Dietro le quinte di “Romanzo Popolare”

Iniziare una nuova avventura scrittoria è sempre una cosa stimolante. Se, poi, lo fa una come me abituata a condire per questioni caratteriali ogni aspetto della propria vita con abbondante emotività il risultato è decisamente quello di sentirsi sulla pedana di una giostra in movimento continuo.
Oggi mi percepisco così e temo che sarà la stessa cosa ancora per un bel pezzo.

Ieri ho potuto ufficializzare l’uscita del mio terzo ‘figlietto’, un romanzo di narrativa intitolato Romanzo Popolare per Amarganta, giovane e grintosa associazione culturale e casa editrice rigorosamente no eap di Rieti, condotta da Cristina Lattaro, scrittrice, editrice e ingegnere e da Paola Fallerini, docente e saggista, oltre a un gruppo ben affiatato di collaboratori che si ripartiscono equamente le collane di cui questa casa editrice si occupa.
“Romanzo” nasce da un periodo di riflessione scrittoria e personale. Un arco temporale in cui mi sono chiesta se il ruolo di affabulatore fosse per me davvero così importante da riuscire a sovrastare i dubbi, le incertezze, la tentazione di guardare altrove, magari seduta a gambe incrociate sulla riva del famoso fiume. Osservando l’acqua scorrere con lentezza verso il mare. Il cielo che ti sovrasta è sempre quello, ma tu non lo scruti con la leggerezza di un tempo. Possiedi occhi certamente più consapevoli, che ti offrono la possibilità di sfrondare l’inutile e di guardare con il giusto distacco alla realtà. Eppure senti la mancanza di qualcosa: una nuvola di entusiasmo o forse di beata incoscienza, in passato piccoli segnali di grande apertura verso un mondo ancora sconosciuto e denso di promesse, che ora hanno lasciato il posto a una visione più pacata delle cose del mondo.
Ti fa piacere continuare a narrare ma cerchi di andare al nocciolo della questione, senza però sottovalutare l’aspetto formale. Una bella storia deve anche essere agile oltre che avvincente.

“Romanzo Popolare” è la storia di due famiglie che amano, soffrono e vanno avanti attraverso un decennio, dal 1965 al 1975, nella città di Pescara abitando nel popoloso quartiere di San Donato.
Anche in questo mio lavoro ho privilegiato per fabula e intreccio punti di vista femminili. Le donne, è risaputo, hanno occhi per guardare dappertutto con fermezza, disincanto ed efficacia solo all’apparenza privi di tenerezza.

Sarà presente in formato cartaceo a partire dal 18 febbraio presso Amarganta  e in ebook su Amazon e Kobo. Per quegli amici che vorranno assicurarsela un po’ prima c’è la possibilità di averla in prevendita con un piccolo sconto dall’8 gennaio al 17 febbraio prossimi. Lo scrivo perché nonostante la questione economica sia sempre un po’ spinosa per noi autori trovo che faccia comunque parte del gioco e non possa essere con finta morigeratezza ignorata.
La mia speranza più profonda è che voi leggiate la mia storia e che questa vi possa piacere.La sensibilità e l’impegno dell’autore si tramutano in premi quando incontrano a metà strada e in perfetta par condicio e rispetto il comune sentire dei lettori.
Sarebbe davvero grandioso che capitasse anche stavolta.
A rileggerci presto

Lucia

 

 

copertina romanzo ok

“Romanzo Popolare” è un’opera di Lucia Guida per Amarganta Editrice

Il Buon Anno d’Autore

A principio d’anno una poesia d’autore famosa per voi per propiziare questo passaggio di consegne dal vecchio al nuovo.
E poi,a breve,tante novità di scrittura che mi riguardano.
Auguri di buona vita a tutti

A presto

Oda al primer día del año

Lo distinguimos
como si fuera
un caballito
diferente de todos
los caballos.

Adornamos
su frente con una cinta,
le ponemos
al cuello cascabeles colorados, y a medianoche vamos a recibirlo como si fuera
explorador que baja de una estrella.

Veo el último
día de este
año en un ferrocarril, hacia las lluvias
del distante archipiélago morado, y el hombre
de la máquina,
complicada como un reloj del cielo,
agachando los ojos
a la infinita
pauta de los rieles,
a las brillantes manivelas,
a los veloces vínculos del fuego.

Oh conductor de trenes desbocados
hacia estaciones
negras de la noche.
este final
del año sin mujer y sin hijos
no es igual al de ayer, al de mañana?
Desde las vías
y las maestranzas
el primer día, la primera aurora
de un año que comienza
tiene el mismo oxidado
olor de tren de hierro:
y saludan
los seres del camino,
las vacas, las aldeas,
en el vapor del alba,
sin saber que se trata
de la puerta del año,
de un día
sacudido
por campanas, adornado con plumas y claveles.

La tierra no losabe:
recibirá este día
dorado, gris, celeste,
lo extenderá en colinas,
lo mojará con
flechas de transparente
lluvia, y luego
lo enrollará en su tubo,
lo guardará en la sombra.

Así es, pero
pequeña puerta de la esperanza,
nuevo día del año, aunque seas igual
como los panes
a todo pan,
te vamos a vivir de otra manera,
te vamos a comer, a florecer,
a esperar.

Día del año nuevo,
día eléctrico, fresco,
todas las hojas salen verdes
del tronco de tu tiempo.

Corónanos con agua,
con jazmines abiertos,
con todos los aromas
desplegados,
sí, aunque sólo seas un día,
un pobre día humano,
tu aureola palpita
sobre tantos cansados corazones,
y eres, oh día nuevo,
oh nube venidera,
pan nunca visto,
torre permanente!

Pablo Neruda

 

Il primo giorno dell’anno

Lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo la fronte
con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte
lo andiamo a ricevere
come se fosse
un esploratore che scende da una stella.

Come il pane assomiglia
al pane di ieri,
come un anello a tutti gli anelli: i giorni
sbattono le palpebre
chiari, tintinnanti, fuggiaschi,
e si appoggiano nella notte oscura.

Vedo l’ultimo
giorno
di questo
anno
in una ferrovia, verso le piogge
del distante arcipelago violetto,
e l’uomo
della macchina,
complicata come un orologio del cielo,
che china gli occhi
all’infinito
modello delle rotaie,
alle brillanti manovelle,
ai veloci vincoli del fuoco.

Oh conduttore di treni
sboccati
verso stazioni
nere della notte.
Questa fine dell’anno
senza donna e senza figli,
non è uguale a quello di ieri, a quello di domani?

