Intervista

Cari  amici, vi riporto integralmente l’intervista realizzatami dall’autore e blogger Mario Borghi sul suo “Pubblica bettola, frammenti di cobalto” che si era già occupato di recensire qui il mio romanzo d’esordio “La casa dal pergolato di glicine”. Nella chiacchierata abbiamo parlato di tante cose: di piccola editoria, dei problemi incontrati dagli autori emergenti, dei miei lavori e del mio modo di concepire la scrittura.

Se ne avete piacere ve lo propongo come lettura odierna. Questo è il link per leggerlo in versione integrale

A presto

 

Quattro chiacchiere con Lucia Guida, scrittrice pescarese

22.05.14

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Dunque, ho convinto Lucia Guida, bravissima autrice di La casa dal pergolato di glicine, edito da Nulla Die, di cui ho parlato qui, a farsi fare un po’ di domande. Eccovela.

Ciao Lucia, grazie per la disponibilità, partiamo subito con la domanda di rito: puoi dirci nel minor numero di battute, il maggior numero di cose su di te, gossip compresi?

R- Ben risentito e grazie a te! Comincio subito: tendenzialmente non omologata, sincera ( per qualcuno “scomoda”), pasionaria, chiacchierona, impulsiva, idealista … può bastare?

Certo, ora però ti chiedo qualcosa di più. A quando risale la tua passione per la scrittura?

R- All’epoca in cui compitavo le prime lettere, errori ortografici inclusi. Mi piaceva scrivere piccole fiabe e storie su tovagliolini di carta sottili di forma quadrata (quelli di solito usati nelle pasticcerie) che, poi, regalavo a persone di famiglia perché potessero leggerle.

Quando è uscito il tuo primo lavoro “serio”?

R- Il mio primo lavoro da autrice solista “seria” è stato pubblicato nei primi mesi del 2012 dalla Nulla Die, casa editrice siciliana indipendente. È una raccolta di racconti au feminin che parla di donne a 360°. Non collocatelo, però, nelle opere “di genere”, è un’etichetta che trovo limitativa. I protagonisti dei miei racconti sono certamente “personagge” perché la loro autrice ha deciso di descrivere e dar voce a una materia che conosceva molto bene, ma sono rivolti a tutti, indistintamente. Il messaggio che volevo veicolare è che ciascuno di noi può farcela. Può, cioè, riconquistare uno stile di vita che gli è maggiormente congeniale, imparare a volersi bene se non l’ha fatto in precedenza. Un augurio di tipo universale, insomma.

Hai mai ricevuto una “stroncatura”?

R- Di recente un critico letterario mi ha fatto sapere su un forum di scrittori cui mi ero iscritta che non avrebbe mai comperato il mio libro. Si riferiva al mio romanzo d’esordio, “La casa dal pergolato di glicine”, edito sempre per i tipi della Nulla Die a settembre del 2013, di cui aveva letto una breve anteprima da me postata. Alla mia replica di come ritenessi il suo giudizio riduttivo, invitandolo a leggere il mio lavoro per intero prima di esprimere un giudizio, ha ribattuto che, comunque, i 16,00 € del prezzo di copertina non li avrebbe mai spesi per un’autrice poco conosciuta come me. Trovo desolante e deprecabile un atteggiamento pseudosnobistico come questo. Non sei abbastanza conosciuta, quindi posso eventualmente giudicarti “a gratis”. Quanto, poi, a comperare il tuo libro, non se ne parla proprio. Ed è un’opinione quanto mai invalsa. Di questo passo farsi conoscere, per quelli che pubblicano per piccoli editori, diventa un’impresa erculea. Ma del resto, di cosa meravigliarsi? Se anche fiere internazionali di tutto rispetto continuano a privilegiare le major editoriali a discapito di case editrici indipendenti? Insomma, continua a piovere sul bagnato, tra l’indifferenza generale. E al lettore viene propinato di tutto, sotto l’egida di marchi famosi, purché sia di tendenza. Una sorta di consumismo scrittorio, se così si può dire. Un fenomeno che non è certamente positivo.

Quali sono, se ci sono, i temi o i soggetti sui quali ami scrivere?

R- Mi piace scrivere di anime semplici come i bambini ma anche di anime complesse, adulte. Provare a ricamare attorno a cose o eventi all’apparenza quotidiani, forse per qualcuno scontati, storie e situazioni. Parafrasando un autore inglese, William Blake, “To See a World in a Grain of Sand”, intravvedere un mondo intero in un granello di sabbia. E poi provare a costruirci un castello, magari. Credo sia la cosa più bella e appagante che possa accadere a un autore, almeno secondo me. La realtà che ci circonda è uno scrigno inesauribile di tesori; basta, appunto, saperli riconoscere. 

Hai degli scrittori preferiti?

R- Passati e presenti? Un’infinità, scelti tra generi diversi, non esclusivamente di narrativa. Diciamo che da ragazza ho avuto ottimi maestri in tal senso. Persone di riferimento di famiglia e insegnanti che potessero darmi dritte eccellenti e che non ringrazierò mai abbastanza. Attualmente sul mio comodino c’è l’opera omnia della Munro, da centellinare pian piano, “Donne che corrono coi lupi” della Pinkola Estés, un paio di romanzi di autori emergenti che conosco personalmente. Tra i grandi del passato: T. Hardy, Colette, de Maupassant. Italiani contemporanei: Cassola, Pea, la Ginzburg … 

Come ti poni di fronte alla poesia?

R- Con una sorta di timore reverenziale. Sono convinta che per prosare occorrano ottime basi linguistiche. Per la poesia, se possibile, ne occorrono ancora di più. Ciò non significa, tuttavia, che il tecnicismo debba imbrigliare il sentimento. La poesia è arte anche attraverso la sensibilità e la profondità con cui tu provi a sfumare una sensazione, un’emozione evitando di cadere nell’ovvio.

Ci fai una carrellata delle tue pubblicazioni con una piccola didascalia per ciascuna?

R- Come autrice di racconti brevi ho pubblicato per diverse case editrici in collane di autori vari. “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile”, opera prima costituita da sei racconti, tre ambientati nel Novecento e tre ai giorni nostri, in cui le protagoniste provano a vivere con compiutezza maggiore la loro vita, riuscendoci. “La casa dal pergolato di glicine”, romanzo in cui do voce a Marina Federici, una donna alla ricerca della propria identità in un’epoca, il 1970, in cui scegliere una nuova stagione esistenziale era meno semplice di oggi. In entrambe queste opere da solista ho voluto trasmettere una speranza. Come anche nell’ultimo lavoro, in fase di pubblicazione, un’opera a tre mani edita da Fefè Editore, intitolata “Streghe d’Italia 2” che raccoglie tre personali punti di vista sulla figura della “magàra”, della strega vera o presunta che sia. Io credo che ciascun autore abbia precise responsabilità in merito ai contenuti, anche valoriali, che decide di trasmettere ai suoi lettori.

Che idea ti sei fatta del panorama editoriale odierno, sulla scorta delle tue esperienze di pubblicazione?

R – La stessa idea che, quando stavo per partorire la mia primogenita Roberta, mi venne in mente, dopo essere stata ricoverata, incinta di otto mesi, in ospedale, per un malessere. All’epoca avevo della gravidanza e del parto un’idea piuttosto rosea e, diciamolo pure, ingenua e poco calata nel reale. A contatto con le altre partorienti me ne sono dovuta fare un’altra, realistica e, per certi versi, più cruda. Pubblicare sempre e comunque può soddisfare l’ego di un autore ma non lo aiuta a crescere. La mia idea è quella di scegliere consapevolmente le mani editoriali cui affidarsi, che è un po’ quello che ho fatto io nel momento in cui ho deciso di fare sul serio. Per contro c’è comunque la difficoltà di pubblicizzare e propagandare quello che hai scritto, a lavoro ultimato; le piccole case editrici, pur avendo una buona distribuzione anche online, possono arrivare fino a un certo punto. Tocca, quindi all’autore, con molto olio di gomito, fare il resto. Non è semplice, specialmente quando devi fare tutto da solo e i proventi derivanti dalle tue pubblicazione sono minimi. C’è, poi, il discorso di cui parlavo poc’anzi circa la diffidenza verso gli autori esordienti/ emergenti, anche da parte degli addetti ai lavori. Imporsi in questo mare magnum non è facile. Specialmente per chi cerca di tenersi fuori da compromissioni di vario tipo, evitando di cercarsi sponsorizzazioni del tipo “do ut des” di varia provenienza.

Cartaceo o digitale?

R- Cartaceo ma anche digitale. Ben venga la tecnologia, dalla quale è assurdo prescindere, anche nel mondo della scrittura e, soprattutto, della lettura.

Qual è l’opera, tra quelle che hai scritto, che ami di più?

R- “Succo di melagrana”, decisamente. Anche se ho dovuto pensarci parecchio e farmi supportare dal fatto che buona parte dei suoi racconti aveva raccolto recensioni positive o era arrivato in finale in concorsi letterari nazionali. Io la chiamerei l’insicurezza dello scrittore esordiente. Un male necessario, comunque, che ti aiuta senz’altro a mantenere i piedi per terra e a non montarti la testa.

Che ruolo deve avere, secondo te, una scrittrice, nella società? Pensi che esista una differenza sostanziale tra scrittore e scrittrice?

R- Delle responsabilità implicite ed esplicite contenute in un atto scrittorio ho già parlato. La differenza sostanziale tra scrittore e scrittrice risiede per me in una sensibilità espressa differentemente e in modo complementare. A ogni modo entrambi sono portati a ricoprire, oggi, un ruolo che è necessariamente mediatico e che è inutile e poco onesto negare. Mi spiego: il lettore che ti ha scelto come autore ha la necessità di conoscerti “live”, di sapere come la pensi anche in questioni di quotidianità. Io credo nell’idea di un’arte fruibile e non in quella di una torre d’avorio in cui trincerarsi. Apprezzo dei grandi artisti la loro capacità di relazionarsi costruttivamente col pubblico, ricercando il giusto equilibrio con la necessità di preservare comunque il proprio spazio intimo, privato.

