Carillon

La maternità è una delle esperienze esistenziali  più complesse offerte a una donna ed è mia ferma convinzione che spetti alla donna in primis scegliere come gestirla. Decidendo della propria e altrui vita con libertà assoluta e parimenti con  estrema consapevolezza.

Il racconto di oggi, intitolato Carillon, si colloca “nel mezzo del cammino”, dando voce alle riflessioni di una donna che aspetta un figlio che non ha scelto di avere. Nella narrazione del fotogramma infinitesimale di una giornata come tante c’è posto per i ricordi passati della protagonista, per un brivido breve ma intenso del suo presente ma non per una conclusione netta, definita.

Sarà responsabilità del lettore dargliene una. Ricordando, tuttavia, che non c’è ferita o gioia al mondo che per ciascuno di noi non si ripercuota per una sola e unica stagione.

 

 

Carillon

La donna tirò lieve la cordicella del carillon e musica odorosa di borotalco e di piume leggere si diffuse nella penombra della camera da letto, rischiarata da un abat-jour dal cappello ampio e chiaro. L’illuminazione soffusa e tenue attutiva percettibilmente i pensieri, tanti e grevi, che le frullavano per la testa da un po’ di giorni. Da quando quel referto di laboratorio le aveva dimostrato inconfutabilmente come la vita conserva sempre una certa tendenza a riaffermare il proprio diritto a sovrastare la storia personale di ciascun essere umano, optando talvolta per  il momento meno opportuno per farlo, incurante di ritmi o equilibri preesistenti ed imponendo scelte.

Ed eccola lì, seduta sul bordo del letto accuratamente rifatto, a interrogarsi sul da farsi. L’unica nota dissonante quella musica per neonati rassicurante e morbida come il topolino di stoffa che la conteneva, vestito in toni pastello, che invitava ad una pacatezza che a lei in quel momento sfuggiva, che non sapeva fare propria.

Quarant’anni, un lavoro di tutto rispetto, una casa di proprietà, begli amici, un amico del cuore. E un figlio in arrivo. Inaspettato, non preventivato e tuttavia in viaggio già da un po’.

Giunto quando oramai lei non se l’aspettava più, rassegnata felicemente ad un avvenire di singletudine conclamata impostole dalle circostanze  e che lei aveva comunque accettato e fatto proprio.

Qualcuno l’avrebbe potuto considerare un segno del destino, un orologio biologico che le ricordava come tutto avesse una fine oltre che un inizio. Un barlume di eternità che le si era paventato a un certo punto del suo cammino esistenziale e a cui oggi, forse, non riusciva  a dare il dovuto risalto.

C’erano stati tempi in cui lei aveva sognato di diventare madre come giusta conclusione di cicli che si compivano. Erano quelli gli anni in cui credeva all’amore di una vita, quello che ti dà la forza di rivoluzionare il tuo mondo adeguandolo in parte  alle esigenze di terzi. Un amore bagnato di eternità, fatto di tranquilla quotidianità, di passione che potrebbe mutarsi in stabile e duraturo affetto. Di anniversari da rispettare e onorare, di spese al supermercato insieme e di cenette elaborate nella piena considerazione dei gusti di un altrui maschile.

Ma quell’epoca era inevitabilmente terminata e sfumata in un addio maturato in maniera graduale  annunciato da piccoli e impercettibili segnali, chiarissimi all’esterno,  che pure a lei erano sfuggiti.  E quando la quotidianità fatta di tenerezza si era tramutata in abitudine priva di rinnovamento ed entusiasmo, lei aveva detto “basta” anche per lui che, grato, l’aveva salutata con la promessa di farsi risentire a scadenze fisse. Da amico affettuoso che continua a volerti bene ma in modo differente. Riservando probabilmente, lei lo sentiva, un’attenzione privilegiata ed esclusiva ad altre. Tanto era servito a farla svoltare senza guardarsi indietro e a dedicare tutte le sue energie ad affermarsi professionalmente, accettando di popolare amichevolmente il suo tempo libero e di scegliersi un amico con cui condividere i suoi momenti di privacy e di relax.

Sorrise al pensiero di annunciare all’uomo che riempiva il suo presente di essere incinta di lui. Impensabile, improponibile. Paradossalmente assurdo.  Come si fa a comunicare a un eterno peter pan che non avrà più tempo da dedicare ai suoi passatempi preferiti perché molto verosimilmente potrebbe trascorrere ore ed ore accudendo un neonato bisognoso di cure infinite? Privato in aggiunta dell’infinita libertà di cui ha sempre goduto? A una persona che si è sempre posta al centro dell’universo vivendo senza vincoli né costrizioni, cominciando dal campare alla giornata senza programmi di sorta che non siano quelli legati alla mera sopravvivenza?

Non gliel’avrebbe detto, non aveva senso alcuno mettere al corrente di un evento così delicato una persona abituata a navigare, sia pure in mari ultra conosciuti, scientemente senza timone e a seconda del vento che spira al momento.