Dalle vie
e dai sentieri
il primo giorno, la prima aurora
di un anno che comincia,
ha lo stesso ossidato
colore di treno di ferro:
e salutano gli esseri della strada,
le vacche, i villaggi,
nel vapore dell’alba,
senza sapere che si tratta
della porta dell’anno,
di un giorno scosso da campane,
fiorito con piume e garofani.

La terra non lo sa: accoglierà questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline
lo bagnerà con frecce
di trasparente pioggia
e poi lo avvolgerà
nell’ombra.

Eppure
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani
a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire,
a sperare.

Ti metteremo
come una torta
nella nostra vita,
ti infiammeremo
come un candelabro,
ti berremo
come un liquido topazio.

Giorno dell’anno nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte le foglie escono verdi
dal tronco del tuo tempo.

Incoronaci
con acqua,
con gelsomini aperti,
con tutti gli aromi spiegati,
sì,
benché tu sia solo un giorno,
un povero giorno umano,
la tua aureola palpita
su tanti cuori stanchi
e sei,
oh giorno nuovo,
oh nuvola da venire,
pane mai visto,
torre permanente!

  Pablo Neruda, Terzo libro delle odi, (1957)

24qtswg

photo credits: isolafelice.forumcommunity.net

 

Racconto di Natale

Un piccolo cadeau di Natale per tutti i naviganti che passano di qui.
Un racconto scritto tempo fa in punta di penna e di cuore.

Buona lettura e Buone Feste a tutti

A presto

 

Racconto di Natale

– Signor Enio, tu sveglia per favore … – Scuotendolo gentilmente ma con decisione Lupe lo spinse ad aprire finalmente gli occhi nella luce soffusa di quel soggiorno minimal chic giocato tutto sui toni del bianco e del nero. Lui si passò stanco una mano sul volto mettendo la donna a fuoco. Lupe gli sorrise tirando in silenzio un sospiro di sollievo; quello di chi, in una giornata speciale come la vigilia di Natale, non vede l’ora di poter tornare ai propri affetti. Rapidamente lo ragguagliò su quanto aveva per lui predisposto: aveva riempito il frigo in previsione degli imminenti giorni di festa e cucinato qualcosa che ora lo aspettava in caldo nel forno. Riordinato accuratamente la casa per intero. Portati in lavanderia abiti e biancheria da rinfrescare; riposto nei cassetti cambi e indumenti puliti. Dato acqua alle piante in veranda.  Ritirata la posta in portineria. Tutto questo mentre lui aveva innaturalmente continuato a sonnecchiare stravaccato sul divano, la TV accesa di sottofondo da chissà quanto tempo. La ringraziò con un sorriso appena accennato porgendole una busta. Lupe si inchinò contenta e, stringendosi nel piumino rosa, afferrò la borsetta chiudendosi piano la porta di casa alle spalle. Adesso poteva ben definirsi solo. Sentì la gola bruciargli innaturalmente, tormentato dal cerchio alla testa a testimonianza di parecchie ore trascorse a ingurgitare brandy di primissima scelta invecchiato a lungo in botti di rovere. Si alzò con difficoltà, portò in cucina quel che era rimasto in un bicchiere svuotandolo nel lavello mentre provava per se stesso compassione mista a insofferenza.     Cinquantadue    anni ben   portati,  fisico asciutto e longilineo, capelli brizzolati. Il prototipo dell’uomo di successo, realizzato e rampante. Arrivato. A un traguardo a oggi percepito come terra desolata, infinitamente triste. C’era stato un tempo in cui con orgoglio aveva pensato a quello che era riuscito, con abili colpi di mano, a evitare: le responsabilità di una famiglia, un amore di donna certo e sicuro. Un’esistenza scandita da quotidianità giudicata banale e indegna della sua intelligenza, della sua sete di vivere. Avere una figlia di venticinque anni e non sapere niente di lei: il colore degli occhi, il tipo di camminata, i suoi gusti a tavola. A un certo punto, però, la vita gli aveva presentato il conto per il tramite di Elle. Lei lo aveva stregato facendolo, nell’arco di pochissimo tempo, innamorare follemente. E lui le aveva ceduto mettendosi finalmente in gioco come uomo.  A chi gli aveva chiesto una volta quante donne potesse aver conosciuto e portato a letto, aveva con noncuranza risposto “Mai  quante ne avrei volute“, continuando a nuotare a pelo d’acqua con disinvoltura senza timore di andare a fondo. Ma quell’ immortalità sentimentale guadagnata con sfrontatezza si era sciolta come neve al sole davanti a Elle rendendolo vulnerabile, umano. Pronto a bruciarsi le ali svolazzando come una falena attratta da un lampione luminoso. Poi era successo che lei era sparita dall’oggi al domani senza una spiegazione. Dileguandosi in fretta così come era comparsa. Portandolo allo stremo, lui che si era sempre fatto beffe della sofferenza amorosa altrui. Ed eccolo lì, con un retrogusto amaro in bocca, a osservare da mero spettatore la vita da lontano, attraverso l’immensa vetrata del suo bell’appartamento in centro. All’improvviso si sentì soffocare. Aveva bisogno di aria fresca e di sgranchirsi le gambe. In pochi minuti fu all’aperto tra i passanti dediti alle ultime spese e il traffico impazzito delle serate di festa, sospinto suo malgrado dal vortice concitato di chi aveva qualcosa o qualcuno a cui tornare. Fu con autentica sorpresa che sentì un passante aggrapparsi al suo braccio destro e dopo alcuni istanti accasciarsi davanti a lui. Era una lei. Giovanissima e avvolta in un vivacissimo poncho di lana lavorato a mano,  caduta letteralmente ai suoi piedi con la lievità di un mucchio di foglie autunnali sparpagliate da un’improvvisa folata di vento.

– Aiutami … – farfugliò poi, prima di perdere del tutto i sensi tra le sue braccia lasciandolo attonito. Facendosi strada tra la moltitudine vociante e festosa la depose all’interno di un taxi preso al volo notando finalmente come fosse incinta e, per quello che poteva capirne, giunta al termine della gravidanza.

– Ci porti all’ospedale più vicino – intimò concitato all’autista che partì sgommando sorridendo al tono di quel neo papà impacciato, non più giovanissimo e tuttavia in ansia come miliardi di padri prima di lui per la nascita di suo figlio.