Hai dei progetti nel cassetto?

R- Tanti e non tutti di natura scrittoria. Per il resto non sono un’autrice esageratamente prolifica; scrivo quando mi va e quando ne ho la possibilità, tempo e impegni vari permettendo. Sono per lo slow writing, per la scrittura che porta fuori il meglio di te, a dispetto di mode o tendenze che non ti appartengono e che, per tale ragione, lasciano il tempo che trovano. Il lettore ha bisogno, per certi versi, di identificarsi in te scrittore, passare da un genere all’altro lo manda in confusione.

Cosa vuoi fare “da grande”?

R- Continuare a essere felice delle piccole e grandi cose della mia vita. Per me è stata una conquista raggiunta da “ragazza cresciuta” nel momento in cui ho cominciato a volermi bene sul serio

E ora la terribile domanda, che fa arrabbiare molti scrittori: perché scrivi?

R- Potrei dire che la scrittura ha ricoperto, nella mia via, ruoli diversi. All’inizio è stata, come blogger, terreno di conferme ma anche terapeutica. Poi è diventata piacere di scrivere fine a se stesso. Voglia di ringraziare i lettori che hanno creduto in te e che si aspettano di rileggerti ancora. Certamente mai imposizione o qualcosa di preconfezionato. Scrivere così richiede tantissimo tempo ma io non mi lamento. E aspetto che arrivi l’ispirazione giusta, quella che fa la differenza. Grazie per questa bellissima chiacchierata.

Grazie Lucia per il tempo che ci hai regalato e a buon ri-leggerci.

Mario Borghi

 

Presentazioni d’autore: “I profumi del cedro” di Catia Napoleone

“I profumi del cedro” è il secondo romanzo di Catia Napoleone, autrice esperta in comunicazione, edito, per i tipi della Demian Edizioni di Teramo, nel marzo del 2014. Ho avuto il piacere di conoscere Catia in occasione dell’intervista da lei rivoltami per conto di Rosa TV, emittente televisiva digitale, nella trasmissione “Leggiamo insieme”, realizzata nella primavera scorsa in cui parlavo della mia silloge di racconti “Succo di melagrana”.

E’ appena il caso di dire che sono davvero contenta di essere tra i primi a recensire questo suo secondo figlio scrittorio.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

I profumi del cedro è la storia di Giulia, una ragazza calabrese che ha imboccato una strada decisa da altri per lei, sforzandosi di percorrerla per buona parte della sua vita per seguire con estrema malleabilità i dettami di un’educazione parentale e familiare antichi e consolidati, prima di decidere di scardinarli e riappropriarsi della propria esistenza, della propria identità di Donna e di Persona.

Elemento catalizzante assume nella storia, narrata in prima persona, il ricordo profondo e radicato del nonno di Giulia, padrone di una cedriera in Calabria, e delle sue riflessioni che ha voluto trasmettere alla sua nipotina, portandola a passeggio tra i filari della sua proprietà e spiegandole con semplicità, da uomo concreto e gran lavoratore, le piccole e grandi verità della vita sino al giorno della sua morte, avvenuta quando la ragazza è ancora un’adolescente.  Il paradosso è proprio quello; da un lato l’arrendevolezza di Giulia, ben pronta ad accontentare i suoi genitori rispondendo alle aspettative da questi riversate sulle sue scelte di vita adulta, e dall’altro l’impossibilità di prescindere dagli insegnamenti saggi e pacati di questa figura maschile così preponderante nella sua vita che, per contro, la invita a osare, a sognare.

Un matrimonio male assortito sin dall’inizio e tuttavia condotto con pacata e amichevole indifferenza da entrambi i suoi protagonisti, ambientato in una provincia in cui ogni cosa ha un senso se opportunamente collocata e sancita dall’approvazione della comunità di appartenenza. Da lì Giulia potrà, comunque, svincolarsi per una questione dovuta al caso o al destino, se così si può dire: il trasferimento della sua famiglia in Abruzzo, deciso dal marito che ha desiderio anch’egli di liberarsi da un retaggio familiare che sente sempre di più per se soffocante. Una decisione subìta ma che le aprirà uno spiraglio e la spingerà a guardarsi attorno, realizzando l’aspirazione di laurearsi e di rendersi donna libera, quanto meno culturalmente, da un marito che non ha nessun piacere a mostrarla nella sua cerchia di amicizie se non in situazioni istituzionalizzate come cene di lavoro o iniziative benefiche in cui tutto appare piuttosto che essere.

Di questo Giulia soffre silenziosamente, riuscendo soltanto nella dimensione onirica ad affrancarsi; nei suoi sogni, infatti, spesso popolati dall’immagine di nonno e dalle sue sagge indicazioni, la ragazza trova assai spesso rifugio per raccontarsi e spiegarsi molte cose della sua quotidianità che comincia sempre più a trovare ingombrante.

Saranno l’amore per Luca, suo figlio, e l’ammirazione e l’affetto per Alessandro B., professore universitario a cui Giulia si è mostrata per quella che è veramente, a darle lo slancio finale per recidere con un taglio netto il cordone ombelicale che la lega a una vita che non le è mai appartenuta. Il suo paese in Calabria e l’immagine delle cedriere colte nel momento in cui gli ebrei vi si recano per la ricorrenza del Sukkoth, oltre a una riconquistata autostima, (grazie anche, finalmente, alla tardiva ma incondizionata accettazione delle sue scelte di vita da parte di sua madre e di suo padre) caratterizzeranno la sua nuova stagione esistenziale, questa volta ricca di speranze e di sogni a cui non manca nulla perché diventino realtà.

Catia Napoleone narra la sua storia mantenendosi in bilico tra il genere diaristico, in cui trovano posto pensieri volanti ma anche brani di conversazioni passate e presenti, e quello propriamente narrativo in una sorta di “stream of consciousness” interrotto spesso, tuttavia, dalla concreta possibilità di Giulia di consigliare il lettore, forte del traguardo raggiunto, al meglio. Così come a suo tempo nonno aveva inteso fare, con la determinazione e la caparbia di guidare fino a quanto gli fosse stato possibile, quella nipote pulita daveru, immolata alla tranquillità familiare dei suoi genitori ma destinata a ben altre scelte.

 

L’autrice

Catia Napoleone è nata a La Louvière (Belgio) nel 1973.

Si occupa di comunicazione. Ha pubblicato il suo primo romanzo, intitolato “Per un atomo d’amore”  per Youcanprint nel 2012.

 

 

Catia Napoleone, I profumi del cedro, ISBN: 9788895396873, € 13,00 

 

 

 

Luglio

Dodicidio è una collection letteraria, un romanzo noir in dodici capitoli realizzato da me e da alcuni membri del F.I.A.E. Ha contribuito alla giusta causa dello  I.O.V.Art di Padova attraverso la donazione delle royalties derivanti dalla sua vendita.

Nasce da un’idea degli scrittori Fabio Musati e Amneris Di Cesare ed è stato pubblicato dalle Edizioni La Gru nel luglio 2013

Questa è la sua quarta di copertina:

Un uomo sui cinquant’anni, un contabile, fissato con i numeri e i calcoli. Uno che si confonde tra la folla, che non si fa notare, che non vuole farsi notare. Fa bene il suo noioso lavoro; onesto, pignolo, puntuale, preciso. Un brav’uomo. Un Grigio, insomma. Prima di Natale viene licenziato e il suo mondo frana improvvisamente. A farlo crollare è l’Ingegnere, padrone dell’azienda in cui lavora, uomo influente, di successo, introdotto negli ambienti che contano nella piccola cittadina dove vivono entrambi; lui diviene il nemico da abbattere, da eliminare. Da anonimo uomo di provincia, e da neo disoccupato, eccolo quindi diventare il Protagonista, eccolo trasformarsi in eclettico serial killer che medita con precisione, e minuziosa pedanteria, il delitto perfetto. Gli autori: Fabio Musati, Amneris Di Cesare, Luca Fadda, Francesca De Logu, Francesca Montomoli, Falconiere Del Bosco, Luciana Ortu, Valerio Piga, Fabrizio Colonna, Lucia Guida, Cristiana Pivari, Cristina Lattaro, Massimiliano Mistri.

 

Per voi, oggi, in lettura il mio piccolo contributo. A presto

 

LUGLIO*

 

La guida è giovane e carina, avrà circa vent’anni. Forse è una studentessa di Architettura che ha deciso di arrotondare le sue magre entrate da universitaria. Finge di darsi un contegno, ma in realtà ha una paura fottuta. Fortuna che il giro di visite che guiderà, è composto da poca gente. I turisti più accorti sono tutti in piazza, sotto le nuvole evanescenti degli evaporatori, all’ombra di ampi tendoni chiari.

La ragazza scruta i suoi compagni di sventura, pentita di aver indossato, per un po’ di frescura in più, quegli shorts che lasciano ben poco all’immaginazione. Riceve conferma della propria avventatezza dallo sguardo famelico di un padre di famiglia in bermuda, sandali da frate e t-shirt stile make-love-not-war. Lui le gira attorno lasciandole poco respiro; porta la guida-radio noleggiata all’ingresso al collo e un voluminoso libricino intitolato all’imponente Palazzo Ducale di Mantova in cima al borsello portato a mo’ di cartucciera a tracolla.

