Come pensa i lettori, se a questi volge il pensiero, durante la composizione delle sue opere?”.
Lucia Guida: “Volendo e potendo scegliere mi piace scrivere in assoluto silenzio nelle prime ore del mattino: mi sembra in tal modo di rendere al meglio. La scrittura per me è consapevolezza espressa concretamente, farlo in condizioni che reputo ottimali agevola di molto il processo scrittorio ed è un piccolo lusso che mi concedo, diversamente da molte altre cose del mio quotidiano personale e professionale, spesso da me portate avanti in contemporanea e nelle condizioni più disparate per carenza di tempo. Quando mi capita di scrivere qualcosa lo faccio d’emblée pensando in primis alla mia esigenza di comunicare il mio messaggio in modo immediato. Il lavoro di labor limae, successivo all’atto creativo, invece, tiene in considerazione maggiore il potenziale lettore oltre a conferire valore aggiunto al testo stesso; di sovente noi autori abbiamo la pessima abitudine di dare per scontate troppe cose, credendo che il pubblico possa arrivare alle nostre stesse conclusioni procedendo con noi di pari passo sin dall’inizio. Non è così. I percorsi di pensiero di un prosatore non sono sempre lineari: un buon editing dovrebbe tenerne certamente conto. Per come la vedo io, tuttavia, l’editing dovrebbe poter portar fuori il meglio di un autore senza snaturarne lo stile, in una sinergia in cui non ci siano né vinti né vincitori, ma entrambe le figure di autore e di editor siano collocate su un piano di assoluta parità, nel rispetto reciproco delle competenze di entrambi”.
I Caffè Culturali: “Qual è il suo rapporto con il mercato editoriale e con la dimensione economica dell’attività compositiva?”.
Lucia Guida: “Essendo pubblicata da una piccola casa editrice indipendente free non può che essere attento all’utenza, ai suoi umori e al dato concreto delle tante pubblicazioni presenti attualmente sul mercato editoriale. Ciò, tuttavia, non significa affatto negare la mia idea di scrittura impelagandomi a torto o a ragione in progetti editoriali che non sento affatto. Scrivere su commissione può anche essere ma non può diventare la costante per un autore, almeno questa è la mia opinione. Un conto è partecipare a un’antologia di autori vari concentrandosi su un tema unico, un altro, invece, dedicarsi a tematiche che non sono nelle tue corde. Ammiro quegli autori che con estrema versatilità spaziano da un genere all’altro, abbracciando filoni al momento considerati trendy e certamente bene accetti al pubblico dei lettori. Anche se poi mi chiedo come si possa tradire il patto narrativo stipulato con questi ultimi. Un lettore continua a leggerti anche perché nel momento dell’imprinting gli sei piaciuto. Cambiare disinvoltamente d’abito indossando un bel vestito certamente alla moda non significa tuttavia essere bene abbigliati. Ciò che sta bene a me può non star bene a te e viceversa. In questo sono molto tradizionalista e, forse, estremamente rigorosa. Lo dico con estrema semplicità e senza tema di peccare di pedanteria”.
I Caffè Culturali: “In precedenza ha asserito che la parola educa: lo scrittore e la letteratura hanno un ruolo sociale?”.
Lucia Guida: “Io credo di sì. Per come la vedo io hanno la precisa responsabilità di educare al bello e al buono, che a loro piaccia o no. La cultura (e nello specifico la letteratura) è una delle tante agenzie sociali educative oggi molto più che ieri, grazie anche alla straordinaria opera di globalizzazione costantemente in atto. Al di là dei limiti di una cultura massificata e stratificata non possiamo non riconoscere la grande potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare di internet. E a questo punto, se mi è consentito, vorrei spezzare una lancia nei confronti della lettura. Si dice che nel nostro Paese si legga pochissimo con percentuali al di sotto del 50% e con un numero di titoli pro capite statisticamente basso. In questo vedo una precisa responsabilità da parte della famiglia di origine e, certamente, anche della scuola anche se in subordine: per esperienza diretta so che il docente più illuminato può fare davvero poco a fronte di un nucleo familiare in cui non c’è nemmeno l’abitudine di acquistare un quotidiano o una rivista. Un bambino abituato a leggere è certamente figlio di genitori lettori. Anche in quest’ambito le buone pratiche valgono più di mille sermoni. Poi c’è il problema del cosa leggere, niente affatto secondario: la mia impressione da neo addetta ai lavori, entrata in punta di piedi nel settore editoriale, è che spesso si sottovalutino i gusti del pubblico, proponendo pubblicazioni estremamente free: di puro intrattenimento, cosa che se presa a se stante non sarebbe del tutto negativa, se, tuttavia, ad essa non si affiancasse talvolta una confezione poco curata, con riferimento ad aspetti tecnici come quelli linguistici. Accanto, quindi, al ruolo sociale assunto dall’autore e da ciò che scrive io pretenderei maggior consapevolezza anche da parte delle case editrici, con un occhio più attento alla qualità dell’opera oltre che alle leggi di mercato. Auspicando che questa mia idea non resti mera utopia ma porti a una maggior riflessione in tal senso da parte di tutti: autore, pubblico dei lettori, casa editrice, ugualmente partecipi del processo di affabulazione in atto”.
I Caffè Culturali: “Come educatrice, insegnante ed autrice cosa suggerirebbe al sistema scolastico/educativo, per invogliare gli studenti alla lettura?”.
Lucia Guida: “Tutto ciò che a tal proposito sia lecito, a cominciare dal proporre libri da leggere in cartaceo ma anche in ebook; la tecnologia è una delle caratteristiche preponderanti della nostra epoca, perché non servirsene per una giusta causa? Invitare di sicuro i ragazzi a leggere i grandi classici del passato per indirizzarli a farsi le ossa, così come i nostri insegnanti facevano con noi. Senza, tuttavia, mettere limiti alla provvidenza: qualsiasi genere letterario possa avvicinare alla lettura è ben accetto. Poi io sono convinta che si cresca e si impari a sperimentare anche in quest’ambito: ciò che, magari, a vent’anni non ci piaceva potrebbe essere diventato oggi per noi pane quotidiano e viceversa. Ho già parlato, infine, della necessità di operare in sinergia con le famiglie di origine dei nostri studenti, stimolandole a proporre e coltivare anche in famiglia buone abitudini di lettura. Magari regalando un bel libro invece dell’ennesimo cellulare di ultimissima generazione. Non omologarsi in tal senso potrebbe produrre risultati sorprendenti in termini di creatività e duttilità di pensiero dei nostri figli. Provare per credere”.
I Caffè Culturali: “A proposito di figli e di avvenire: quale futuro per Lucia Guida, autrice?”.
Lucia Guida: “Un futuro molto lineare. Al momento la scrittura per me rappresenta una grande passione coltivata nel tempo libero accanto alla docenza in un istituto secondario statale e a impegni familiari di tutto rispetto. Lo dico con estrema semplicità e consapevolezza, pensando con un pizzico di invidia e ammirazione a coloro che, invece, hanno la fortuna di dedicarvisi con sacro furore a tutto tondo, conquistandosi giustamente il titolo di scrittori. La cosa, tuttavia, positiva di coltivare come interesse alternativo la scrittura è, a mio avviso, la possibilità di rimanere con i piedi ben piantati per terra senza perdere mai il contatto con la realtà che ci circonda. Una prerogativa a mio giudizio importante, una specie di valore aggiunto necessario per crescere scrittoriamente e non solo. Quanto ai progetti a lunga scadenza, la vita mi ha insegnato a non farne troppi; a oggi confesso che non so con estrema chiarezza dove questa mia passione mi condurrà in futuro. Nell’immediato ho un’idea di scrittura ambiziosa, momentaneamente messa da parte per portare avanti la promozione del mio primo romanzo La casa dal pergolato di glicini, edizioni Nulla Die, a fine settembre presentato anche a Narni (TR) nell’ambito del Festival Internazionale Alchimie e linguaggi di Donne, I Saperi tra Teoria e Narrazione a cura della dott. Esther Basile dell’Istituto Filosofico di Napoli. Ho, poi, in cantiere da tempo, un divertissement in cui ho cercato di coniugare poesia e prosa che mi piacerebbe vedere un giorno alle stampe. La partecipazione, infine, con racconti brevi ad antologie di autori vari. E poi si vedrà, alla provvidenza intesa come utilizzo creativo delle energie che ciascuno di noi, me compresa, possiede ho oramai imparato a non porre mai limiti …”.