– Coraggio – commentò il tassista frenando delicatamente davanti alla porta del Pronto Soccorso – Ormai il più è fatto. La corsa è omaggio. Il mio regalo di Natale per lei e sua moglie – concluse prima di volatilizzarsi nel flusso incessante degli autoveicoli in spasmodica corsa verso casa. Enio sedette sfinito sulla panca del reparto maternità, incurante dei commenti altrui sull’afasia che sembrava averlo colpito. La sua compagna, invece si che aveva ben saputo far fronte a quanto richiestole, partorendo in quattro e quattr’otto una bellissima neonata dagli enormi  occhi scuri.

Gliel’avevano messa tra le braccia senza troppe cerimonie, accompagnandolo nella camerata in cui la madre riposava. E a lui, incredulo, non era rimasto che continuare a stare al gioco deponendola nella culletta al lato della sconosciuta. Quando questa si era finalmente svegliata l’aveva salutato con un semplice ciao accompagnato da un sorriso di scusa e di ringraziamento prima che la piccola reclamasse da loro nuova attenzione, attirando i loro sguardi verso di sé. Lui si era girato verso la finestra con occhi stranamente liquidi e aveva pensato a quella figlia che non aveva voluto e che pure era nata e viveva in chissà quale parte del mondo. Poi era tornato in sé.

– Devo andare – aveva detto a entrambe brusco.

Voltandosi aveva, però, aggiunto a voce bassa “Torno domani a trovarvi”. Lei gli aveva sorriso con naturalezza e aveva annuito.

Si era allontanato in corridoio accompagnato da quel pianto di bimba affamata di latte e calore materno sentendosi stranamente leggero.

Mezzanotte passata e già Natale.

Con forza aveva inspirato e, a passo svelto e deciso, si era incamminato nella notte verso casa.

 

Lucia Guida

 

julkrans-frc3a5n-medelhavet

photo credits: diarionordico.com

Il giardino di Marinella

A volte basta poco per sentirsi partecipi della Natura. Per Marinella possedere la sua essenza attraverso i fiori del suo giardino.
Un racconto breve che parla della diversità in termini reali e autentici di valore aggiunto.
Buona lettura

A presto

 

Il giardino di Marinella

Marinella coglie un fiore e poi lo annusa; è un narciso selvatico, piccolo e delicato. In paese è usanza andare a coglierli nel bosco a Pasquetta, a frotte, per venderli agli angoli di strada a qualche forestiero arrivato lì per caso, in transito prima di raggiungere il borgo del frate cappuccino santo.

Lei non ha mai fatto parte del gruppo di ragazzotti schiamazzanti che, a piedi, s’inerpicano per la montagna, violando pascoli centenari alla ricerca dei sucamele, fiori che, a reciderne la corolla di netto, lasciano colare in bocca stille dolcissime di nettare divino. A Marinella non piace condannarli a morte repentina; preferisce coglierli con garbo nel terreno incolto della Forestale e poi metterli ordinatamente in una vecchia brocca a occhieggiare in cucina o nel tinello perché possano spandere la loro fragranza dolce per l’aria circostante.

In quella brocca antica, piena di crepe, in cui due contadinelle si contendono la scena, coi i loro canestri e i loro sorrisi persi in chissà quale universo lontano, trovano posto fiori d’ogni tipo a seconda della stagione. Le più penalizzate sono certamente le orchidee selvatiche, meraviglie della natura in miniatura. Tentano disperatamente di mantenersi a galla, annaspando tra fiori di campo forse meno rari ma di sicuro più sfrontati, in grado di sovrastarle. Il gambo esile non permette loro di emergere e questi fiori così esotici, per uno scherzo della natura sbocciati sulla terra arida di montagne avare, devono davvero a caro prezzo contendersi l’attenzione dei visitatori di quella casetta arrampicata, come tutto il resto intorno, sulla fiancata della roccia.

La primavera è anche il tempo degli iris azzurri e gialli dai petali setosi. Un delitto accarezzarli troppo. Si rischia di infastidirli e di condannarli a un veloce oblio. Marinella si è chiesta più volte se sia davvero il caso di cogliere tutta quest’opulenza fiorita o se, invece, sia preferibile lasciarla a dimora nella terra umida e bruna quando è la pioggia a irrigarla e a renderla soffice al passo.  Ne ha concluso che, forse, ai fiori piace essere coccolati dal suo sguardo amorevole piuttosto che affievolirsi lentamente sotto aria, sole, vento implacabili e rudi come i luoghi che li accolgono.

Un altro fiore che adora è il croco, violetto col suo cuore di fuoco. E’ una gioia leggera vederlo spuntare dal terreno ancora ricoperto di neve. Segna con brio e un pizzico di voluttà il passaggio dall’attimo di transizione invernale, fatto di silenzio, uniformità e riflessione, a quello di ripresa lenta ma efficace verso la bella stagione, i giorni luminosi e l’aria più mite. Il croco ha vita brevissima che lei cerca di procrastinare poggiandolo, appena divelto con amorevolezza, sul palmo di una mano. Poi lo lascia navigare sulla superficie ridotta di una tazza da tè scompagnata, poggiata sul comò della sua camera da ragazza di un tempo, tra una spazzola dall’impugnatura di osso, una boccetta di profumo con lo spruzzatore a pompetta e una madonnina sottile vestita di azzurro dallo sguardo mesto rivolto verso il basso.

Marinella non ama discriminare i suoi fiori.

Anche un comune bocciolo di tarassaco o un anemone selvatico giallo o celestino possono entrare a far parte dei suoi ricchi bottini floreali colorando le stanze della sua quotidianità. A volte il suo entusiasmo si manifesta colmando di natura odorosa anche le tasche del grembiulone confezionatole da sua madre, ora informe e di uno sbiadito rosa, sempre pronto a coprire la maglietta e la gonna regolamentari che le fanno assumere l’aria un po’ buffa e fané di una bimba d’epoca camuffata da donna, i capelli castani inframezzati da fili argentati e tagliati corti, alla spalla, lisci come fili d’erba in attesa di essere piegati da un refolo di vento indulgente.

Il grembiule le serve per non sporcarsi di terra, cosa che capita in realtà assai di rado; procurandole, per contro, la soddisfazione di sapere sempre di aria buona e pulita, di campagna e di sole, fiore tra i fiori ricercati con certosina pazienza e poi collezionati in ogni contenitore possano essere infilati. Rimpiazzati di continuo, al minimo segno di tempo che scorre, da altra natura fresca, viva, vitale. Come la luce che le fluisce dallo sguardo color ambra, da tigre ridotta in cattività e tuttavia mai irreggimentata in uno stile di vita scontato: quello dei clienti dell’unico bar del borgo, attratti lì dalla frescura estiva ma pronti a ripartire alle prime foglie d’autunno, al vento implacabile e alle rigide temperature invernali.