E cosa dire di se stessa e dell’impulso che l’aveva spinta a cedere senza un apparente perché all’acquisto di un carillon? Vederlo in una vetrina di articoli per la prima infanzia   e portarlo via con sé, ben mimetizzato nell’elegante borsa portadocumenti, era stata questione di pochi minuti. Il carillon era finito in un cassetto del comò e lei, con un sottile senso di colpa, l’aveva lasciato sotto  lì per un po’, quasi a riflettere sul da farsi. Sentendo d’improvviso e  inspiegabilmente il bisogno di tirarlo fuori quella sera di fine autunno per farlo trillare nella sua camera da letto minimal chic così perfettamente in ordine.

Sapeva che sarebbero occorsi ancora pochi istanti e il topino di stoffa avrebbe smesso di vibrare cessando di ninnare la sua ascoltatrice silenziosa. Attraverso la tenda accuratamente tirata osservò dalla finestra la sagoma di un albero ondeggiare nel vento della sera, ripetendosi mentalmente che tutto sarebbe tornato a posto, che ogni cosa avrebbe ripreso la sua collocazione solita. Che i suoi pensieri, anch’essi ben allineati, avrebbero seguitato a dipanarsi secondo un ordine prestabilito e rassicurante.

Ma sarebbe stato davvero così?

L. Guida

” Silenzio assordante “, dipinto di Giovimartin

Time Passages

A volte aspettare è l’unica cosa che resta.

Il mondo e le cose vanno come devono andare, secondo ritmi che assai spesso ci sfuggono ma che hanno, tuttavia, la preziosità di farci riflettere su noi stessi e su ciò che siamo secondo ritmi biologici più naturali, certamente più umani.

E la poesia, con il suo andamento lento, aggraziato ed elegante è l’unica possibilità che abbiamo per fermare nel tempo le piccole pause da cui sono scanditi i nostri passi nel flusso dell’esistenza. Con incisiva, profonda verosimiglianza.

 

 

Giorni

 

Non è con affanno

né con mera malinconia.

Non con impaziente scalpitio

né con apatica rassegnazione.

Non sotto una pioggia incessante

né in un deserto senza ombra o palmizi.

E’ sull’onda morbida

dell’altalena  dei miei ricordi

di bimba che aspetto,

pronta a spiccare

quel salto in terra.

Fortunatamente

non ancora sazia di vita.

Curiosa viaggiatrice

del mondo

con fardelli lievi

stretti tra le braccia,

avvolti in tessuto

di brillante

e robusta esperienza.

Lucia Guida

” Daydreaming on Swing “, silk painting by L. Reznikova

Il linguaggio delle cose

Le cose parlano con la voce e l’anima che noi gli conferiamo attraverso i nostri pensieri. Rivestendosi dell’affettività di cui noi le connotiamo. Trasformandosi da semplici oggetti in frammenti di memoria e di vita.

In un racconto brevissimo di qualche anno l’insolita giornata di un comune ciottolo di spiaggia.

Ciottolo di mare

Era un comunissimo ciottolo di mare.

Tondeggiante e oramai senza più angoli da smussare, color ambra portato fin lì forse dalla corrente del fiume o prodotto dall’erosione dei frangiflutti che a una certa distanza dalla riva proteggevano dalla capricciosità dell’Adriatico quel po’ di spiaggia che era rimasta.

Giaceva immobile sulla battigia sottoposto agli umori dei passanti che avevano deciso di spendere quel giorno di arsura e di calura al mare. Gli facevano corona un guscio di conchiglia ormai vuoto, pezzetti lucidi di alga e un rametto di legno levigato dalle onde. In mattinata aveva attratto l’attenzione di un bimbo bruno e paffuto che lo aveva trasformato in vetrata o portone del suo castello di sabbia, costruito con notevole impegno e con l’aiuto attento della sua babysitter e della sorellina poco più grande di lui. Poi il piccino era andato via, lasciando la sua costruzione in balia delle onde che in poco, col risalire della marea, l’avevano rasa al suolo. E il ciottolo era finito nuovamente tra gli altri tesori del mare.

Nel primo pomeriggio era stata la volta di un adolescente magro e altissimo dallo sguardo incupito che se l’era rigirato più e più volte tra le dita, voltandosi di tanto in tanto, furtivamente, a guardare di sbieco una ragazzina allegra e biondissima che giocherellava in acqua con i suoi amici a pochi metri di distanza da lui. Alla fine il ragazzo, stizzito, l’aveva gettato assai lontano dalla riva all’ennesimo strillo di gioia della sua compagna prima di raccogliere la sua sacca e di allontanarsi a passo veloce.

Ma il mare, con  gesto tenero e paziente, l’aveva riportato alla base. E il gioco era ripreso da capo.