Il mio “Tavolino Riservato”, profilo e intervista compresi, è consultabile qui, in versione integrale

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Un matrimonio d’inverno

Mercoledì 14 agosto 2013 ho partecipato alla serata di premiazione del II Concorso Nazionale di Narrativa “Il Rovo”, organizzato dall’Associazione Isola Capojale di Cagnano Varano (FG), quale vincitrice del II premio per la sezione racconto breve con il mio lavoro “Un matrimonio d’inverno”. Il valore aggiunto di questo evento artistico-letterario, patrocinato da numerose associazioni culturali locali, era per quest’anno costituito dal forte accento dato alla problematica del femminicidio, contenuto in una sorta di “carta programmatica” parte integrante del bando di concorso stilata da Ottavia Iarocci a nome di tutta la giuria del premio con la finalità di scuotere gli animi  per mantenere altissima l’attenzione di tutti su questa piaga dei nostri tempi. Il tema del concorso era incentrato sulla donna garganica e sulla sua potenzialità di trascendere “(…) spazi e tempi, per assurgere a simbolo di tutte le donne. Di ogni donna.”

Nel mio racconto ho voluto parlare di mia nonna paterna, garganica di nascita, immaginando le sue aspettative, i suoi desideri, i suoi timori la notte prima delle nozze.

Mia nonna Antonietta, Etta per noi nipoti, era una donna semplice ma di grande intelligenza e sensibilità, dal carattere forte e combattivo. Il mio racconto non è un pamphlet per suffragette ma la storia addolcita da ricordi e narrazioni ascoltate da bambina di una donna di paese del sud come tante, legata ai ritmi biologici, alle credenze e al patto sociale stipulato con la sua gente in un’epoca in cui emancipazione era, per molte, anche soltanto poter scegliere di sposare l’uomo di cui eri innamorata.

Buona lettura

Un matrimonio d’inverno

Lina guardava attraverso la pesante porta di legno e sospirava, temendo che i suoi pensieri più cupi potessero realizzarsi. Era una sera di febbraio e la neve continuava a cadere incurante delle sue aspettative e delle sue speranze. Per cucire l’abito da sposa ci aveva speso sere intere attorno al lume a petrolio giacché a casa sua l’elettricità non c’era. Era cosa da ricchi, da signori. Quando le zie le chiedevano di portare a casa di don Matteo Capuano, speziale, le forme di pane fragranti di forno, guardava sempre con stupore la lampada di vetro luminoso così brava a fugare il torpore invernale di giorni che, invece, a lei sembravano non finire mai. Immaginando, con quell’aiuto, di far fruttare il poco tempo serale a disposizione da dedicare alla “robba”, al suo corredo, rubandolo al languore che in casa sua d’inverno scendeva troppo presto, dopo ore ritmate dalla fatica sin dall’alba.

Essere fornai era ricchezza e disperazione assieme.

Una fortuna d’inverno potersi scaldare al fuoco sempre acceso pensando nel contempo a quell’arte gravosa ma fruttuosa, fonte della loro sussistenza, che spesso la costringeva a levate antelucane quando le zie, oberate dalla fatica, erano costrette a chiederle di abbandonare il letto per un po’ d’aiuto extra.