Qualcuno sorride nel vederla passare ma soltanto perché vuol vedere ciò che ha deciso di vedere. A lui Marinella non regalerà mai un fiore, né prenderà con impeto la mano per chiedergli silenziosamente di accarezzare una corolla di velluto dal mazzolino che conserva gelosa in tasca. I suoi pensieri migliori, le sue primizie in fiore sono tutte per la bimba che le ha offerto una caramella all’anice, succosa e dolcissima, e che non ha avuto paura di cogliere il suo invito muto per affondare la manina nei tesori frutto del suo duro lavoro di raccolta giornaliera.

Oggi il cielo è grigio e l’aria sa di pioggia.

Marinella guarda seria il paesaggio uniforme che ha davanti ma non è triste al pensiero che dovrà fare a meno della sua passeggiata nei campi perché sua madre non vuole che si bagni, potrebbe anche ammalarsi. Sa che nella sua vita ci saranno tante altre giornate colorate di vento e di sole nell’aria frizzantina di aprile. Tanto le basta.

Sorride piano mentre accudisce tenera i fiori colti il giorno prima. Sa che il suo amore e un po’ d’acqua fresca faranno il resto, aiutandoli a sopravvivere e a farle da contrappunto per un altro po’. Fino al prossimo volo nella natura, fino al prossimo amorevole e paziente viaggio.

Poi guarda con stupore rinnovato le gocce argentine di pioggia che rigano i vetri, battendo sulle tegole del tetto per tenerle compagnia come amiche sincere, presenti al bisogno ma pronte ad andar via alla prima schiarita, ritmando la sua felicità dell’oggi con semplicità e sincerità.

Lucia Guida

 

SILVIA-MARTIGNAGO__Fiori-selvatici-2_g

Silvia Martignago, ‘Fiori selvatici’

L’è ‘n gran bel Proust! Oggi in compagnia di Lucia Guida.

Un’intervista sui generis del 21 novembre 2015 di Gaia Conventi, scrittrice e blogger ferrarese, alla sottoscritta sul suo blog “Giramenti” . Con leggerezza (ma anche no!)  si parla di cose importanti e altre che lo sono un po’ meno. Nella vita, scrittoria e non.
Buona lettura e a presto

L’È ‘N GRAN BEL PROUST!

L’è ‘n gran bel Proust! Oggi in compagnia di Lucia Guida.

Torna “L’è ‘n gran bel Proust”, oggi pigliamo uno spritz con Lucia Guida: «Acquario ascendente Gemelli, nativa di S. Severo (FG), vive e lavora a Pescara come docente di Lingua Inglese. Ha pubblicato racconti brevi in collane di autori vari e come solista per Nulla Die nel 2012 la raccolta di racconti Succo di melagrana e poi nel 2013 il suo romanzo d’esordio La casa dal pergolato di glicine. Cura un blog nella piattaforma di WordPress, una pagina di autrice su LiberArti Reader Social Artist e due pagine dedicate ai suoi libri su Facebook. È alla ricerca dell’editore e dell’uomo ideale ed è pronta a scommettere su chi dei due incontrerà per primo».
Donna interessante, mi spiace non poterla sposare e pubblicare… ma voi candidatevi. Anche per rispondere al Questionario di Proust, ovviamente.

Il Questionario di Proust e Lucia Guida

1. Qual è il colmo della miseria?
Sforzarmi di essere semiseria. Io sono serissima, sempre e comunque.

2. Dove le piacerebbe vivere?
In un paese caldo d’estate. In un paese nordico d’inverno. Giusto per contraddire i meteopatici e le signore di età alle fermate dell’autobus.

3. Il suo ideale di felicità terrena?
Nutella a colazione, pranzo e cena. E una bilancia compiacente come alleata.

4. Per quali errori ha più indulgenza?
Per i miei, manco a dirlo. E per quelli dei miei amici.

5. Qual è il suo personaggio storico preferito?
Anita Garibaldi, donna assai paziente col suo Giuseppe. La pazienza non è mai stata il mio forte con gli uomini.

6. I suoi pittori preferiti?
Kandisky, lo trovo molto trendy e bonton. Perfetto nei salotti bene cittadini.

7. I suoi musicisti preferiti?
Quelli ascoltati nei salotti bene di cui sopra. Fanno molto pendant con la pittura astratta.

8. Quale qualità predilige in un uomo?
La concretezza. Se ho voglia di giocare con le parole, so benissimo farlo da sola.

9. Quale sport pratica?
Relaxing a oltranza sul divano di casa. Almeno per tre serate a settimana.

10. Sarebbe capace di uccidere qualcuno?
Sì, se fosse possibile farlo con un sorriso a trentadue denti.

11. Qual è la sua occupazione preferita?
Prendere in giro con intelligenza e ironia la gente. Ma solo quella che se lo merita.

12. Chi le sarebbe piaciuto essere?
Giovanna d’Arco. Senza rogo, però. Sono intollerante all’odore della legna bruciata.

13. Qual è il tratto distintivo del suo carattere?
La tolleranza zero verso i rompiscatole (ma non lo diciamo all’uomo di cui sopra…).

14. Qual è il suo principale difetto?
Sono troppo buona. Lo dico sul serio, eh…

15. Qual è la prima cosa che la colpisce in un uomo?
Diciamo che degli uomini ho una visione d’emblée. In genere è alla fine che focalizzo i particolari. Alcune volte porta bene, altre un po’ meno.

16. Qual è il colore che preferisce?
Azzurro grigiolino e grigio azzurrino.

17. Qual è il suo fiore preferito?
Il crisantemo. Posso giocare a “m’ama, non m’ama” più a lungo e con più soddisfazione.

18. Quali scrittori preferisce?
Quelli maledetti e maledettamente bravi.

19. Quali poeti?
Quelli malinconicamente poetici.

20. Quali sono i suoi nomi preferiti?
Debora, Pamela per le femminucce. Mi piaceva moltissimo giocare con le Barbie da bambina.
Per i maschietti vado sul tradizionale: Asdrubale e Aristide, adoro le allitterazioni.

21. Che cosa, più di tutto, detesta?
La semplicità. Amo tutto ciò che è complicato. Se non è dannatamente complicato non fa per me: nella quotidianità spicciola, in amore, nella scrittura.