La ragazza sospira con insofferenza, valutando desolatamente lo sguardo di puro odio della moglie dell’uomo: una tizia bionda, capelli alla maschietto, piatta e magra come un chiodo, chiaramente esasperata tanto dal machismo del marito, quanto dal ragazzino di una decina d’anni, certamente loro progenie, arrampicato con sguardo assassino sulla transenna di metallo all’ingresso delle stanze museali.

Di fronte a lei c’è una coppia di turisti orientali. Con irritazione la ragazza pensa che le toccherà sfoderare il suo inglese scolastico. Del resto il tour promette pomposamente una visita guidata della durata di mezzora con la possibilità di ricevere informazioni in lingua. Che giornata! Dà un’ultima sbirciata all’orologio da polso: ancora cinque minuti allo start. Cinque minuti di attesa snervante, appena attenuata dal fresco garantito dagli spessi muri di quella casa patrizia, vanto e fiore all’occhiello della città oggi deserta.

Il nostro uomo, oggi in versione globetrotter, sogghigna per la fortuna di essere capitato al Palazzo Ducale proprio in questo sonnacchioso pomeriggio domenicale. Un momento reso ancor più propizio dalla distrazione di quella specie di Barbie occhialuta che non si è nemmeno accorta della sua sparizione, intenta com’è a messaggiare col suo smartphone. Sarà che di matti al mondo ce n’è a iosa, ma di sprovveduti ce n’è almeno il doppio. Superare la transenna fatiscente è stato un gioco da ragazzi, e lo è stato altrettanto proseguire silenzioso, sulle morbide suole delle sneakers, per gli ampi corridoi. Scarpe fantastiche sui cui lui è intervenuto creando una leggera ombra sul dorso limando la mina di una matita e applicando poi la polvere usando un batuffolo di cotone. L’effetto è perfetto. Si ferma un attimo solo, giusto per individuare il pannello di controllo delle telecamere a circuito chiuso, e per manometterne qualcuna, tanto per cancellare ogni traccia di sé, se mai ne dovessero restare. Nello zainetto ha tutto ciò che gli occorre per lavorare in modo pulito e professionale in qualsiasi circostanza. Bastano pochi minuti per allentare i tasselli e i fermi che tengono ancorato alla parete l’imponente arazzo, protetto da una pesante teca di vetro, riportato con tanta fedeltà sulla copertina della guida turistica.

Una scena silvestre in cui c’è tutto quello che gli serve: l’orrore della dama che si copre con una mano gli occhi per non vedere i tre caprioli inondati di sangue ai piedi del trionfatore, il cacciatore impavido. Un arazzo dal sapore profetico e per lui beneaugurante. Pronto a cedere rovinosamente al battito d’ali di una farfalla.

Luglio si veste di novembre se non arrivi tu. Luglio sarebbe

un grosso sbaglio non rivedersi più.

Alla comitiva, intanto, si sono aggiunti un uomo sulla cinquantina in polo di piquet, pantaloni color kaki e mocassini ai piedi, e un tipo con uno zainetto in spalla e un ridicolo berrettino da baseball americano unto e bisunto. La famigliola, la coppia di cinesi di Shangai e i due uomini seguono la guida per le stanze. Lei si impegna sfoderando un italiano fluido e un inglese accettabile nel descrivere i particolari che sa a memoria. Sogna un ghiacciolo alla menta e una doccia tiepida.

Mancano ancora un paio di sale da vedere.

Il ragazzino ricomincia a dare di matto. Probabilmente gli mancherà la playstation. La guida è certa che la scelta dei suoi genitori di andare per palazzi d’epoca sia stata dettata dalla necessità di sopravvivere alla cappa di calore insopportabile. Il marito le dà più l’impressione di un frequentatore di YouPorn che quella di un cultore d’arte, mentre la sua compagna è intenta a chiacchierare al telefono con un’amica. I due cinesi sembrano gli unici interessati al contenuto delle teche polverose. Il globetrotter, con le cuffie della guida-radio in testa, poco si cura delle sue spiegazioni.

Poco male.

La Barbie occhialuta procede con buona volontà negli approfondimenti, mentre l’ingegnere con i pantaloni kaki si premura di controllare che questi corrispondano alla virgola a quanto riportato nel suo libricino. Il globetrotter non può evitare di osservare con disgusto il suo dannato ex capo, fiscale e bacchettone persino nei momenti di relax. In un paio di circostanze l’ingegnere si spinge a correggere la guida, guadagnandosi un’alzata di spalle di quest’ultima, incurante della sua spocchiosa meticolosità.

Mancano circa dieci minuti alla fine del giro e la ragazza non vede l’ora di terminarlo. A passo spedito entra nella grande sala da pranzo, portando il suo gruppo al cospetto dell’arazzo. Il globetrotter si asciuga il sudore dalla fronte. I cinesi osservano rapiti i corpi dei caprioli straziati dai colpi del cacciatore. Persino il maniaco padre di famiglia e l’ingegnere si avvicinano incuriositi all’enorme pannello per osservarlo meglio. Il bambino tira fuori da una tasca una hot wheels. Vuole farla passare tra le gambe del distinto professionista che è impegnato in un’interminabile discussione con la guida, visibilmente scocciata. L’uomo insiste nel voler oltrepassare il sottile cordone di protezione per ammirare da vicino.

Il bambino sta per lanciare la macchinina, ma sua madre lo afferra per la collottola, esasperata dalle sue intemperanze, e lo strattona via.

La hot wheels cade al suolo. Il globetrotter la raccoglie, senza essere visto, e la scaglia contro l’arazzo davanti al quale la guida e l’ingegnere discutono animatamente attirando l’attenzione di tutti i presenti che si sono avvicinati ai due. Poi, silenziosamente, l’uomo si distacca dal gruppo e guadagna l’uscita. In sottofondo sente un fragore celestiale  e le urla di paura e dolore dei visitatori.

Aiutata dai due cinesi, la ragazza cerca di estrarre il corpo del padre di famiglia martoriato dai frammenti di vetro della teca. La moglie, basita, regge per un braccio il ragazzino finalmente ridotto al silenzio.

L’unico a non battere ciglio è l’ingegnere, stizzito per questa fastidiosa interruzione.

Ormai giunto in strada, il globetrotter si frega le mani soddisfatto. Stavolta è andata. Con audacia si nasconde dietro un capannello di curiosi prontamente accorsi, per ascoltare i primi commenti sull’accaduto. Una scarica gli attraversa il corpo quando vede avvicinarsi una sagoma a lui familiare. È lui! Possibile che…? Possibile che sia ancora vivo? Possibile sì, accidenti!

Luglio ha ritrovato il sole non ho più freddo al cuore

perché tu sei con me…

Maledetta schifosissima canzone.

 

Lucia Guida

 

“Luglio” in A.A.V.V. (2013) Dodicidio, Padova, Edizioni La Gru

 

                       

Succo di melagrana

 

 

 

“Succo di melagrana” è un mio componimento poetico in versi sciolti da cui prende il nome la mia prima opera da solista, una silloge di  sei racconti in cui narro storie di donne in bilico tra passato e presente, pubblicata dalle edizioni Nulla Die di Piazza Armerina a principio del 2012.

E’ un ritratto al femminile di ciò che ciascuna donna potrebbe diventare a un certo punto del cammino intrapreso grazie alla consapevolezza acquisita in itinere.

La melagrana, agrodolce e succosa, poco appariscente ma in realtà scrigno dell’essenza femminile per antonomasia, viene da me indicata come frutto privilegiato per rappresentarci a tutto tondo al mondo intero

Buona lettura

 

 

Succo di melagrana

 

Mi chiedi come sono

e insisti per saperlo.

Io sono io

e non so spiegarlo

talvolta neanche a me.

Sono tessuto leggero di

pashmina del Kashmir,

morbida e avvolgente dal

disegno piccolo e ricercato,

e non pezza di velluto di seta

sfrontatamente

impositiva;

sono argento indiano

lavorato con turchese o

ametista

e non trilogy di brillanti

in elegante confezione regalo.

Sono sottobosco d’autunno

dorato

e non esplosione di verde rigoglio

Sono tramonto che sfuma nel blu violetto della sera

o alba che tinge appena di luce e colori

tenui l’orizzonte

e non mezzogiorno accecante

e torrido.

Felice di essere così,

A volte anche senza parole,

mai più senza speranze

o amore verso me stessa.

Con una piantina

da crescere sul mio balcone,

o un fiore da curare,

in un goccio d’acqua

in un vaso di vetro

colorato

in camera

da me.

Succo agrodolce

di melagrana

che ti disseta

con discrezione

lasciando traccia

vermiglia

indelebile

sulla tua mano.

 

L. Guida *

“Succo di melagrana” in Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

 

in foto immagine di Persefone presa dal web

Il volo dell’aquilone

“ll volo dell’aquilone” segna il mio esordio letterario come autrice di racconti brevi, classificandosi, nel 2008, tra i dieci racconti finalisti del XII Concorso bandito dalla Biblioteca Poggio dei Pini di Capoterra (CA).

E’ un testo a cui sono particolarmente legata e ha segnato per me il passaggio da blogger a scrittrice di racconti brevi, una strada intrapresa a piccoli passi.

Confesso che avrei comunque amato Valerio e il suo desiderio caparbio e tenero di far volare quell’aquilone così faticosamente costruito anche senza i riconoscimenti ufficiali ricevuti. Spero sia così anche per voi  

Buona lettura e a presto

 

Il volo dell’ aquilone 

Valerio era il terzo di quattro figli. Era arrivato in sordina all’ alba di  un mattino di dicembre, terzogenito di una tipica famiglia di una città di provincia come tante. Una famiglia in cui spiccavano il rigore di un padre che si era fatto da sé  e la docilità di una madre che si era sposata per sistemazione e forse con poco amore. Valerio era stato accolto con la naturalezza con cui si accoglievano tutti i figli nati sotto la solidità di un tetto coniugale; sua madre gli si era dedicata con la dovuta devozione, quella che ci si aspetta da una brava madre, crescendolo con affetto contenuto alternato a momenti di tenerezza estrema in cui lui diventava centro del suo fragile universo femminile e fulcro verso cui pareva si accentrassero  tutte le aspettative di moglie palesemente insoddisfatta. Quindi, inaspettatamente, a distanza di circa quattro anni era nato Tancredi, spodestandolo del privilegio di piccolo di casa e portando con sé altri elementi destabilizzanti nella serenità e nelle certezze, poche, di quella “ donna del dovere “.