E di notti lunghe e di giornate affannose dai cieli grigi e uniformi, ce n’erano state tante, ultimamente. Per il suo sposalizio le zie non avevano lesinato, empiendo cesti di tarallucci, pastaredde e prupate profumati alla cannella e ai chiodi di garofano. Zia Nunzia era stata categorica: avrebbe dovuto valere per la festa che alla promessa, lu revèle, non c’era stata e per le nozze che sarebbero state celebrate secondo le usanze paesane l’indomani, giovedì 14 febbraio. Lina guardò con occhi lucidi lo spazio familiare che l’aveva accolta da piccola ora disseminato di ogni ben di Dio, i fiaschi di vino rosso e le più raffinate bottiglie di rosolio ammucchiati ai lati dell’ampio camino. Tutto era pronto, architettato alla perfezione da quelle brave paraninfe di Michelina e Nunzia. L’indomani in Chiesa Madre all’altare sarebbero salite in tre: lei e le sue zie, a coronamento di una sorte matrimoniale che per loro a suo tempo e per vari motivi non si era compiuta.

Pensò preoccupata alle scarpine di pelle nera con cui avrebbe il giorno appresso sfidato gli eccessi di quell’inverno rigido di montagna, sfilando nel corteo nuziale al braccio di uno zio paterno tra cumuli di neve e lastre sottili e infide di ghiaccio. Le venne da pensare a sé come a un ciuffo di primule appena spuntate nella Defensa a sfidare il gelo in un trionfo di broccato colorato a celebrazione della sua gioventù e dei suoi desideri migliori. A un fischio noto trasalì e corse di là, nello stanzone che era la loro camera da letto, l’enorme ferriata delle zie e il suo lettino, una madia scura con colonnine a torchon sormontata da un lume di porcellana antico, una campana di vetro con la Madonna Addolorata, santini e foto sbiadite dei morti di famiglia rischiarati da un lumino. Era certamente il suo promesso e non era il caso che la vedesse prima del tempo. Le zie accorsero al segnale e consegnarono allo sposo e al compare d’anello la loro parte di banchetto nuziale perché fosse portata a casa dei futuri suoceri, più ampia della loro, serrando di scatto le imposte ma non abbastanza da non permetterle di scorgere gli occhi chiari di Angelo, i capelli biondi spolverizzati di fiocchi minuti, le guance arrossate dal freddo e da pensieri facilmente intuibili. Abbassò gli occhi ritraendosi. Poi, insieme alle zie, cominciò a recitare il Rosario come ogni sera, pregando per il suo bel sogno d’amore, principiato al pellegrinaggio al santuario di S. Maria di Stignano durante una maggiolata propizia. L’aveva incontrato lì, bello e aitante d’aspetto, appena congedato dal servizio di leva obbligatorio. Si erano piaciuti a prima vista, lei capelli e occhi scuri e pelle di latte e lui così nordico per quelle latitudini. Nemmeno l’anno in più di Lina aveva fatto la differenza. Angelo aveva preso a corteggiarla con discrezione, passando varie volte per la strada in cui lei abitava e gettandole occhiate ardite, da lei ricambiate con piacere. Lina aveva interrogato il destino la notte di San Giovanni e l’albume d’uovo coagulato nell’acqua si era definito in una pala, strumento evidente del lavoro di cantoniere del suo spasimante. Fino a quando zì Nicola, in qualità di ambasciatore, aveva chiesto di conferire con lo zio Pietro. L’incontro, però, non era stato dei più felici; suo zio non era convinto che Angelo, di famiglia di contadini, potesse andar bene per lei, nipote di fornai. C’era voluta tutta la risolutezza benevola delle zie, cui Lina si era confidata, per convincerlo che il salario del giovane sarebbe stato una degna aggiunta ai proventi dell’arte bianca di tradizione familiare. Alla fine lo zio aveva ceduto e Angelo si era visto recapitare il tanto agognato mazzolino di fiori, segno di approvazione della famiglia di lei alla sua corte rispettosa.

Lina finì di sbirciare la nevicata sottile che aveva ricoperto e ingentilito le irregolarità della scalinata davanti alla sua casetta.  Il cielo era ovattato e chiuso in un biancore incerto che la fece sospirare ancora ma stavolta non la scoraggiò.

Si strinse al petto un fazzoletto ricamato pegno del suo amore, certa che uno identico l’avrebbe sfoggiato Angelo nel taschino del suo “abete nove”. Poi Nunzia e Michelina le augurarono la buona notte ciascuna con un bacio.

Tra due giorni la loro amata nipote avrebbe compiuto vent’anni di vita come donna maritata. “Cu la grazia di Dije”, certamente.

Tra le viuzze silenti del paesino abbarbicato con fiduciosa tenacia a rocce benevole senza tempo correva, imperturbabile e sereno, l’anno 1924.

Lucia Guida

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la foto è tratta dal bellissimo blog Amara Terra Mia , celebrazione in web di “Storia, tradizioni e Natura in web del Gargano”

Il corpo delle donne

E’ un momento difficile per tutti. Specialmente per noi donne, in una società che accetta con indifferenza omologazione femminile  a gogo glissando, altresì, con altrettanta e pessima nonchalance sui tanti, troppi episodi di femminicidio. Cambiare mentalità è una questione di educazione. Educarsi a volersi bene per educar bene gli altri un atto dovuto.

Per voi un post di qualche mese fa rebloggato da LiberArti a cui tengo particolarmente. La mia personale e concreta testimonianza di questa scelta difficile ma possibile
Buona lettura

Il corpo delle donne

Se ripenso ai miei 48 anni rivedo 48 primavere di battaglie infinite, molte delle quali combattute contro me stessa: contro alcune convinzioni con cui sono cresciuta e che per buona parte della vita mi hanno accompagnata. Segnando a volte le mie scelte. Condizionandomi. Generando in me innumerevoli sensi di colpa e lasciandomi lì a macerarmi tra mille se e mille ma. Eppure ce l’ho fatta. A un certo punto del cammino seppure con fatica sono riuscita a riequilibrare la mia vita, a darle un’impronta per me positiva. A volermi bene e a continuare ad accrescere la mia sensibilità femminile con la scrittura.