22. Quale talento naturale le piacerebbe possedere?
Saperle raccontare con sapienza ed essere creduta a ogni battito di ciglia. Un talento che non ho ancora imparato a coltivare. Ma prometto d’impegnarmi a farlo. Nella vita bisogna sempre tendere a migliorarsi.

23. Crede nella sopravvivenza dell’anima?
Ci credo e questa è la mia peggior condanna. O forse salvezza, se questo significherà riuscire a togliermi qualche sassolino dalla scarpa in versione esoterica

24. Di che morte vorrebbe morire?
Dolce, dolcissima: affogata in un mare di panna screziata di cioccolata fondente e croccantino.

Gaia Conventi

 

L’intervista originale la potete trovare qui

 

G8EIfPb

 

Donne per le Donne

Cari amici, in questo periodo ho avuto bisogno di tempo per mettere a punto più di una situazione personale e mi scuso con voi per essere stata poco presente. Per riflettere con attenzione sulle cose della vita c’è bisogno di spazio e di tempo infiniti. Sono arrivata a delle conclusioni e farò in modo che non restino lettera morta ma che si concretizzino in azione: pensare senza agire non ha alcun senso.
Riparto come al solito da me e da quello che mi sento di offrire agli altri.

Una bellissima iniziativa a cui sono stata invitata a partecipare e che voglio segnalare qui da me per gli amici blogger dell’area di Pescara è l’evento del 28 novembre 2015 presso il Circolo Arci  Babilonia.

12241490_1028680983851210_6869240278069064870_n

L’evento   si propone di sensibilizzare al fenomeno della violenza di genere attraverso arti e performance al femminile di pittura, poesia, prosa e danza, perfettamente integrate da una lettura psicologica ad hoc.

Un po’ di noi partecipanti.

In rigoroso ordine alfabetico iniziamo da Maria Grazia Di Biagio, poeta.

img105

Lucia Guida, scrittrice

img106

Ludovica Lufino, maestra e ballerina di danze orientali

img107

Vilma Maiocco, pittrice

img109

Chiara Mastrantonio, psicologa – psicoterapeutaimg108

Vi aspettiamo.

Lucia, Maria Grazia, Ludovica, Vilma, Chiara

‘Quando si violentano, picchiano, storpiano, mutilano, bruciano, seppelliscono, terrorizzano le donne, si distrugge l’energia essenziale della vita su questo pianeta. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile e domato.’

Eve Ensler

Meglio la gallina domani o l’uovo oggi? – Piccole riflessioni a mezza voce su scrittura e lettura

Qualche sera fa in chat su un sito social si parlava di editoria e di scrittura con un piccolo editore indipendente. Del fatto che sia l’una che l’altra non vivessero tempi felici e di come questa crisi toccasse indistintamente piccoli editori illuminati e autori non omologati.

La discussione è andata avanti per un po’. Io portavo avanti le mie ragioni scrittorie, l’editore le sue di divulgatore di idee e parole. Procedendo su due strade parallele alla fine ci siamo incontrati a un bivio. E manco a parlarne, il nostro trait d’union è stato il lettore.

Il ragionamento, assai semplice, contemplava la difficoltà di pubblicare buoni testi che potessero anche incontrare il favore del pubblico soprattutto da parte dei piccoli editori. Libri che potessero gratificare, quindi, autore ed editore. E la possibilità, molto più diffusa di quanto non si pensi, di stampare libri da parte di major assolutamente impubblicabili. Accolti, tuttavia, dal grande pubblico dei lettori con quello che io chiamo “favore di gloria riflessa”: legittimati, cioè, dal provenire da una scuderia di per sé garanzia di qualità legata a case editrici già conosciute e apprezzate.

Mi è venuto in mente qualcosa che ho letto in web diverso tempo fa in un articolo di scrittura. Si parlava di  quanto la comunicazione, in maniera di pubblicizzazione e propaganda editoriale, fosse importante. Di come un testo, a prescindere dalla sua bontà intrinseca, avesse comunque bisogno di essere conosciuto e diffuso per essere apprezzato. E che, paradossalmente, una pubblicità martellante o l’esposizione di un libro accanto ai pacchetti di caramelle, cioccolatini e chewing gum  ai lati delle casse di un supermercato spesso giocasse molto a favore facilitando l’acquisto di testi di qualunque tipo.

L’editore, indipendente ma grintoso, manifestava il proprio disagio nel compiere scelte di qualità a sprezzo delle scelte di mercato compiute da grandi gruppi editoriali, più ammiccanti e meno “di sostanza”, certamente favorite dalla prospettiva di proporre al grande pubblico su un terreno ben preparato e concimato dal fatto di vantare una lunga tradizione editoriale. Per altro con ottimi margini di guadagno. Molto maggiori di quelli da lui ottenuti per il medesimo autore a proposito di un testo formidabile e di spessore, commercializzato nel passato da lui con minor successo. La conclusione da me tratta, drastica forse per qualcuno, è stata che non gli conveniva colpevolizzarsi per aver incentivato un testo di qualità che aveva venduto in misura minore rispetto alle sue aspettative se, alla fine, i buoni lettori si potevano contare sulla punta delle dita.

Passano un paio di giorni e in un momento di pausa mi capita di intrattenere una conversazione più o meno dello stesso tenore con una mia collega accanita lettrice. Discorso che finisce inevitabilmente con la stessa considerazione: non si può, cioè, pensare che l’editoria italiana e internazionale si risollevi se chi dovrebbe ergersi a garante di opere di qualità finisce, poi, col pubblicare librini. Attirando in una sorta di spirale perversa lettori che, forti di un marchio editoriale di chiara fama, o di accorpamenti sapienti, accettano di buona volontà testi di media levatura come un qualsiasi consumatore poco consapevole porta a tavola di buon grado cibo di produzione e fattura industriale preconfezionato e megapubblicizzato.

Mi viene anche da pensare all’affermazione di Marcello Fois, scrittore e docente universitario, nella sua recente presentazione di “Luce perfetta” avvenuta un paio di settimane fa a Pescara in una libreria del centro. Della sua necessità di leggere in pagine scritte da terzi libri “altri”, e cioè romanzi e testi d’autore famosi collocati in una chiara prospettiva metascrittoria.  Che, poi, è come riuscire a scorgere nelle pennellate di un pittore fiammingo la storia e la tradizione di altri artisti di epoca contemporanea e precedente. Leggere con lo stesso impegno di un gourmet. Per qualcuno una mission impossible, ma probabilmente l’unica strada da seguire per tentare di salvare la buona editoria, quella fatta di pratiche ottimali e non di proposte mordi e fuggi di chiara matrice estemporanea.