Valerio aveva gestito con apparente piena accettazione la nascita di quel bimbo. A lui era subito sembrato troppo piccolo e un po’ bruttino, inspiegabilmente circondato dalle cure continue della zia paterna, ufficialmente giunta in quella casa per dare una mano ma in realtà anche per aggiungere  il peso della propria autorità a quella paterna, appesantendo l’animo di quella mamma già greve di stanchezza non solo fisica. I suoi fratelli maggiori, invece, avevano preso l’intera faccenda con disposizione diversa; Alberto con la leggerezza che stemperava in tutte le cose che faceva e le iniziative che intraprendeva,  Maria Paola  con il giudizio e la saggezza che la caratterizzavano da sempre e la rendevano figlia prediletta in modo indiscusso del papà. Al bimbo non era rimasto altro che dissimulare un profondo e antico dolore con l’ apparente pacatezza che pareva tutti si aspettassero da lui. In quella famiglia, simile ad una compagnia di guitti, a ciascuno era richiesto di ricoprire un ruolo ben preciso e costante nel tempo; e il suo, appunto, era quello di figliolo incredibilmente disponibile e buono, pronto a modellarsi al canovaccio necessario al momento riproponendo comportamenti pregressi già con successo sperimentati senza improvvisazioni di sorta.

Le sue giornate di bimbo sensibile e creativo procedevano sempre nello stesso modo, segnate dal carattere burbero di quel padre dalla personalità ingombrante e dall’apparente duttilità di quella donna  affannosamente presa dalle mille incombenze proprie del ruolo che le era stato chiesto di impersonare; in un sottofondo dai colori tendenti al cupo, delineato dall’irruenza dei modi paterni, fatto di tempeste vere o presunte e mai mitigato dalla vivacità di un arcobaleno femminile che potesse addolcirlo.

A un certo punto della sua giovanissima vita aveva scoperto le infinite potenzialità racchiuse in una matita e una manciata di colori,  prendendo a dare sfogo, attraverso disegni complicatissimi e ricchi di particolari minuziosamente tratteggiati, a quel groviglio di sentimenti inespressi presente nel suo cuore infantile che mai nessuno aveva pensato di portare in superficie con parole amorevolmente invitanti al dialogo. Immagini vivaci e coloratissime avevano assunto infinite forme nello spazio quadrettato di un foglio, contribuendo a rasserenare i suoi momenti più critici e sublimando energie vitali che altrimenti sarebbero andate a sfociare in frustrazione, impotenza e rabbia. Sua madre aveva notato questo cambiamento, soffermandosi per un po’ sulle cause che lo avevano prodotto. Concludendo, infine, velocemente le sue riflessioni con una carezza lieve e distrattamente conciliante. Un’ abitudine, quella di pasticciare con le matite, che portava talvolta Valerio al punto di dimenticare perfino di mangiare per dedicarsi a quel nuovo passatempo da lei giudicato oltre modo singolare con stupore e meraviglia e assecondato con materna indulgenza. Assai diverse, naturalmente, le conclusioni cui era giunto suo padre; il disegno era da quest’ ultimo sempre stato giudicato un’arte minore, superflua, minimale. Ben altro rispetto alla letteratura, alla matematica o alla storia. Forme d’espressione o discipline di maggior spessore, assolutamente non paragonabili per consistenza a pittoreschi ghirigori colorati. Ma stavolta Valerio aveva tenuto duro, riaffermando silenziosamente la sua volontà di esternazione e all’ austero genitore non era rimasto che brontolare per un periodo limitato di tempo circa l’ inutilità di coltivare precocemente simili passioni, per poi terminare con l’allinearsi, sia pure partendo da diversi presupposti, alla tollerante posizione materna. E si era giunti a quella fatidica data, a quel primo ottobre che avrebbe sancito il suo ingresso ufficiale nel mondo degli adulti con la sua entrata nella scuola elementare. Il padre l’ aveva accompagnato in silenzio in quell’ aula gremita di banchi con la pedana e segnata dai singhiozzi di qualche bambino incapace di contenere la propria paura del nuovo, lasciando che quel maestro dall’ aspetto severo, da lui conosciuto e stimato personalmente come persona integerrima e di autorità,  attribuisse a quel nuovo scolaro il posto che gli sarebbe toccato per tutto l’anno scolastico. Per un istante, un solo istante, Valerio aveva chiuso gli occhi trattenendo il fiato per evitare di indulgere in  quelle che sarebbero state considerate, ne era certo, esagerate manifestazioni emotive. Un solo istante che, però, racchiudeva un mondo di pensieri, primo tra tutti quello dell’ aquilone di carta di seta da lui confezionato il giorno precedente e che non aveva potuto far volare per la pioggia, piangendo silenziosamente e di nascosto nella rimessa per liberarsi della frustrazione di quel piccolo piacere negatogli dalle circostanze della vita.

Ci aveva lavorato con lena per ben due giorni, cercando di addolcire in tal modo il pensiero dei doveri scolastici prossimi a venire. In un cassetto del tavolino da cucito della madre aveva scovato diversi fogli di carta da modello chiedendole il permesso di utilizzarli per quella nuova impresa ed ottenutolo vi aveva riversato con impeto e passione tutta la sua energia creativa, decorandolo pazientemente e amorevolmente con le sue matite e facendo ampio uso di colla di farina e acqua. Al contadino che curava l’ orticello di casa aveva sottratto delle asticelle sottili di bambù destinate alla coltivazione degli ortaggi, incrociandole con precisione ingegneristica e legandole con lo stesso spago con cui  aveva assicurato l’ aquilone ad un rocchetto di legno.

E poi aveva atteso che una giornata di sole e tepore annunciasse il mattino successivo.

Ma così non era stato, e un imprevisto maltempo aveva segnato il suo risveglio assieme alla proibizione assoluta di recarsi nei campi ormai fangosi e pieni di pozze d’ acqua piovana.

A lui non era rimasto che sperare inutilmente che  il tempo si rimettesse al bello, col visetto appiccicato al vetro della portafinestra del tinello. Il miracolo non si era però compiuto.

Con incredibile forza d’ animo aveva terminato di pranzare spiluzzicando distrattamente e attirandosi i commenti poco piacevoli del fratello maggiore. Ma a pasto ultimato e non appena tutti  avevano smesso di dedicargli un’ attenzione in quel frangente davvero indesiderata e scomoda, era scappato in cortile e corso via nel suo rifugio segreto. Per dare finalmente libero sfogo al suo dolore immenso.

Consapevolmente privo del conforto lieve e dell’ empatia gentile di una voce adulta qualsiasi che gli spiegasse come quella domenica era soltanto principio di autunno e non castigo divino per improbabili colpe precedentemente commesse.

Eppure a un tratto era stato proprio il pensiero di quel mancato divertimento a tirarlo su di morale e a rendere sopportabile quella giornata di pura sofferenza.  Come un viandante assetato in un deserto inospitale  cerca di scorgere in lontananza l’immagine rarefatta dell’ oasi per rinfrescare il proprio spirito affranto, l’ idea di quell’ aquilone in paziente attesa e tuttavia pronto a  spiccare il volo in qualsiasi momento, condotto dalla sua manina e da un vento gentile e favorevole, aveva avuto il potere di rasserenarlo e di dargli speranza nuova. Portandolo con sé ed in alto, con benevolenza,  verso una concreta e possibile via di fuga, a distanza di anni luce da quel presente di così poche soddisfazioni e di molti affanni.

Lucia Guida

 

 

“Aquiloni”, dipinto di Cesare Cassone

 

 

Presentazioni d’autore: “Gli imbecilli? Stanno tutti bene” di Giuseppe Cagnato

“Gli imbecilli? Stanno tutti bene” è il romanzo d’esordio di Giuseppe Cagnato, autore di Nulla Die, casa editrice  per la quale ho pubblicato i miei primi due libri da solista. Anche in questo caso la passata edizione di “Più Libri Più Liberi” è stata occasione “galeotta” per conoscere dal vivo Giuseppe, nella vita progettista e arredatore, partecipando assieme ad altre penne nulladieane a una bella e nutrita tavola rotonda domenica 8 dicembre 2013.

“Gli imbecilli? Stanno tutti bene” è stato pubblicato a fine 2012 per la collana lego narrativa.

La recensione è presente anche mio spazio  potpourri di LiberArti Social Reader Writer Artist.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

Umberto è impiegato in uno studio di architettura come travet competentissimo ma sottostimato e sottopagato; a un certo punto della sua vita ha la ventura di apprendere la notizia di un’offerta di lavoro piuttosto singolare. Vanda, imponente ed evocativa signora di una certa età, in bilico tra l’omonima soubrette del teatro di rivista  e Moira Orfei, è alla ricerca di un custode sui generis che faccia da supervisore e, per certi versi, moderi le intemperanze degli inquilini di un condominio di provincia di cui possiede la totalità degli appartamenti. Una sorta di ago della bilancia a cui delegare la grossa responsabilità di segnalare il più meritevole per ottenere in eredità, a fronte di bontà, sensibilità e onestàda questi accertate e certificate, in caso di una eventuale dipartita della ricca proprietaria, la totalità delle unità immobiliari.