Ogni donna alla ricerca tardiva della propria consapevolezza rinasce per almeno una seconda volta a nuova vita. Lo fa quando si assume le responsabilità che le competono tirando avanti con coraggio per metabolizzare promesse d’amore mancate. Quando lotta per riappropriarsi della propria vita scegliendo di vivere di luce propria e non già di luce riflessa. Quando tenta di far valere la propria intelligenza congiuntamente alla propria femminilità in un paese, il nostro, in cui,  forse più che altrove, una donna di spessore è sempre guardata con sospetto. Uno spaccato sociale, quello italiano, in cui si ricorre alle quote rosa , di per sé concetto palesemente  discriminante, tentando di riequilibrare burocraticamente  ( almeno sulla carta! ) la par condicio in materia di genere. E’ lampante e pacifico che anche in politica un parere al femminile possa valere tanto quanto un’opinione maschile; mi correggo, che a volte possa valere molto di più. Perché una donna intelligente agisce con quello che i popoli anglosassoni definiscono quickthinking:  una buona dose di vivacità mentale che  la porta in tempi accettabili e con ragionevole prontezza a ricercare e ottenere la soluzione giusta al problema che ha davanti. Superiorità razziale? No, semplice istinto di sopravvivenza. Quello che, nel corso dei secoli, ci ha condotte ai nostri giorni rafforzando la nostra grinta e la nostra determinazione a dispetto di palesi discriminazioni coniugate  ancestralmente al femminile. Che assai spesso ci ha fatto accettare e metabolizzare frasi come “ dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”. Che ci ha portate talvolta a svilire il nostro aspetto fisico per omologarlo (sic!) a vario titolo al sentire comune tipicamente maschile: se è bella non ha altro da offrire. Come se contemperare intelligenza, tenacia e un aspetto fisico gradevole fossero poi una colpa esplicitata da una miopia intellettuale che continua a rincorrere le donne tentando di insinuarsi in quelle poche certezze così a caro prezzo da esse raggiunte. Spingendole ad addossarsi, a torto o a ragione, colpe  che nessun uomo di media levatura si sognerebbe lontanamente di mettere in conto.

A inizio di terzo millennio la situazione femminile appare stagnante. Pochi i guizzi felici nella quotidianità di molte donne e un cammino lavorativo, professionale e familiare condotto di sovente in salita. Per quelle donne che, ovviamente, decidono di raggiungere una meta qualsiasi senza addivenire a compromessi di nessun tipo, fedeli alla propria essenza e fiduciose del proprio valore e di null’altro.

Il corpo delle donne da scandalo. Il corpo delle donne spaventa. Il corpo delle donne è un comodo passepartout. Nel virtuale e nel reale.

L’unica salvezza possibile è, tuttavia, che il corpo delle donne continui ad appartenere solo ed esclusivamente alle donne: e per corpo intendo l’accezione più antica di corpus e cioè l’insieme inscindibile di cuore, mente, anima.

Auguri di buona vita a tutte noi.

Lucia Guida

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 In foto “Amiche al mare”, Grottammare (AP), 1925 – collezione privata dell’autrice.

N.B. Per chi voglia leggere in originale il post il link di riferimento è questo

Presentazioni d’autore: “Milites – soldati” di Cristina Lattaro

Cari amici, in questo post vi presento il romanzo “Milites-soldati” di Cristina Lattaro, versatile autrice reatina da me conosciuta personalmente in occasione di una tavola rotonda incentrata sulla scrittura al femminile organizzata dalla Nulla Die, casa editrice siciliana indipendente, nell’ambito di “Più Libri Più Liberi”, fiera della piccola e media editoria, edizione 2012.

“Milites” è stato pubblicato a inizio del 2013 dalla casa editrice Lettere Animate per la collana di narrativa contemporanea Raccontando.

Se ne avete piacere potete leggere in prima battuta questa recensione nel mio spazio di LiberArti.

 

Il romanzo

Immaginate un libro ricco di riferimenti introspettivi contenuti in una cornice per certi versi da noir di buon livello in cui viene inoltre affrontata una tematica attuale e scottante, quella dell’omosessualità e della difficoltà di farne con consapevolezza outing in un ambiente sociale e professionale qual è quello militare.

“Milites” di Cristina Làttaro, Casa Editrice Lettere Animate, è questo e altro, tessendo con abilità e un linguaggio scrittorio di ottimo livello un sottile ma robusto filo di Arianna, affidato già in prima battuta al lettore chiedendogli di dipanarlo pian piano, lentamente attraverso le pagine dell’intreccio narrativo di questo romanzo costruito in maniera piana ma soltanto all’apparenza.

Fabio Mosto, protagonista, è un colonnello dell’esercito impegnato a riscattare la propria esistenza, quanto meno in ambito professionale, sperando che ciò lo ripaghi di una nascita illegittima e di un padre che non l’ha mai voluto incontrare pur essendosi sobbarcato del suo mantenimento e averlo favorito all’inizio della sua carriera militare. Domizio Bruni, al contrario, è un rampollo dell’aristocrazia concentrato nello spasmodico sforzo di autoaffermarsi, spesso a discapito degli altri, utilizzati e messi via con estrema leggerezza. Entrambi, anche se per ragioni distinte, hanno ripiegato sulla carriera militare e taciuto sulle proprie preferenze sessuali. All’indomani della morte per droga del suo amante David, dovuta al suo abbandono, Fabio è addirittura arrivato a ricostruirsi una nuova “verginità” sociale sposando Amina, donna incolore e insignificante che gli ha dato una figlia, Erica. Domizio ha, invece, continuato ad esercitare il proprio fascino maschile senza scrupoli di nessun genere, divertendosi a irretire commilitoni di esperienza tanto quanto giovani reclute alla ricerca di nuove sensazioni proibite. A un certo punto della vicenda entrambi si trovano l’uno al fianco dell’altro. L’irreparabile accadrà inevitabilmente ma questa volta Mosto cercherà di cautelare quanto meno sua figlia, avvicinata per vie traverse da Domizio per arrivare a lui.