Lucia Guida

ChickenOrEgg

photo credits : tiptop.az

Thinking and Writing as an English Teacher – 1st Lesson

Cari amici di WordPress, oggi inauguro una nuova rubrica con cui inframezzare, a mo’ di fil rouge, le mie storie, i miei articoli e le mie recensioni.
Si intitolerà “Thinking and Writing as an English Teacher” e sarà incentrata sull’altro “me”, dal momento che nella vita di tutti i giorni sono una prof di lunga data.
Con brevissimi aforismi di mia creazione proverò a sintetizzare in inglese e in italiano qualche mia riflessione in volo, prendendo spunto dalla realtà che mi circonda e in piena concordanza con il motto “Au Feminin Thinking and Writing” che caratterizza questo mio spazio virtuale.

Abbraccio e buona lettura

Lucia

Thinking and Writing as an English Teacher

1st Lesson

“Lightness is an attitude.
If you don’t have it in your personal ‘standard equipment’ you can’t get it” *

L. Guida

multiplication-lilly-greenwood-butterlies-on-red

“Butterflies on Red”, painting by Lily Greenwood

Translating into Italian:

* ” La lievità è un atteggiamento mentale. Se non ce l’hai nella tua ‘dotazione di serie’ non puoi procurartela “

Presentazioni d’autore: “XXI Secolo” di Paolo Zardi

La mia lettura dell’ultima fatica letteraria di Paolo Zardi, finalista al Premio Strega 2015.

Buona lettura e a presto.

Il romanzo

Una vita ordinaria, all’apparenza senza infamia e senza lode a emblema del tempo che la racchiude, è quella del venditore di depuratori d’acqua protagonista di “XXI Secolo” di Paolo Zardi, la cui narrazione è inserita in un frangente storico non troppo lontano dai nostri giorni perché il lettore non si immedesimi e non ne indossi con empatia i panni. Il protagonista si barcamena con abilità col suo lavoro, in bilico tra la determinazione che lo caratterizza e il senso di precarietà trasudante dal nuovo millennio; una famiglia composta canonicamente da moglie e due figli, una casa, infine, di periferia, baluardo della media borghesia di una volta sono il suo punto di partenza e di arrivo giornalieri.

Una tragica fatalità convince l’uomo, che è anche narratore della storia, a fermarsi a riflettere con attenzione sulla propria routine: sua moglie viene colpita da un ictus. Quest’evento cambierà, rinnovandola e, in qualche modo vivificandola, la prospettiva esistenziale sua e delle persone che ama, nonostante lui si muova su un palcoscenico complesso e  difficile da calcare.

Del nome di quest’uomo non sapremo nulla se non che è composto da tre sillabe, pronunciate da sua moglie in un letto d’ospedale solo nelle ultime pagine del libro.

Il XXI secolo di Zardi è accusa forte e potente, per certi versi monito della realtà in cui stiamo lentamente scivolando, glissando sulle nostre colpe, la nostra indifferenza e un certo grado di superficialità che potrebbe tranquillamente afferrare chi preferisce buttarsi ogni cosa dietro le spalle perché troppo pigro per guardare con grinta e coraggio maggiori al presente. All’inizio il venditore porta a porta è prigioniero di una rassegnazione che, tuttavia, non è mera lotta per la sopravvivenza ma resilienza, e cioè capacità di far fruttare in positivo, con un atteggiamento mentale di apertura alle occasioni del mondo nonostante tutto cospiri a fagocitarlo pian piano.

I temi trattati in questo romanzo, che io definirei solo in parte distopico, sono tanti e giocati su paradossi estremamente verosimili che cozzano in modo voluto contro alcuni puntelli consolidati dei nostri giorni. Uno tra tanti la scelta di gruppetti di anziani di consorziarsi in gang per assaltare, specie durante i sempre più frequenti blackout di energia elettrica, ospedali, condomini e centri commerciali contrapposta al desiderio di ragazzi e adolescenti di periferia meno smaniosi di cercare completamento nel piccolo o grande gruppo, certamente più intenti a cogliere a piene mani la vita da soli o in coppia, nelle sue sfaccettature più istintuali e primordiali.

In questo mondo futuro molto più prossimo di quanto si creda la sofferenza è tollerata nella misura in cui rientra in una gestione consumistica di se stessa rappresentata dal “kit di sopravvivenza” consegnato al nostro protagonista dall’efficiente factotum di un albergo con sapienza aperto proprio di fronte al mega ospedale che ospita Eleonore in una camera a lunga degenza: pochi oggetti di uso comune per  consentire ai parenti dei malati di tirare il giorno, aspettando che qualsiasi situazione si evolva o, peggio, s’involva.

La solitudine è nelle pochissime parole delle donne amiche di sua moglie che il nostro decide di incontrare per cercare di dare un senso alla realtà del tradimento subito e scoperto per caso, provando a forzare la privacy della donna della sua vita.  Saranno appuntamenti consumati in appartamenti e bar fatiscenti, residuati bellici di una società che ha cercato aggregazione fittizia costruendo nonluoghi improbabili come una pensilina d’autobus, capace di riunire solo per qualche istante persone di sensibilità differente. Rendez-vous che non forniranno nessun tipo di risposta alle domande dell’uomo/venditore ma che avranno il merito di portarlo finalmente a riflettere su se stesso e a farlo giungere a una conclusione che la decriptazione della memoria del cellulare di Eleonore non potrà che confermare. Trionferà l’amore e sarà un sentimento sfrondato da ogni possibile sovrastruttura distorsiva. Un’attitudine di cuore e di mente priva di senso di possesso e ricca di gratitudine vera, sentita, per una donna che ha scelto comunque di non rinunciare a lui e agli affetti di famiglia, pur rivendicando una possibilità concreta di vivere la propria femminilità.
Le scelte stilistiche di Paolo sono estremamente lineari e approfondite. La narrazione corre su un filo ben teso che cattura il lettore da subito impedendogli di volgere altrove lo sguardo. Definirei quest’opera un concentrato di vita vissuta ed esperita, priva totalmente di qualsiasi velleità didascalica, resa in modo accattivante, mai seduttiva tout court. La filosofia esistenziale del suo autore impregna ogni singola pagina contribuendo a conferire valore aggiunto a fabula e intreccio con un’estrema coerenza scrittoria e personale che viene da principio percepita e accettata rendendone la lettura piacevole dall’inizio alla fine.