Alla ricerca spasmodica di una svolta in positivo nella sua vita, connotata da cieli più blu e aria maggiormente rarefatta di quella sino a oggi respirata, Umberto decide di accettare la sfida e trasferirsi nel palazzotto, apprestandosi a condividere di buon grado le storie più o meno dolenti della variegata umanità che lo popola. Ciascuno, infatti, ha deciso di celare al nuovo arrivato la propria intima natura con maggiore o minore sapienza, anche perché la notizia che sarà proprio lui a decidere di segnalare l’erede più papabile a Vanda si è già diffusa attirando, tra l’altro, le proteste veementi di un monsignore, tale don Tarcisio, infastidito dalla prospettiva oramai sempre più concreta, di perdere il lascito a Santa Romana Chiesa delle proprietà dell’esuberante vecchina.

La convivenza a stretto giro con i coinquilini del palazzotto di via Europa, angolo via Terranova, non è delle più facili.

L’idea di un’eredità insperata ha, infatti, portato a galla ogni sorta di conflitto e divergenza, dando corpo e sostanza al più infinitesimale granello di sabbia fino a farlo diventare una montagna pronta a travolgere chiunque si incaponisca a scalarla. E il povero Umberto, che avrebbe voluto intravvedere qualcosa di più di una maschera menzognera, di una forma mero specchio di sostanza, nelle sembianze degli undici inquilini, finisce col metabolizzare questo coacervo di emozioni e sensazioni contrastanti, spesso negative, in un’incipiente colite che lo spinge a meditare di gettare via la spugna.

Venendo meno al suo proposito iniziale, Umberto non ce la fa a fronteggiare con la giusta ironia questa singolar tenzone ed ecco la vita venirgli incontro per livellare, per buona pace sua e magari, inconfessabilmente, della stessa Vanda, meno per qualcun altro, la situazione oramai ingestibile e in piena caduta libera. Con un botto finale, metaforico e letterale, che finisce col collocare fuori gioco vinti e vincitori, spingendo il malcapitato custode in primis a tentare nuove strade, con geniale e provvidenziale lungimiranza. Quella di un novello e sapiente apprendista affabulatore, pronto a ripartire da zero e ad accettare di scommettere ancora su se stesso, almeno per quella parte di destino che gli è dato, in qualche modo, di dirigere autonomamente.

Nel condominio di semiperiferia al centro della narrazione c’è spazio per molte delle contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca: vestigie di discriminazione razziale e sessuale, moralismo a buon mercato e condanna per chiunque cerchi di affermare la propria individualità, foss’anche attraverso pratiche new age considerate con sospetto prima di essere bollate come amorali. La forma di non omologazione più genuina è, forse, quella sancita con sconcertante candore dalle azioni di una coppia di anziane, Norina e Irma, pronte a mettersi in gioco, a torto e a ragione, con le loro strampalate e paradossali soluzioni, nelle vicende routinarie dei loro coinquilini con maggiore efficacia degli altri, certe di contribuire sempre e comunque al bene comune.

La scrittura di Giuseppe Cagnato è asciutta, incisiva e graffiante, evidenziando in modo lucido e, per certi, versi ironicamente spietato l’umana fragilità dei tanti personaggi che porta in scena. La sensazione è di un atteggiamento globalmente empatico dell’autore con una scucitura piccolissima, ma tuttavia significativa, di autentica simpatia per il povero Umberto, all’inizio della vicenda ricco di aspettative, vanificate pian piano dall’imbecillità altrui, vigorosa come la miglior gramigna in un campo di grano. Una fiammella di speranza ( “maledetto sia chi la spegnerà per sempre!” ) è la considerazione finale, amara e dolente del protagonista, che tuttavia non demorde e continua a guardare avanti, spedendo in un plico a terzi la sua unica possibilità di salvezza da un mondo incaponito a continuare inderogabilmente per la propria strada.

 

 

L’autore

Giuseppe Cagnato, quarantottenne trevigiano di mestiere progettista e arredatore, appassionato di scrittura e lettura nel tempo libero, suggella con il romanzo “Gli imbecilli? Stanno tutti bene”, pubblicato a inizio del 2013, il suo esordio narrativo per i tipi della Nulla Die, casa editrice siciliana indipendente.

 

Giuseppe Cagnato, Gli imbecilli? Stanno tutti bene, ISBN: 9788897364559, € 16,00  

 

 

 

Ballata di una notte di plenilunio

Ci sono viaggi che durano pochi attimi e viaggi che durano una vita. E poi ci sono i viaggi della speranza, quelli compiuti con l’entusiasmo, la forza e la disperazione di credere ancora in una vita migliore.

In questo racconto, inserito nell’antologia di A.A.V.V. “Pensieri in viaggio”, pubblicata nel 2010 da Ibiskos  Editrice Risolo, do voce ai pensieri silenziosi di  Marisella, giovane ragazza dei primi del 900 partita oltreoceano alla volta della terra promessa alla ricerca di un’esistenza migliore e maggiormente soddisfacente. Compagna delle sue riflessioni la Luna, con i suoi raggi luminosi  e benevoli, complici.

Buona lettura

Ballata di una notte di plenilunio

(… )

ora non piangere perché
presto la notte finirà
con le sue perle stelle e strisce
in fondo al cielo
e ora sorridimi perché
presto la notte finirà
con le sue stelle arrugginite
in fondo al mare

( … )

da   “  Verdi Pascoli  “   di F. De Andrè  

– Marisella sei ancora sveglia ?

La voce in sordina di comare Tonia ruppe d’un tratto il flusso dei suoi pensieri facendola emergere dal torpore che l’aveva assalita. Decise però di fingere di essere quello che l’altra aveva immaginato continuando a tenere gli occhi chiusi, troppo stanca per replicare in qualsiasi modo, sentendosi quasi soffocare nel ventre di quel battello che l’aveva aiutata a recidere innanzi tempo antichi legami con la sua terra al pari di una puerpera che sa di doversi privare della propria creatura ed è tuttavia ancora traboccante di amore e di nutrimento per lei.

Era in viaggio da più di una settimana, con l’animo improntato alla speranza e alla fatica propri di un pellegrinaggio in cui ogni gesto, anche il più doloroso, è un sacrificio necessario per poter acquistare l’ambita indulgenza e un barlume di santità in altro modo difficilmente raggiungibili. La nave la stava portando in un nuovo Paese di cui non conosceva nulla oltre ai racconti immaginifici di chi c’era stato narrati attraverso una lettera o contenuti in brandelli di conversazione riportati dalle labbra dei pochi che avevano parenti emigrati. Aveva preso la decisione giusta? Ci sarebbero stati rimpianti? Al momento non lo sapeva. D’istinto, tuttavia, sentiva come la scelta compiuta fosse probabilmente l’unica possibile in quel futuro nebuloso potenzialmente foriero di avvenimenti a tinte scure che l’aveva d’improvviso avviluppata. Il destino l’aveva precocemente privata della sua famiglia e del conforto morale e materiale da essa rappresentato con la morte dei suoi genitori, periti di “spagnola” a breve distanza l’uno dall’altra, e della presenza di un fratello che  aveva deciso di tentare la strada dell’emigrazione in Francia di cui a oggi non ne sapeva più niente.

In quel paese del sud, battuto dal vento in ogni stagione, d’estate come d’inverno, fatto di viuzze concentriche aggrappate tutte al suo nucleo originario, lei aveva atteso invano un segnale certo che non era giunto: quello di poter continuare a vivere in un microcosmo conosciuto sin nei minimi dettagli ma ultimamente per lei così poco benevolo. E un proponimento audace, lentamente, aveva cominciato a prendere corpo nella sua mente crescendo di giorno in giorno e fortificandosi per non darle la possibilità di ripensarci sommersa dai sensi di colpa. Ben poche ragazze nella sua condizione avrebbero avuto l’ardire di rifiutare, rischiando per l’affronto a terzi procurato di rimaner zitelle a vita, un matrimonio di convenienza. Eppure lei l’aveva fatto. Quell’attempato vedovo con prole in cerca di una moglie giovane e docile che potesse prendersi cura dei suoi averi e di se stesso davvero a buon mercato, l’aveva fatta arretrare di più di un passo. Nemmeno il parroco, chiamato a perorare la causa e a far “ragionare” la ragazza era riuscito a farle cambiare idea. Marisella aveva tenuto duro, recandosi in chiesa tutti i giorni all’alba pur di non attirarsi la malevolenza popolare e facendo, se possibile, una vita ancora più ritirata della precedente. E Tommaso, il barbiere scrivano della povera gente che come lei sapeva a mala pena fare la firma, l’aveva aiutata a stilare una lettera alla sua madrina di battesimo, emigrata col marito in America. Maria le aveva ridato un soffio di speranza, mostrando di volerla accogliere con sé, almeno fino a quando non avesse trovato di che sostentarsi da sola.

Marisella aveva venduto il suo bellissimo corredo ricamato a mano a certe signorine benestanti del luogo e un pezzo di terra che era la sua dote, procurandosi con fatica l’occorrente per pagarsi il biglietto e il parroco si era coscienziosamente incaricato, una volta al corrente dei suoi progetti, di affidare quella figliola caparbia a una famigliola che si apprestava a cercare fortuna oltreoceano. Erano partiti come ladri nel cuore della notte alla volta di Napoli per imbarcarsi su quella nave dal nome sconosciuto e altisonante, i pochi tesori conservati in fagotti e valigie di fibra di poche lire.

Il suo destino non era certo quello di Nuccia, conosciuta sul battello, sposatasi per procura con un giovane del suo paese che aveva deciso di sistemarsi con una conterranea di sani principi e senza troppi grilli per la testa non appena aveva laggiù raggiunto un po’ d’agiatezza con un lavoro sicuro. Quanti sogni e quanta fiducia racchiusi in quella foto minuscola e stropicciata serbata dall’altra in petto sotto la camiciola sottile fatta a mano! Sospirò piano invidiandola suo malgrado per quel sentimento d’amore che non le era ancora dato di provare, rigirandosi tra le coperte.