La narrazione si svolge secondo la falsariga di cronache militari contraddistinte non da capitoli ma da riferimenti topologici e da date non necessariamente disposte in ordine cronologico, finalizzate a condurre il lettore in profondità nella storia spaziando disinvoltamente nell’arco di più un decennio tra colpi di flashforward e flashback. Secondario ma non per questo meno rilevante è il tema del sovrannaturale, così caro all’autrice, racchiuso in un elemento piccolo ma significativo: un mammoccio di pezza costruito dal sergente Rocco Fani e investito da energie negative secondo i dettami tramandatigli dalla nonna, esperta in magia nera, per annientare Bruni col quale ha intrattenuto una relazione fugace e che di lui non vuole sapere più nulla.

Un’ultima notazione è sulla location del romanzo, ambientato in maniera preponderante a Rieti: una Rieti per certi versi misteriosa e riservata, descritta come testimone silente della complessità e del coacervo di emozioni e sensazioni di un gruppo di uomini spesso dipinti,  di certo per effetto di stereotipi e/o tipizzazioni ancora estremamente radicate nel nostro tessuto sociale, come machos incorruttibili, ben lontani  da quella che talvolta si rivela come concreta realtà.

 

L’autrice

Cristina Lattaro, prolifica e versatile scrittrice, nasce e vive a Rieti. Esercita la professione di ingegnere elettronico presso il reparto di Ricerca & Sviluppo di una multinazionale statunitense. Titolare di cinque brevetti USA e presente in due articoli scientifici, ha pubblicato nel dicembre 2011 La saggezza dei posteri, nell’aprile 2012 LusoresCalciatori, nel novembre 2012 Il volo di carta in due e-book, nel gennaio 2013 Milites – Soldati,  nel febbraio 2013 Stryx Julia, Biglia di vetro vol. 1 e 2 nel marzo e maggio 2013. Dal 30 agosto 2012 è ospite fisso in un ciclo di trasmissioni dedicate ai libri e all’editoria presso l’emittente televisiva Rieti Lazio TV  (RLTV, canale 677 digitale terrestre).

Cristina Lattaro, Milites – soldati, ISBN: 9788897801535, € 10,00 

 

 

 

 

 

 

RLTV 677 presenta “La casa dal pergolato di glicine” di Lucia Guida, edizioni Nulla Die

“Pomeriggio 2.0″ è una trasmissione in streaming di RLTV, emittente reatina, in cui Cristina Làttaro, scrittrice, e Sonia Rosatelli, conduttrice, parlano di libri di nuova pubblicazione e di editoria.
In questo video Cristina e Sonia presentano “La casa dal pergolato di glicini”, in uscita il 15 luglio 2013 e mio primo romanzo. L’intervista include una chiacchierata con Salvatore Giordano, Direttore Editoriale della Nulla Die, mia casa editrice.
Buona visione a tutti

Alla fine di una storia – Aspettando la pubblicazione de “La casa dal pergolato di glicine”

 

I momenti che precedono la pubblicazione di un libro mi rimandano con un pizzico di nostalgia ai primi minuti che hanno seguito la nascita di entrambi i miei figli.

Tanta stanchezza, la sensazione di esserti liberata di un peso e al contempo il rimpianto di quel pancione che per nove mesi ti ha accompagnata ritmando le tue albe e i tuoi  tramonti.
Sono dichiaratamente una shortstory teller, un’autrice a cui sta a cuore veder concretizzata la propria opera in poco, pochissimo tempo; cimentarmi in un romanzo mi è costato una fatica immane, primo tra tutti il timore di non riuscire a delineare in modo organico la storia che mi frullava dentro con la stessa dimestichezza con cui, da tempo, nelle mie ore di libertà, mi diverto a scrivere racconti brevi.

Alla fine ce l’ho fatta. Sono arrivata al traguardo duplice di portare a termine la narrazione di un’estate memorabile, quella di Marina Federici, protagonista del romanzo, e di renderla manifesta e palese ai miei lettori attraverso un’opera di editing altrettanto sofferta e corposa.

So che  qualcuno sorriderà, ma queste 154 pagine sono state le più lunghe della mia vita di donna essenziale, più incline a concretizzare in breve il mio mondo di pensieri. Evocando e suggerendo piuttosto che servendo, sia pure su un piatto d’argento, emozioni e stati d’animo per il tramite di immagini scrittorie che ciascuno potrà completare legandole alla propria esperienza di vita.

“La casa dal pergolato di glicini” è quasi pronta per affacciarsi sul mondo, racchiusa in una copertina che è la riproduzione fotografica di Massimiliano Giordano, mio giovanissimo editore, di un dipinto di Marian Fortunati, pittrice americana en plein air intitolato “Wisteria Shadows”. Un titolo suggestivo e quanto mai emblematico per introdurre una storia di amore, affetti profondi e amicizie per la vita.

Una storia intessuta di quotidianità come le piccole e grandi cose di cui mi piace parlare e scrivere, questa volta permeata dal profumo forte e deciso di un tralcio di glicine in piena fioritura.

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La Cumparsita

“Primavera Letteraria” è il titolo di un’antologia di trenta racconti selezionali dalla II edizione del Concorso Letterario “Scrivendo volo-Buk Modena”, sponsorizzato da Il Violino, gruppo Historica, nell’ambito dell’omonima fiera editoriale tenutasi nelle giornate del 23 e 24 marzo 2013. La raccolta comprende racconti brevi di autori esordienti ed emergenti che spaziano da tematiche forti come l’eutanasia, la violenza sui minori a storie di vita quotidiana, avventure d’amore e fiabe.

“La Cumparsita” è il mio personale contributo ed è la storia di Mario, pensionato, e della celebrazione che questi fa del compleanno di sua moglie Marisa. Con un finale decisamente a sorpresa e per certi versi catartico e  per lui riscattatorio.