L’autore

Paolo Zardi, nato a Padova nel 1970, ingegnere, sposato, due figli, ha esordito nel 2008 con un racconto nell’antologia Giovani cosmetici (Sartorio). Successivamente ha pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (Neo Edizioni, 2010) e Il giorno che diventammo umani (Neo Edizioni, 2013), spingendo molti a definirlo il miglior scrittore italiano di racconti vivente. Suoi il romanzo La felicità esiste (Alet, 2012) e il romanzo breve Il Signor Bovary (Intermezzi, 2014). Ha partecipato a diverse raccolte di racconti (Caratteri Mobili, Piano B, Ratio et Revelatio, Hacca, Psiconline, Galaad, Neo Edizioni) e suoi racconti sono stati pubblicati su Primo AmoreRivista Inutile e nella rivista Nuovi Argomenti. È il primo autore italiano ad essere stato tradotto e pubblicato dalla rivista Lunch Ticket dell’Università di Antioch (Los Angeles) con il racconto “Sei minuti” in Antropometria, con la traduzione di Matilde Colarossi. Cura il seguitissimo blog grafemi.wordpress.com.

“XXI Secolo”, edito da Neo Edizioni nel 2015, è stato finalista al Premio Strega del medesimo anno.

Paolo Zardi, XXI Secolo, ISBN 9788896176313      € 13,00

XXI-secolo-Paolo-Zardi-cover-330x472

Paolo Zardi, XXI Secolo, ISBN 9788896176313      € 11,05

 

Il link originale di questa recensione lo trovate qui.

 

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Un lavoro che sfuma via e un figlio inatteso che preme per nascere sono le novità piombate all’improvviso nella routine di Giulio e Maura, sconvolgendo la loro vita di coppia consolidata. Dopo un periodo di comprensibile disorientamento entrambi sapranno trasformare questo terremoto esistenziale in una concreta opportunità di crescita. Assieme a una felicità da centellinare poco a poco e, forse, per questo, molto più intensa da assaporare.

Buona lettura e buon ferragosto

A presto

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Giulio respirò a fondo nell’aria frizzantina di primo mattino guardando gli altri pendolari sparpagliati sotto la pensilina che li accoglieva. Incrociare ogni giorno le loro occhiate, durante l’attesa di quella corsa bis extraurbana che li avrebbe portati al lavoro, lo faceva sentire stranamente in compagnia e pervaso da una forza maggiore.

Immerso in una sorta di amarcord dal sapore agrodolce rammentò come appena un anno fa avesse concesso un’attenzione davvero marginale alle indiscrezioni delle segretarie di direzione, tiratissime in pausa caffè, su possibili tagli in ditta. Una trascuratezza, la sua, ampiamente giustificata dalla notizia di un figlio in arrivo.

Maura, la sua compagna, gli aveva detto del lieto evento una sera come tante mentre erano davanti alla portafinestra della loro mansarda, aperta su un cielo illuminato da una luna ruffiana che gli era rimasta impressa dentro. Prima di sussurrargli la novità con voce sbarazzina l’aveva guardato con occhi brillanti ma ciò non aveva impedito che gli mancasse un battito. Scoprire che a breve sarebbe diventato padre, prospettiva sino a quell’istante considerata  piuttosto remota, l’aveva del tutto e irrimediabilmente spiazzato. Stretto a lei aveva contrabbandato vigliaccamente lo smarrimento della propria voce per genuina commozione passando il resto della notte ad ascoltare il respiro regolare della sua donna, già madre conclamata di quel bimbo in viaggio, per lui, invece, immagine ancora così indefinita.

Poi le cose erano precipitate in un attimo.

La sua azienda, apparentemente in ottima salute, si era decisa a delocalizzare, trasferendo la produzione oltremare e smantellando anche gli uffici amministrativi in cui Giulio lavorava dai tempi del diploma. L’aveva riferito di getto a Maura non appena aveva saputo, interrompendola nella vivace descrizione del suo primo sopralluogo in un negozio di articoli di prima infanzia. Lei aveva socchiuso gli occhi, come per proteggerli da una folata traditrice di vento, poi li aveva riaperti sorridendogli incoraggiante. Quella notte avevano fatto l’amore con fantasia e generosità, lo sguardo dell’una avvinghiato a quello dell’altro come ai primi tempi della loro storia. Addormentandosi quasi all’unisono, stremati dalla passione.

L’ultimo mese di lavoro di Giulio era passato in fretta ed erano arrivati alla prima ecografia del bambino. Vedere quel puntino luminoso pulsare già con tanta vitalità gli aveva fatto lo stesso effetto di un giro sulle montagne russe da ragazzo. Aveva ascoltato con attenzione le parole dell’ecografista prestandosi, più tardi, a casa dei genitori di lei, agli sguardi emozionati e alle congratulazioni di tutti, alle pacche di approvazione di suo cognato e alla pianificazione complice del loro matrimonio da parte delle donne di famiglia. Rientrato a casa aveva deciso di concedersi in solitudine l’ultima sigaretta della giornata sul minuscolo terrazzo, incurante del freddo penetrante di quella città di mare così umida e gelida d’inverno.

«Ce la faremo», erano state le uniche parole di lei prima di abbracciarlo e baciarlo su una guancia, piombando poi velocemente nel sonno e lasciandolo ai suoi tanti pensieri.

Il pomeriggio successivo l’aveva trovata a contemplare assorta la sottile striscia di mare grigiazzurro dalla finestra.

«Tutto bene?». Alla sua voce lei era trasalita come una bimba nel pieno di una marachella, annuendo subito dopo con un sorriso senza guardarlo. A poca distanza, in uno scatolone, c’era un bel po’ di roba che aveva tutta l’aria di essere stata cestinata da poco. Maura l’aveva trascinato sul divano chiedendogli con nonchalance di quel rientro anticipato. Si era stretto nelle spalle e aveva risposto che oramai in ufficio non c’era più molto da fare. Allora lei l’aveva finalmente fissato, gli occhi castani appena coperti da un velo in cui lui era riuscito a scorgere fragilità e forza assieme che gli avevano smosso qualcosa dentro. Con tono allegro le aveva proposto una camminata sulla battigia, il viso di entrambi sferzato dalla brezza marina, avvolti dal calore mite dei raggi di sole di novembre.