Si era sempre chiesta perché nei racconti degli emigrati più fortunati, quelli che poi tornano a casa per riabbracciare i propri cari col sorriso di chi ce l’ha fatta, mancassero descrizioni della traversata. Ora ne sapeva il motivo.

Non c’era nulla di fantastico o grandioso nei pochi metri di spazio assegnati ai tanti come lei, ma un senso di profonda desolazione dissimulata dalle preghiere recitate dalle donne e dai canti di calabresi, pugliesi, napoletani mormorati a mezza bocca nei dormitori di terza classe in quelle lunghe e interminabili nottate che parevano non avere mai fine. Anche lei a volte stentava, come in quel frangente, a prendere sonno, in silenziosa percezione di quell’umanità femminile sopita che con maggiore fortuna era riuscita, stringendo una medaglietta benedetta o una cosa di famiglia, ad addormentarsi.

Eppure non era la positività a difettarle.

Quel pezzetto di destino lei se l’era conquistato a caro prezzo riversando tutte le sue aspettative in un avvenire ben diverso da quello che le avevano prospettato, ne era certa. Nel suo modesto bagaglio c’era molto di più di qualche capo di vestiario o qualche oggetto caro. C’era la sua parte migliore, quella che aveva preteso, in nome del valore che sapeva di possedere, un’attenzione in più dagli eventi: una scommessa appena abbozzata, un grido di libertà e di consapevolezza pudicamente celati ma pronti a venir fuori al momento opportuno. Sarebbe diventata una bambinaia o un’operaia, o forse avrebbe alla fine ceduto alla tentazione di una comoda sistemazione da massaia, ancora non lo sapeva. Cosciente di aver voluto giocare una partita assai rischiosa ma rifiutandosi di intaccare, con altro atteggiamento, quel rispetto per se stessa conquistato barcamenandosi tra le avversità della vita con ammirevole fermezza.

Sotto il cuscino informe della cuccetta cercò febbrile un sacchetto odoroso di spigo, uno di quelli mescolati da sua madre alla biancheria, stesa ad asciugare nelle giornate di sole e vento sull’ erba verdissima e ripiegata ancora fragrante di aria e di natura sino al prossimo uso. Pensò alla serica delicatezza dei fiori del suo terrazzo augurandosi che sopravvivessero al lungo e deliberato abbandono grazie alle cure sollecite della  vicina di casa e allo scialle ricamato di seta di S. Leucio, ricordo di sua madre, riposto con cura tra le sue cose più preziose. Aveva deciso di drappeggiarselo sulle spalle il primo giorno che fosse sbarcata in quel porto straniero avamposto della sua nuova vita. Sentiva che le avrebbe portato fortuna, impregnato com’era della dolcezza dei suoi giorni migliori e della sua storia familiare.

Desiderò di poter camminare anche per pochi istanti su uno dei ponti superiori alla luce della luna e con la brezza marina dispettosamente intenta a scompigliarle la crocchia di capelli castani accuratamente composta e a intrecciare i fili della frangia dello scialle di pesante lana marrone che la difendeva dalla nebbia e dai rigori climatici della stagione, ma decise di aspettare l’indomani. Preferiva non abbandonare il dormitorio femminile in piena notte senza compagnia e quel coraggio che l’aveva fortemente connotata negli ultimi mesi stava iniziando a scarseggiare dopo le dure prove di quell’interminabile viaggio. Con uno sforzo di volontà aveva deciso di accantonarlo tutto per ciò che, l’aveva appreso a bordo dai racconti di altre donne che “sapevano”, l’attendeva di lì a presso, una volta sbarcata documenti alla mano ad Ellis Island; stringendo ancora una volta i denti di fronte a quel nuovo ed esoso prezzo da pagare per giorni a venire migliori dopo notti faticose punteggiate di stelle minuscole e lontane, talvolta troppo difficili da scorgere.

Con delicatezza fece un altro piccolo nodo, il nono, lungo il sottile cordone di cotone del sacchetto di spigo marcando, con quel gesto quotidiano, il tempo per accorciare, se possibile, i tanti istanti che ancora la separavano da quel nuovo sentiero già profilato all’orizzonte.

Socchiudendo gli occhi desiderosi di riposo si abbandonò al beccheggio appena accennato della nave seguendo l’onda dei respiri ora lievi ora pesanti delle sue compagne. Sapeva che cedendo alla stanchezza sarebbe andata incontro a un continuo di immagini vivide e poi sfocate, di pensieri compiuti o appena delineati, di realtà e fantasia, consapevole tuttavia che ciò ora le avrebbe dato meno turbamento.

Sulla folla impazzita dei tanti perché avrebbe prevalso la sua coscienza avvolta da un delicato e beneaugurante profumo di lavanda libera alla fine dai chiaroscuri complicatissimi dei “se” e dei “ma”.

Di questo si sarebbe d’ora in avanti armata, questo a figli e nipoti avrebbe tramandato, giurò.

Comare Tonia finì di sgranare il rosario baciandone con antica abitudine la croce benedetta prima di metterlo via. Poi sbirciò la ragazza finalmente addormentata conscia di quanta forza si celasse in quell’esile  corpo fortificato e abbellito prematuramente dal dolore. Chissà quanto ancora le sarebbe toccato in sorte, immaginò pensosa. Ma ce l’avrebbe fatta, concluse, e scaramanticamente si segnò.

Per omnia sæcula sæculorum.

Amen. *

Lucia Guida

* “ Ballata di una notte di plenilunio “ in  A.A.V.V., 2010, Pensieri in Viaggio, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo

photo by Immagini dal mondo

Viaggio

In una conversazione di qualche tempo fa mi è stato fatto notare come a volte la poesia, più della prosa, risponda all’esigenza di tirare fuori quello che continua a macerarci dentro. Ho pensato, allora, di proporvi in questo post un mio componimento in versi la cui unica pretesa è quella di ricordare una persona cara scomparsa pochi giorni fa, celebrando con lei la generosità di una precoce e mite giornata di febbraio che l’ha amorevolmente salutata nel suo ultimo giorno terreno.

Buona lettura

Viaggio 

Non è piacere

ma  amorevole nostalgia

condita, forse, con un pizzico

di malinconia piana

salutarti, oggi, in questa giornata

che è tripudio di primavera

precoce e bellissima.

Beffarda e per certi versi

irridente,

ma così speciale

nei mandorli in fiore,

nel verde minuto,tenue

e pieno di speranza

dei campi seminati a grano,

nel paesaggio cristallino degradante verso il piano.

Nitido e sincero Febbraio

generoso a offrirti doni e primizie di Natura

in quest’ultimo giorno di congedo

dagli affanni terreni.

Andata via nel giorno dell’Amore,

Carmena,

tu che hai amato un solo uomo

e non l’hai mai avuto,

vivendo con gioia e preoccupazione

riflesse la maternità

per il tramite

di figli di carne e sangue

dei tuoi fratelli e delle tue sorelle.

Un atto di clemenza estremo,

quello del Tempo degli uomini e di Dio,

farti accarezzare da raggi di sole

sorprendentemente  

tiepidi, avvolgenti,

nel giorno del compleanno

di tua madre.

Appena un attimo prima

del gelo eterno,

infinito;

lasciandoci qui, stupiti e inteneriti

dal ricordo dolente e pacato

di questo bel pomeriggio

di sole invernale.

Lucia Guida

“Paesaggio del Gargano”, Photo by Forum Natura Mediterraneo

La collana di conchiglie

“La collana di conchiglie” è il secondo e ultimo racconto parte, con “Un mercoledì perfetto”, del volume di A.A.V.V Il cuore delle donne, a cura di RosaAnna Pironti presentato nel mio precedente post. Racconta a voce alta i pensieri di Maria e le azioni di Romina, la sua nipotina, còlti sommessamente in un’afosa giornata estiva trascorsa in riva al mare. Entrambe le protagoniste sono impegnate a infilare gesti e riflessioni come, appunto, conchiglie assemblate con cura certosina da mani bambine in un gioco senza tempo. In quest’ottica pacata tutto, anche il più piccolo particolare, assume un senso  certo, per alcuni versi rassicurante anche se mai rinunciatario.

Buona lettura

La collana di conchiglie

Era un ciottolo di mare color ambra lambito senza sosta e con dolcezza dall’acqua cristallina di quel mare senza età. La bimba smise di dondolare il secchiello arancio posandolo sulla sabbia umida della battigia e si chinò a raccoglierlo. Venato d’iridescente com’era a lei sembrava quasi magico. Il sasso fu scelto finendo  assieme a conchiglie di varia dimensione e foggia, rametti di legno contorti e bizzarri, fili d’alga avvolti da un velo di sabbia e acqua marina in quell’accogliente scrigno ambulante. Un ricco bottino di cui andare fiera una volta a casa, a testimonianza di una giornata proficua tra la brezza fresca e salmastra e ombrelloni azzurri sventolanti e ombrosi.

Maria sollevò lo sguardo dal libro seguendo indulgente le gesta della bimba concentrata in quel lavoro certosino.

“ Amare un nipote è amare un figlio proprio “ si disse. Quella piccola, figlia di sua sorella, arrivata d’ottobre dopo un parto difficile tra mille ansie, aveva da sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Manifestato con le tante piccole attenzioni con cui amava circondarla: un gioco, un libro a colori, una collanina acquistati per lei accanto al necessario per i propri ragazzi. Sospirò sommessamente. I suoi figli erano al momento lontani, in vacanza con il loro padre muniti di tutto, anche del superfluo. Consegnati a lui con un sorriso e con rigoroso senso del dovere come le toccava, ma anche con segreto rimpianto. Due settimane in cui la loro casa versava in un silenzio e un ordine innaturali non aspettando altro che di rivestirsi con il giubbino di Marta insolentemente gettato per traverso sullo schienale del divano in sala o i Topolino di Matteo disseminati dappertutto a marcare il territorio.