Buona lettura

La Cumparsita *

Per gli altri sarebbe stata, forse, una giornata come tante. Per lui era il 20 di aprile ed era il giorno del compleanno di Marisa, sua moglie, che ora non c’era più.

Mario se lo ripeté con pacatezza, sorseggiando lentamente il suo caffè addolcito da una zolletta di zucchero ascoltando i primi gorgheggi di Bel Ami. Alle sue spalle una lama sottile di sole piombò in cucina dalla portafinestra del ballatoio, spartano ma ingentilito da piante in abbondante fioritura.

La zolletta di zucchero era un piacere che di rado si concedeva, soprattutto adesso che il contrappasso da subire erano i vivaci rabbuffi del suo dottore, preoccupato che da quella sovrabbondanza di dolcezza il suo stato di salute potesse patirne. Ma cosa poteva farci se a lui l’aspartame contenuto in asettiche bustine blu non piaceva? I primi granelli sciolti in bocca gli riportavano immancabilmente alla mente la polvere di borotalco con cui sua madre sin da bambino si incaponiva ad aspergerlo: finissima, impalpabile. Pronta, tuttavia, a lasciare tracce evidenti di se stessa nei posti più disparati e quando meno te l’aspettavi: sul bavero della giacchetta, ad esempio. Diventando spunto utilissimo per gli sfottò a metà tra il bonario e il sarcastico dei suoi compagni di classe, quando giovanotto, ai tempi della scuola, capelli rigorosamente impomatati e riga a sinistra, percorreva veloce, libri sottobraccio, i corridoi lucidissimi del liceo ginnasio del suo paese nei suoi abiti migliori di studente.

Il trillo del citofono lo fece d’improvviso sussultare; consultando l’orologio sulla parete di fronte seppe con certezza che era il postino nel suo giro quotidiano di consegna e decise di non aprire. Ammucchiate sulla console di marmo dell’ingresso c’erano tre fatture. Quando il giorno prima   ne aveva aperta una, quella della  fornitura del gas metano, gli era venuto un colpo: quattrocento euro erano davvero tanti e avrebbero pesato in modo considerevole sul suo magro budget. Avendone avuta contezza si era quasi sentito male e non era riuscito a darsi il coraggio necessario per aprire le successive due, quelle dell’elettricità e della nettezza urbana, altrettanto certo di non riuscire a farvi fronte.  Sollevando lo sguardo verso la cornice di legno chiaro dalle volute dorate aveva incrociato lo sguardo sorridente  e rassicurante di sua moglie. Con un sospiro impercettibile era tornato al tempo in cui lei c’era ancora; ai miracoli che sapeva fare, infilando senza sosta un tassello dopo l’altro nel mosaico della loro esistenza per comporlo con affidabilità e lievità. In quel frangente lei avrebbe certamente saputo come rimediare. Possedeva un’abilità particolare nell’amministrare le loro sostanze con amorevole accortezza ed efficienza, privandolo senza indugio della noia e della fatica mentale di occuparsene.

Bel Ami decise di lanciarsi in uno dei suoi assolo interminabili distogliendolo da quelle riflessioni cupe. Mario si era sempre stupito della capacità di quel canarino minuscolo, pochi grammi di piume, di tenere la scena con la possanza del suo canto, vigoroso al punto tale da fargli vibrare con persistenza i timpani. Eppure non doveva essere facile zampettare e svolazzare in una minuscola gabbietta; a volte lui, impietosito, provava ad aprirne lo sportellino, bene accorto che l’altro dal tinello non scappasse via lontano. Ma era comunque una sofferenza vederlo sbattere con le ali contro muri e arredi, impazzito di gioia e privo dell’antico senso di orientamento, sino a quando giocoforza non riusciva a convincerlo, un po’ con le buone e un po’ con le cattive, a rientrare nella sua prigione domestica.

In camera si levò la giacca del pigiama celestino di flanella e la poggiò con estrema cura sulla spalliera di una sedia dal fondo intrecciato, vestendosi con abiti puliti per la sua consueta passeggiata di metà mattinata,  terminando la sua toeletta con appena un’ombra di dopobarba. A Marisa  sarebbe piaciuto vederlo così. Gli era venuta un’idea per trascorrere quella giornata in odore di malinconia. Serrando con cura l’uscio sulle ultime note del suo beniamino, adeguatamente rifornito di becchime e acqua fresca per la colazione, piombò nella silenziosità di quel condominio di semicentro, deserto a quell’ora del mattino, aspettando con pazienza che l’ascensore lo raggiungesse al piano per portarlo nell’androne buio dal vago sentore  stagnante di umidità. All’aperto la primavera lo accolse stordendolo con la luminosità di un cielo azzurro privo di nuvole con probabilità spazzate via dallo stesso vento che si divertiva a sollevare qualsiasi minuzia trovasse in terra, giocherellando anche tra i suoi radi capelli bianchi. Con abilità consumata schivò umanità dopo umanità mantenendosi al limitare degli edifici. Oramai la fretta non faceva più parte della sua quotidianità, poteva permettersi il lusso di una camminata morbida, distesa. Gli venne da pensare a tutte quelle persone che si affannavano incrociandosi per strada senza sfiorarsi con lo sguardo; alle mille cose che segnavano le loro vite, impoverendole o arricchendole. A quella molla fatta di determinazione, di caparbietà, ma forse anche di amore ( per se stessi, per un’altra persona, per la vita stessa) che li spingeva con forza in avanti scandendo le loro giornate, colorandole o semplicemente riempiendole di piccoli gesti  che dessero un po’ di senso al loro incedere.

C’era stato un tempo in cui anche lui era stato della partita. Del lavoro aveva fatto la sua realizzazione personale, l’altare su cui immolare il meglio di se stesso come uomo, grazie anche alla profonda disponibilità di sua moglie che aveva capito e, con ammirevole devozione, si era tirata un passo indietro. Dedicandosi ai poveri della parrocchia, a un paio di nipoti acquisiti, alle sue piante di geranio, pronte a ogni primavera a rifiorire con gratitudine negli ampi vasi di coccio in fila come soldati sul balcone della cucina.