A casa, mentre lei era sotto la doccia, si era ricordato del cestino cedendo alla tentazione di ispezionarlo velocemente, scoprendovi, accartocciati, campioni di partecipazioni nuziali, un menu del ristorante in cui l’aveva portata al loro primo appuntamento e il modello di un abito da sposa molto romantico che aveva tutta l’aria di essere troppo costoso. Mentre cenavano davanti alla TV, dividendosi tranci di pizza e facendo zapping tra un telefilm e un talk show, lei aveva ricevuto la telefonata di sua madre e, con una smorfia, s’era portata in bagno il cordless per risponderle. In principio lui l’aveva sentita discutere a lungo con foga; poi, silenzio assoluto. Con occhi fiammeggianti e appena un cenno di insofferenza   gli si era nuovamente accoccolata accanto e lui aveva, per quella sera, deciso di glissare sui tanti perché che gli ronzavano dentro, simulando un’indifferenza che non provava e che gli aveva lasciato in bocca un retrogusto fatto d’inquietudine.

L’indomani a pranzo sua suocera l’aveva squadrato in tralice ma non aveva osato dire nulla. Ci aveva pensato suo cognato a illuminarlo col suo solito fare sbrigativo e schietto.

«Allora, un brindisi al Caffé Excelsior e una cerimonia in Comune per pochi intimi mi pare ‘na figata …», aveva esordito tra un caffè e una sigaretta in punta di dita.

«… e chi se lo dimentica il nostro pranzo di nozze, cinque ore di durata, scambio di convenevoli e danze incluse. ‘Na maratona»

Giulio l’aveva ascoltato con ostentata noncuranza senza tentare di replicare, decidendo di stare al gioco.

«Cosa confabulate voi due?» aveva voluto sapere Maura, intromettendosi; e, senza attendere risposta, l’aveva preso per mano e portato via con sé.

In auto lui aveva ripreso l’argomento mentre lei si osservava critica in uno specchio da borsetta.

«Allora, pare che ci sposiamo in Comune e non più in chiesa».

Lei aveva richiuso di scatto lo specchietto.

«Geniale, vero? Pensa a quanto stress ci eviteremo».

«E tua madre che ne dice?» l’aveva solleticata lui con una punta di malizia.

«… proprio nulla. E’ il nostro matrimonio o sbaglio? »

Lui aveva silenziosamente annuito. A quanto pareva la decisione era stata presa e, a mente fredda, gli pareva l’unica possibile, viste le circostanze. Un neonato in viaggio e il lavoro part-time di lei, al momento loro unica fonte di sussistenza, non erano uno scherzo. Quella notte, tuttavia, l’aveva sentita agitarsi parecchio, trattenendosi a stento dallo svegliarla per riportarla a una realtà più benevola. A un certo punto gli era addirittura parso di sentire mormorare il proprio nome e ciò gli aveva procurato una botta d’insonnia senza precedenti che l’aveva condotto insofferente alle prime luci dell’alba. Aiutandolo, tuttavia, a partorire un’idea nuova.

«Buondì!»

Maura aveva atteso pazientemente che lui aprisse gli occhi. Quel giorno per lei c’era l’allettante prospettiva di una mattinata libera con riapertura nel pomeriggio della caffetteria in cui lavorava. Per lui, invece, tanta libertà era conquista amara e recente a seguito della perdita del lavoro. Con dolcezza gli aveva accarezzato con le dita quell’ombra di barba traditrice che gli era spuntata nottetempo e che le piaceva sempre da matti.

Appagato, Giulio aveva poggiato nuovamente la testa sul cuscino prima di rialzarla di scatto, colto da un moto repentino. C’erano un paio di cose da sistemare che non potevano essere rimandate.

Vestito di tutto punto aveva finito in un attimo il suo caffè, pescato un biscotto al cioccolato da una scatola di latta, prima di baciarla e infilare la porta di casa.

«A dopo», l’aveva salutata laconico, strizzando un occhio.

Maura l’aveva guardato perplessa, riflettendo sugli sbalzi d’umore dei futuri padri, che nulla avevano da invidiare a quelli delle loro compagne.

Ringraziando mentalmente di cuore un amico che gli aveva fatto sapere di quell’offerta di lavoro da magazziniere appena accettata, Giulio si era toccato la tasca interna della giacca per assicurarsi che conteneva ancora l’assegno con l’anticipo richiesto al suo nuovo datore di lavoro con una formidabile faccia tosta. Quasi uno stipendio. Poi si era fermato davanti a una gioielleria scrutandone con serietà la vetrina, prima di entrare e uscirne dopo parecchio con un pacchetto minuscolo tra le dita.

Il Caffè delle rose era ancora chiuso al pubblico ma lui era passato dal retro com’era consuetudine per lo staff. Maura era nell’ufficetto di fianco al laboratorio intenta a visionare un file di contabilità, l’uniforme a righine che le tirava sul seno e sulla pancia arrotondata, già pronta a montare di servizio in cassa.

«Ma cosa …»

Lui l’aveva guardata con espressione strana, poi le aveva spinto sulla tastiera la scatolina confezionata con cura.

«Per te. Forse questa è l’unica cosa di valore che ti regalerò. Niente rispetto a quello che tu, che voi, significate per me»

Una perla minuscola, luminosa, incastonata in un cerchietto dorato sottile.

Maura l’aveva tenuta sul palmo della mano senza avere il coraggio di infilarla al dito. Ci aveva pensato a farlo lui con determinazione, con una sorta di amore rabbioso.

«Ti amo. E voglio te e il bambino» le aveva poi detto, con altrettanta foga e un accenno impercettibile e autentico di tenerezza. Allora lei gli aveva afferrato il viso d’impulso, baciandolo con avidità, quasi con sfida. Di quelle briciole di felicità precaria aveva voglia di gustare anche la più infinitesimale a partire da quell’istante unico e perfetto, stabilì.

Dio solo sapeva per quanto tempo ancora avrebbero vissuto in quel paradiso in bilico che era la loro vita dell’oggi. E tuttavia le boccate d’ossigeno di quell’amore sincero sarebbero state per loro sacrosante per vivere e persino per sognare, come l’aria pura del vento di tramontana respirata ogni mattina sul terrazzo della loro casetta di periferia. Sarebbe stata quella voglia d’infinito che li legava così stretti il loro personale tetto del mondo. Un trampolino di lancio da cui spiccare il volo verso l’alto, in un cielo terso e azzurro senza sorprese,  incredibilmente pieno di speranza, oltre le nuvole.

Lucia Guida

              munch-separazione

               “Separazione”, dipinto di E. Munch