Quell’anno aveva avuto, durante la loro assenza, il privilegio di potersi occupare di Romina. Aveva costruito con lei castelli di sabbia abbelliti con tutto ciò che le onde avevano deciso di riportare a riva, secondo uno schema tramandato di generazione in generazione da sua madre a lei e a sua sorella, ai suoi ragazzi ed infine a quello scricciolo biondo e vivace di cinque anni. Ritrovando il gusto di narrare storie di bimbe dal nome stranamente assonante a quello della piccola tiranna, sdraiata con lei sul lettone, occhi semichiusi e capelli morbidi dall’odore di piume, prossima al sonno e decisa a sfuggirlo in ogni modo in una lotta vana dall’esito certo che culminava immancabilmente in un respiro rapido e regolare nella penombra accogliente della stanza. Erano state giornate trascorse ideando giochi nuovi per soddisfare la vanità di quella donnina attraverso monili di conchiglie infilate una ad una o di pratoline tenute insieme da sottili fili d’erba raccolte con dovizia ed entusiasmo nel parco e poi disposte ordinatamente su una panchina per poter essere intrecciate.

Erano, quelli, momenti in cui il trillo del cellulare perdeva d’importanza diventando ricordo di una quotidianità sospesa nel tempo; ricomparendo, però, in serata per riannodare i contatti con i suoi figli, impegnati in giorni di vacanza vissuti con entusiasmo in un’estate ormai agli sgoccioli che di lì a poco avrebbe ceduto il passo alla scuola, a risvegli frettolosi, al calcio ed alle lezioni di danza, a cento altri impegni programmati e altrettanti  gioie, crucci, soddisfazioni, frustrazioni  di adolescenti in crescita.

Ripensò fugacemente al periodo in cui entrambi i suoi figli, immersi nel liquido amniotico del suo grembo, avevano rappresentato per lei e per il loro padre un infinito mondo di progettualità futura, i loro guizzi di pensiero accompagnati dai movimenti lenti e regolari di quegli esserini felici di nuotare in un acquario confortevole e tiepido. C’era stato un tempo recente in cui aveva desiderato, accanto a un altro uomo di cui si era inaspettatamente innamorata, di mettere nuovamente in cantiere un’altra piccola vita. Ma il miracolo non si era compiuto. Col senno di poi era arrivata a ringraziare il destino per non averle permesso di concretizzare quel tenerissimo sogno. Chiuse gli occhi per il riverbero del sole. Ogni volta che riandava a quello che avrebbe potuto essere e che tuttavia non era stato si sentiva come una farfalla stanca di volare consapevole del lungo cammino che l’aspetta ancora.

Una manina gentile ma decisa la riportò alla realtà tirando un lembo di ciniglia azzurra del suo telo.
“ La collana, zia “.

“ Dopo pranzo, amore mio” le promise, chiudendo gli occhi al sole.

Il patio era un’oasi di frescura nel pomeriggio assolato. Di spalle alla brezza che soffiava dalla collina sul frinire delle cicale, Maria cominciò la sua opera di infilatura, costantemente monitorata dalla nipote che si trastullava con i suoi gingilli pulendoli con cura e sistemandoli per terra uno dopo l’altro come bravi soldati pronti per essere ispezionati. Una conchiglia bianca, una rigata, una bluastra; media, piccola, grande. “Questa è da scartare, non è forata a sufficienza”, le suggerì, rendendole meccanicamente quello che la bimba si era invece affrettata a porgerle.

Romina si fermò, incerta. Non sapeva come rimediare a quell’intoppo imprevisto. Ma fu solo un istante.  Con prontezza affiancò il ciottolo ambra e iridescente del mattino al guscio di madreperla scartato e tutto, finalmente, ebbe nuovamente un senso.

“Stanno bene insieme”, annunciò felice.

Poi continuò, serissima e coscienziosa, a catalogare le sue gioie.  *

Lucia Guida

* “La collana di conchiglie” in A.A.V.V., 2012, Il cuore delle donne, raccolta di racconti di autori vari a cura di RosaAnna Pironti Editore – Stampa Lulu.com 

“Bucket Brigade children on the beach” by Kay Crain

Un mercoledì perfetto

Può capitare che la realtà non sia come la si dipinge e la vicenda di Maya e Michele non fa in tal senso eccezione. Una quotidianità insoddisfacente, tuttavia, non impedisce di sognare, credere e, perché no?, sperare in qualcosa di diverso, di migliore.

“Un mercoledì perfetto” è la mia proposta di lettura per voi di oggi ed è parte di una raccolta di racconti intitolata “Il cuore delle donne”, pubblicata da RosaAnna Pironti editore nel  2012

Buona lettura

 

 

Un mercoledì perfetto

Era bello perdersi nei suoi baci. Sapevano di miele, di nutella e di meringa. Di innocenti peccati di gola soddisfatti. Di dolcezza appagata che richiede tuttavia altra dolcezza senza averne mai abbastanza. Maya si fuse in quell’abbraccio respirando l’odore di maschio giovane a piene nari con un piccolo sospiro di beatitudine. Se quella non era la Felicità le assomigliava parecchio. Michele  ricambiò l’ abbraccio della ragazza, solleticandole l’ incarnato chiarissimo con l’ accenno di barba che gli era cresciuto nottetempo e che non aveva avuto il tempo di regolare perché lei quella mattina l’ aveva chiamato all’ improvviso per proporgli quella gita fuori porta in quella dimora antica e fiabesca circondata da tanto verde  e da giardini curatissimi multicolori, i viali sterminati ombreggiati da alberi secolari e violati da pochissimi visitatori in quel giorno di settembre lavorativo per molti ma non per lui. Quando aveva comunicato al suo titolare che per quel mercoledì non si sarebbe recato al magazzino, lui così preciso e ligio al lavoro come pochi, ne aveva ricevuto come risposta lo stupefatto silenzio dell’altro, non abituato a simili defezioni. Non da lui, almeno. E soprattutto non in quel periodo di lavoro convulso in cui molti erano gli ordini da evadere dopo la lunga pausa estiva. Michele aveva farfugliato di recuperi e di ore extra di servizio, pregando per quella giornata di riposo come se si trattasse di vita o di morte e al suo capo, sia pure con estrema riluttanza, non era rimasto che accordargliela a mezza bocca, mentre il “grazie” sincero del giovane rimaneva a mezz’aria troncato dalla fine rapida di quella strampalata conversazione al cellulare.

– Stai bene?

Lei gli sorrise con quel sorriso un po’ sfumato e malinconico che tanto l’aveva colpito al loro primo incontro e annuì lentamente.

– Sto bene.

Poi si tuffò con foga in un’altra parentesi di tenerezze rubate, pretese, ostentate protette dalla riservatezza di quel gazebo in pietra un po’ nascosto dal sentiero principale che tanto avrebbe potuto narrare e che fornì con discrezione a entrambi protezione sino all’ ora di pranzo. Quando lei con un sorriso questa volta più ampio, si scusò per lo stomaco che brontolava e sciogliendosi dalla sua stretta vigorosa si protese verso lo zaino costoso attingendone dei panini minuscoli, da prima colazione, spalmati di burro e marmellata e porgendogliene un paio perché lui se ne servisse. Michele si stiracchiò brevemente poi ne addentò uno bramoso, scoprendo stupefatto di avere fame sul serio, prima di rincorrere con la bocca sul viso, sul braccio e sulla scollatura di lei minuscole briciole dorate in un nuovo gioco a cui lei non si sottrasse, guardandolo con serietà con i suoi occhi scuri quasi a inghiottirlo nelle loro profondità.

Si erano conosciuti davvero per caso. Michele rientrava a casa dopo una serata faticosissima com’era sempre prima della pausa di ferragosto. Il magazzino straripava di consegne da effettuare in un paio di giorni cercando di non scontentare nessuno, nel rispetto delle varie priorità. Quelle ore di straordinario non l’avevano sconvolto più del dovuto; a casa da lui non c’era nessuno che lo aspettasse a quell’ora tarda e sua sorella con marito e figli era partita per Ostia ospite dei suoceri, lasciando il frigo ben rifornito e subissandolo al solito di raccomandazioni a cui lui avrebbe cercato di attenersi, riuscendovi solo in parte. Uno scroscio di pioggia più violento l’aveva costretto a ripararsi sotto quella pensilina di autobus col suo motorino, ancora troppo lontano da casa, deciso, nonostante la stanchezza che lo attanagliava, di non arrivarci fradicio sino al midollo. Scoprendo che qualcun altro aveva avuto la sua stessa idea, ben riparato in un angolo in attesa di un mezzo pubblico che tardava a passare. Una ragazza biondissima in minigonna, i lunghi capelli incollati al viso dal trucco sbavato, ipotizzò, da quell’ inatteso temporale. Lei aveva avuto un  istintivo moto di paura ed era visibilmente trasalita mentre lui smetteva di fissarla e si scostava quel tanto che bastasse per farle riprendere fiato e farle realizzare che da lui non c’era proprio nulla da temere. Non era tipo da ragazze di buona famiglia né queste si erano mai mostrate interessate a tipi come lui, capelli lunghi raccolti in un codino per sfida e per comodità. Di ragazze ne aveva avute un discreto numero: commesse, un paio di impiegate e una volta perfino una studentessa di legge patita di politica e di sesso in egual misura. A un tuono più forte degli altri seguito a breve da un fulmine caduto certamente nelle vicinanze la sconosciuta gli si era visibilmente avvicinata e avevano iniziato a scambiarsi qualche battuta, aspettando con pazienza che quel finimondo terminasse e quando ciò era accaduto le aveva offerto di riaccompagnarla a casa, lasciandola riflettere per qualche istante mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore prima di accettare. Dal bauletto lui aveva tirato fuori un casco a forma di scodella e gliel’aveva passato e lei l’aveva indossato su quello sfacelo di pettinatura e di trucco, montando dietro di lui e avvinghiandosi    al suo torace con forza insospettabile. L’ aveva lasciata davanti a un caseggiato lungo come un treno a Cinecittà, in mano un bigliettino in cui era riuscito a scribacchiare di velocità il suo numero di cellulare. Poi era sparito nella notte afosa e odorosa di pioggia e di ozono quasi certo che non l’avrebbe più rivista.