Non avevano avuto figlioli ma lui di questo non si era particolarmente dispiaciuto. La loro vita gli sembrava compiutamente  a posto, non avvertiva la mancanza di un terzo incomodo che potesse rubargli le attenzioni di quella donna bellissima e dolce che era sua moglie. Si erano conosciuti in una serata estiva allietata da una festa di piazza mezzo secolo fa. Lui era appena arrivato in città e aveva preso il posto in un ufficio della pubblica amministrazione, lei stava finendo di studiare da maestra. Tempo sei mesi ed erano diventati marito e moglie con la benedizione di entrambe le famiglie. Marisa era riuscita a diplomarsi dedicando buona parte delle sue serate domestiche allo studio mentre lui trafficava con la televisione, comprata a rate con i proventi dei primi straordinari. Quel pezzo di carta conseguito da sua moglie con estrema diligenza e determinazione, era finito nel fondo di un cassetto del comò senza che lei pensasse di farne un uso reale. Si erano amati per una vita intera con una dedizione totale che lui nelle coppie di oggi non riusciva a scorgere. Una vita  trascorsa in un soffio, quasi un battito d’ali, di cui aveva scoperto la preziosità nel momento in cui lei, con la discrezione di sempre, una mattina d’autunno di un paio di anni or sono se n’era andata. Quando lui se n’era accorto non aveva voluto crederci; lasciarlo così, in silenzio, senza una  parola di commiato. Si era sentito tradito e aveva aspettato attonito che le ore passassero lente sino a sera inoltrata; poi aveva raccolto le ultime forze residue e chiamato una vicina chiedendole di aiutarlo in quello che da solo non aveva proprio cuore di fare: vestirla per quell’ultimo viaggio con uno dei suoi chemisier fiorati così poco intonati all’atmosfera novembrina di quella giornata.

Il centro commerciale, meta di tante sue peregrinazioni, era quasi in dirittura d’arrivo. Ci andava piuttosto spesso, accolto dalla musica di sottofondo inframmezzata dai tanti annunci pubblicitari, le signorine delle promozioni, le vetrine seduttivamente illuminate e la grande e monumentale fontana a cascata, circondata da piante tropicali così verdeggianti da sembrare quasi vere. A volte si contentava di un giretto tra il pianterreno e il secondo piano, pavoneggiandosi sulla scala mobile ben impettito, quasi ad avere il controllo di quel mondo fantasmagorico in cui potersi perdere per qualche ora, guardando dall’alto in basso quella variegata moltitudine, simile a formiche operaie obbedientemente in marcia verso una meta prefissata con rigorosità da un capo invisibile. In altri momenti decideva di fare visita al supermercato a caccia di offerte promozionali, riposando poi col bottino su una sedia di plastica del bar caffetteria a ridosso dell’uscita, scrutando i volti dei nuovi arrivati e di coloro che, ultimato il giro degli acquisti, con meno leggerezza si apprestavano a fare ritorno a casa. Constatando assai spesso come la sovrabbondanza di alcuni carrelli fosse inversamente proporzionale all’entusiasmo e alla felicità dei loro proprietari.

E intanto fantasticava di storie di cristiani di cui raccontare  mentalmente alla sua Marisa, immaginando di commentare con lei bonariamente ciò che in passato aveva costituito per loro sommo divertimento.

Quel giorno, tuttavia, indugiare nel loro passatempo preferito non gli dava la soddisfazione solita. Pensare al compleanno della sua amata, non più accanto a lui, e a quelle maledette fatture destinate e ricoprirsi di un velo impalpabile di polvere gli dava un tormento indicibile.

Con un gesto di stizza che lasciò interdetta la giovane promoter che l’aveva avvicinato disdegnò l’assaggio di torta che questa gli proponeva, continuando a vagare da uno scaffale all’altro senza una parola neanche a se stesso; alla ricerca di qualcosa d’indefinibile che non riusciva ad inquadrare, reggendo in mano la sportina vuota che quella volta non gli riusciva proprio di riempire con qualcosa. Poi d’improvviso fu colpito da un pensiero bizzarro, risollevandosi.

Il detective dell’ipermercato, spalle da giocatore di rugby insofferente sotto il vestito scuro di ordinanza,  traccheggiava con noncuranza con la signorina del caffè in offerta speciale.  Quelle schermaglie amorose tra una degustazione e l’altra erano l’unico modo possibile per tirare in modo accettabile quella giornata soporifera, senza mordente. Diviso tra il generoso decolté della ragazza e la  porta d’ingresso principale,  degnò appena di uno sguardo quel pensionato in cravatta demodé e giubbino scolorito tirato sino al mento, sagomato addosso in modo davvero singolare. L’uomo li oltrepassò e rispose con un brusco cenno di testa al saluto della promoter, il volto ostinatamente rivolto davanti a sé, puntando con troppa  sicurezza l’uscita senza acquisti a poca distanza da loro. L’annuncio del megaconcorso in atto – primo premio una lussuosa autovettura ibrida! – dissimulò malamente il sibilo del dispositivo antitaccheggio, mentre la filodiffusione iniziava a diffondere una vecchia melodia a ritmo di tango. Il vigilante ricordò che la Cumparsita  era stato cavallo di battaglia dei suoi nonni in innumerevoli estati trascorse in balera sulla riviera. Trasalendo al peso di quel ricordo che era riuscito a strappargli un’ombra di sorriso, abbandonò di colpo la sua compagna per seguire l’anziano, dribblando a fatica una famigliola di turisti stranieri al completo e il loro carrello stracolmo di cibo che gli avevano  d’improvviso sbarrato il passo.