E invece le cose erano andate diversamente e a ferragosto lui aveva ricevuto una chiamata schermata a cui aveva risposto. Era lei, voleva ringraziarlo ancora per quella sera di pioggia, augurargli buone ferie e chiedergli, incredibile, di mangiare un gelato insieme al Pincio l’indomani pomeriggio.

Lui aveva accettato e aveva fatto carte false per rientrare a Roma senza che sua sorella esagerasse la sua iperprotettività chiedendogli di restare con loro ancora per qualche giorno. All’appuntamento, tra frotte di turisti accaldati e stanchi pronti a contendersi le poche panchine ombreggiate, lei gli si era presentata in forma perfetta,shorts delavé, trucco leggero impeccabile e borsina di tendenza, capelli biondi in ordine perfetto sparsi a raggiera sul top di marca minimal chic. Avevano mangiato quel famoso gelato e parlato di cose così. Poi quando le ombre avevano cominciato a fare capolino tra le chiome degli alberi di pino gli aveva annunciato che era ora di andare. Non aveva chiesto un passaggio col motorino e lui non aveva insistito, accontentandosi di averla rivista e sperando di poterlo fare ancora. Si erano incontrati nuovamente, a orari insoliti di mattina o nel primo pomeriggio, mai di sera, senza che lui chiedesse per questo spiegazioni e senza che lei gliele offrisse volontariamente. Sino a quella proposta di trascorrere un’ intera giornata insieme fuori porta, in quella villa romana antica che lui aveva visitato con insofferenza da studente delle medie con la sua classe, focalizzando la propria attenzione sulla partita di pallone  con i suoi compagni che certamente ci sarebbe stata piuttosto che sulle complesse spiegazioni e sui tanti approfondimenti della prof di Arte, innamoratissima di quella dimora imperiale e altrettanto desiderosa di istillare nelle loro menti l’ amore per il Bello e il Grande.

Farsi prestare la vecchia utilitaria di sua sorella privandola di un mezzo per le incombenze quotidiane era stata impresa non facile, quasi quanto chiedere al suo datore di lavoro di accordargli quel giorno extra di riposo promettendo mari e monti per il successivo fine settimana. Aveva troppa voglia di stringerla tra le braccia senza timore di consultare di continuo l’orologio. Forse si era anche un po’ innamorato di lei.

Dopo quel pasto inusuale decisero di confondersi con una comitiva di visitatori    scoprendosi con stupore più che interessati alla perfezione di quel tripudio di arte offerta loro a piene mani. Dopo lunghe contrattazioni con un ambulante Michele le comprò un piccolo cameo che riproduceva il profilo di una matrona romana e lei gli regalò un accendino celebrativo di quella gita di fine estate insperata. Prima di riprendere la vecchia Uno dall’interno profumato di arbre magique al limone e impelagarsi nel traffico intenso fatto di file e file di autovetture di ritorno verso la metropoli.   Una volta giunti a Tiburtina restarono ancora per un bel pezzo nell’abitacolo a scambiarsi coccole e baci, perdendosi negli occhi l’ uno dell’ altra sino a quando lei con decisione non spalancò la portiera cigolante e baciandolo per l’ ultima volta con desiderio non sparì tra la moltitudine brulicante della stazione, desiderosa di prendere la metro il prima possibile.

Michele restò li per qualche istante, indeciso sul da farsi sino a quando qualcosa gli scattò dentro e lo costrinse a uscire come un forsennato dall’auto per cercare di raggiungerla, la sua immagine e il suo odore ancora stampati indelebilmente su di sé. Appena in tempo per infilarsi sul medesimo treno anche se in carrozze differenti. A Trionfale stette quasi per perderla di vista, uscendo per una frazione di secondo dal vagone prima che il mezzo con un sibilo di ammonimento non riprendesse la propria marcia, tra le proteste di due globetrotters stranieri, a cui aveva sbarrato il passo impedendone la salita. Maya continuò a camminare sicura, quasi trafelata, consultando spesso il minuscolo orologio a braccialetto sino a quando dopo un lungo labirinto di scale mobili non riemerse in superficie. Mai le venne in mente di voltarsi a guardare per vedere se qualcuno la seguiva. Era quasi fuori tempo massimo e fece gli ultimi metri che la conducevano a un portone imponente arricchito da un batacchio di bronzo lucidissimo quasi di corsa, entrandovi prima che con solerzia il portiere chiudesse l’accesso a quell’ androne patrizio con deferente sollecitudine. A Michele non restò che oltrepassarlo sbirciando impotente le etichette in stile liberty sulla pomposa piastra citofonica cercando di indovinare quale fosse il suo cognome. Di lei sapeva pochissimo. Sapeva che le piaceva da matti il gelato di fragola e panna e che quando qualche pensiero fastidioso la tormentava aveva il vezzo di arrotolare tra pollice e indice una ciocca di capelli finissimi. Che i suoi baci erano semplicemente fantastici e che tra di loro c’era quella sottile alchimia che rende speciale ed esclusivo un rapporto tra persone di sesso diverso. Quell’indirizzo era l’informazione più sostanziosa di lei che aveva, contribuendo a dare concretezza a un’immagine mentale che di lei si era pian piano delineata nel suo cuore giovane e ardente. Temporeggiando indeciso per una manciata di minuti stabilì che per il momento se la sarebbe fatta bastare e a capo chino andò via, non senza prima guardare verso l’alto nella speranza inconfessabile di poterla sbirciare per l’ultima volta alla fine di quella giornata perfetta.

Maya restò a lungo sotto la doccia tiepida e rigenerante, lavandosi con dolcezza e con struggimento, ben decisa a far sparire qualsiasi traccia lui le avesse inconsapevolmente lasciato addosso. Poi, infilato l’accappatoio di soffice spugna bianca si aggrappò al lavandino guardando senza vedere la propria immagine riflessa attraverso il velo di vapore che aveva di fronte. Un paio di braccia forti le strinsero la vita mentre una mano maschile nodosa l’accarezzava al di sotto dell’indumento. Lei chiuse gli occhi imponendosi di non fiatare, pregando silenziosamente che tutto finisse velocemente. L’ altro prese con ingordigia e prepotenza da lei tutto quello che poteva fino a quando non ne ebbe abbastanza, poi la costrinse a guardarlo immobilizzandole il viso con una mano mentre con l’altra le cingeva entrambi i polsi sottili schiacciandoli contro la superficie fredda e impassibile del rivestimento di marmo della stanza. Alla fine restò sola in una nuvola di vapore in cui raffinate essenze profumate si mescolavano ai residui odorosi e al ricordo dei loro due corpi schiacciati con violenza l’uno contro l’altro. Con un brivido leggero fece un’altra doccia cercando di non pensare a quel presente, aggrappandosi con tutta la forza che le restava a un pensiero in quell’istante troppo lontano, irraggiungibile.

Vestita di tutto punto in un abito cortissimo che la modellava come una seconda pelle fece il suo ingresso in salotto, i capelli raccolti in un sofisticato chignon e il trucco impegnato a farla più adulta e disinibita. Lui le porse un drink poi le prese una mano e la mise in quella del suo amico. Lei lo guardò appena, scorgendone la calvizie pronunciata e la fronte imperlata di sudore, una camicia bianca chiazzata sino all’inverosimile per l’emozione e l’eccitazione di vederla così disponibile e così giovane. Una bambina travestita da donna. Una primizia da assaggiare senza remore o sensi di colpa. D’altronde era il suo mestiere e lei non era nuova a simili appuntamenti di lavoro. Poggiandole con senso di possesso una mano su una natica la spinse di là, incoraggiato dallo sguardo complice del suo protettore, ben pronto a sfruttare con larghezza tutto ciò che aveva lautamente pagato in anticipo.

Oltrepassata la porta Maya esibì un sorriso di circostanza e lentamente indossò una maschera di impenetrabilità. Sarebbe sopravvissuta, come sempre. E tutto come sempre avrebbe avuto una fine. Magari, questa volta, aveva una ragione di vita in più per pensare al domani. Una ragione concretizzata nella figura di quel ragazzo magro e allampanato, avaro di sorrisi ma non di tenerezze che di lei aveva un’immagine a tinte pastello. Che di lei possedeva la parte migliore, quella più vera e più nascosta. Una parte che gridava   sommessamente ma a gran voce di venire finalmente allo scoperto e di affermare la propria esistenza. E chissà che un giorno non ce l’avrebbe fatta ad avere il sopravvento. Sognare non costa nulla, si disse. Poi con lentezza poggiò un foulard sulla sommità dell’abat-jour acceso e cominciò a spogliarsi.

Lucia Guida

 

* “Un mercoledì perfetto” in A.A.V.V., 2012, Il cuore delle donne, raccolta di racconti di autori vari a cura di RosaAnna Pironti Editore – Stampa Lulu.com 

 

“Sewing woman”,  E. Hopper