Accecato dal fiotto di luce intensa ricevuta  bruscamente in volto all’apertura delle porte scorrevoli, Mario attraversò il parcheggio semideserto cercando col cuore in gola un’oasi cui porre riparo col sudore che gli imperlava il viso contratto dalla fatica di farcela a tutti i costi.

All’ombra di un’acacia in piena fioritura si sbottonò con fatica la giacca, traendo sollievo dal fiotto benevolo di aria fresca e profumata. Con una smorfia soddisfatta contemplò  il suo bottino, una bottiglia di ratafìa e una scatola di ricciarelli, sicuro che Marisa avrebbe incondizionatamente approvato la sua scelta.

Assaggiandone uno lasciò con voluttà che gli si sciogliesse in bocca, gustandone pian piano il sapore delicato. A occhi chiusi avvertiva la stessa fragranza lieve aleggiante nella loro camera da sposi il giorno delle nozze: un lieve e beneaugurante sentore di vaniglia e di cose buone, pulite.  All’epoca lui e Marisa avevano percepito il mondo intero nel palmo di una mano sola che, tanto per scaramanzia, non avevano stretta a pugno; si auguravano che la vita sarebbe stata con loro indulgente, lo speravano di cuore. E per certi versi era stato così, il destino li aveva fatti incontrare e aveva permesso che condividessero con amore, affetto, rispetto una fetta considerevole di cammino insieme. A molti non era capitato, convenne, poteva ritenersi ampiamente soddisfatto. Spingendo da parte la bottiglia di ratafìa, troppo stanco per provare a stapparla per un brindisi, si rilassò sulla panchina di ferro levigata dai tanti avventori di passaggio, poggiando la nuca sulla sommità della spalliera. Se in quello spicchio di cielo poteva ancora scorgere le rondini sfrecciare puntualissime all’appuntamento di stagione, malgrado quell’aria grigioazzurra cittadina e dolente, c’era ancora  speranza per sé e per tutti pensò, finalmente rasserenato e in pace con il mondo intero.

Il vigilante, occhiali da sole ben inforcati, focalizzò con sveltezza professionale l’immagine lontana dell’uomo, appena un puntolino seduto su quell’accenno di collina, pochi alberi ad ombreggiarla come retaggio lontano del giardino pubblico che un tempo era stato. Era sua intenzione raggiungerlo di soppiatto per contestargli l’accaduto e chiedergli di seguirlo. In tono soffocato l’altoparlante esterno riprodusse gli ultimi brandelli della Cumparsita   mescolati a voci umane e a rumori di automobili in movimento, pigra routine sonora di  un giovedì pomeriggio di primavera avanzata.

Un solo attimo per ghermire con piglio deciso e mascolino la spalla magra di Mario e un attimo ancora per riceverne, con stupore, sul dorso la testa coperta di capelli immacolati, sottili e radi, reclinata con garbo. In paziente, pacata resa.

Alla sua destra l’ombra vaga di una donna eterea, capelli biondi al vento e sguardo luminoso all’orizzonte lo degnò appena di uno sguardo. Poi, quasi con sfida, si protese verso il suo sposo e, prendendolo per mano con grazia decisa e irridente, lo portò via con sé, lontano.

Lucia Guida

* “La Cumparsita” in A.A.V.V., Primavera Letteraria, Roma, Il Violino Edizioni, 2013

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Celebrating Women

Mala tempora currunt per le Donne italiane. Ciascuna di noi avverte la sofferenza segreta di far parte di una categoria a rischio, molto più a inizio di questo millennio che in precedenza. E’ come se la lunga strada percorsa da tantissime donne ( e da me avvertita con un brivido di vitalità nuova negli anni della mia adolescenza, vissuti all’ombra delle lotte quotidiane delle tante femministe che cercavano anche per me, allora poco più di una bambina, orizzonti migliori) si fosse a un certo punto interrotta e qualcuno ci avesse intimato con voce decisa di tornare indietro sui passi compiuti.

Sembra quasi un paradosso, ma di Donne si ha ancora la necessità di parlare. Ben vengano, allora, occasioni come il Festival Rosadonna, celebrato nelle giornate del 23, 24, 25 e 26 maggio 2013 a Pescara presso il  Circolo Aternino di piazza Garibaldi. Ideatrice poliedrica del festival Cinzia Maria Rossi, presidente provinciale dell’ANFE.

Nell’ambito della rassegna editoriale, venerdì 24  maggio 2013 ho parlato, attraverso i miei racconti, delle mie storie di donne in un clima di inclusività al femminile e al maschile. Chiudendo il mio breve intervento con questa poesia, scritta un paio di anni fa in occasione dell’8 marzo e recitata in più di una circostanza, per ricordare a tutti come il Rispetto verso la Donna non possa essere soltanto mera celebrazione episodica ma debba scaturire, piuttosto, da progetti educativi consapevoli, rinnovati da noi tutti nella quotidianità più spicciola come anche nelle grandi eventualità.

Non regalateci mimose

Non regalateci mimose

comperate da fiorai distratti,

vaporosi ed effimeri

pegni di risarcimento

di amori trascurati e delusi:

dureranno una manciata di pensieri

in un giorno isolato

che non ci farà sbocciare

esplodendo di vita piena.

Non riempite il vaso del vostro rimorso

con splendidi fiori recisi di serra;

quel dito d’ acqua che li terrà vitali per poche ore

non potrà sostituire

la terra grassa e bruna

di un campo all’ aria aperta.

Offriteci, invece, una pianta d’ ulivo;

minuscola

ma con radici ben piantate al suolo

sferzata dal vento

blandita dalla pioggia

accarezzata dal sole.

E’ quello di cui noi donne

più abbiamo bisogno:

bellezza infinita

che traspare da sembianze semplici

e cura costante degli elementi,

l’ abbraccio forte, vero

e fragile

di un uomo che è verità, forza

e fragilità.

Questo e questo soltanto

ci necessita

e non già vetro trasparente di serra

mentre fuori imperversa

la bufera.

Lucia Guida

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“Ulivo pugliese”, Eva Evita