Un terranova dallo sguardo umido e gentile l’aveva annusato per poi scartarlo lateralmente con una zampa e proseguire il suo cammino  indisturbato seguito dal suo padrone. Il ciottolo era stato poi raccolto da una signora di una certa età che ne aveva osservate con attenzione le venature iridescenti indecisa se includerlo nella sua selezione di pietre, ma ci aveva ripensato e l’aveva lasciato cadere  nuovamente nella sabbia fluida e scura. Era rimasto a lungo in quella sorta di limbo semi nascosto fino a quando una giovane donna l’aveva notato e se l’era fatto scivolare in una tasca dei cortissimi shorts che indossava. Per il ciottolo era stato un momento di panico e di buio assoluti, per nulla  mitigati dalla sensazione di appartenere finalmente e definitivamente a qualcosa o a qualcuno.

A casa la donna l’aveva tirato fuori e, dopo averlo ben ripulito,  gli aveva scritto sopra a penna indelebile una data e una parola. Conservandolo in una scatola circolare e lucida assieme a un rametto di mirto secco, a diversi bigliettini, a un sacchetto di lavanda, ad altri sassi e conchiglie e a molto altro ancora che sapeva di ricordi e giorni lontani.

Poi era uscita sulla veranda e, con lo sguardo rivolto al mare, ne aveva respirato la brezza pulita; rientrando dopo pochi attimi e richiudendo, dopo di sé, con garbo ma con decisione,  la persiana di legno chiaro sul crepuscolo aranciato e sui suoi pensieri.

Lucia Guida

 

                     photo by alfemminile.com

Vendetta o Vittoria?

La gioia di scrivere

 

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?

Ad abbeverarsi a un’acqua scritta

che riflette il suo musetto come carta carbone?

Perché alza la testa, sente forse qualcosa?

Sostenuta da quattro zampette prese in prestito dalla verità,

da sotto le mie dita rizza le orecchie.

Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta

e scosta i rami

causati dalla parola “bosco”.

Sopra il foglio bianco s’acquattano, pronte a balzare,

lettere che possono mettersi male,

un assedio di frasi

che non lasceranno scampo.

In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta

di cacciatori con l’occhio nel mirino,

pronti a correr giù per la rapida penna,

a circondare la cerva, a puntare.

Dimenticano che la vita non è qui.

Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.

Un batter d’occhio durerà finché lo dico io,

si lascerà dividere in piccole eternità

piene di pallottole fermate in volo.

Non una cosa avverrà se non voglio.

Senza il mio assenso non cadrà una foglia,

né uno stelo si piegherà sotto il punto del piccolo zoccolo.

C’è dunque un mondo

di cui reggo le sorti indipendenti?

Un tempo che lego con catene di segni?

Un esistere che a mio commando è incessante?

La gioia di scrivere.

Il potere di perpetuare.

La vendetta di una mano mortale.

 

Wislawa Szymborska

 

 

Essere autori per scelta e per passione. Iniziare con discrezione, quasi in sordina e continuare a farlo per il sottile piacere di vedere concretizzata un’idea peregrina, una storia che prende forma e spicca il volo, lasciandosi alle spalle una routine implacabile, le piccole e grandi contrarietà dell’esistenza, qualche inevitabile delusione per provare a intravvedere un futuro in continuo divenire: quello della propria creatività scrittoria.

Sorvolare con nonchalance l’indifferenza e la poca lungimiranza dell’oggi di qualcuno per continuare a inseguire un sogno leggero; appena legato al filo sottile di un aquilone lasciato a cielo aperto libero di dispiegarsi, seguendo come più gli aggrada le correnti d’aria prima di ritornare da te, ricadendo nelle tue mani. La tua creatura, un libro destinato a far sognare, immedesimare, condividere ad altri le tue sfumature emozionali e le tue scelte esistenziali, i tuoi tableaux di vita vissuta ora colorati a tinte vivaci ora con toni pacati.

Davvero una gran bella vendetta quella dell’autore: disvelare a mezza voce nell’orecchio del lettore verità nascoste e  imprevedibili lasciandogli la possibilità di scoprirne altre, maggiormente vicine alla sua sensibilità, col prosieguo della storia. Una vendetta sapiente a fronte della pochezza, della disonestà, dell’avarizia mentale e sentimentale dilaganti e contagiose.

Vendetta o semplicemente vittoria?

A me piacerebbe che fosse vittoria: trasparente e leggera come acqua di fonte, purificatrice, esorcizzante.

Un grazie di cuore alle intuizioni poetiche della Szymborska. A tutti noi apprendisti affabulatori l’augurio sincero di buon cammino.

 

La Fata della Melagrana

La Melagrana ha segnato indelebilmente quest’anno per me specialissimo e singolare. Vorrei concludere questo dicembre insolitamente soleggiato e quasi primaverile con una piccola fiaba che parla di infanzia, di fantasia, di fate minuscole e benevole e di melagrane beneauguranti. Pensando per voi una fine morbida, senza scossoni, e un principio altrettanto graduale colorato di positività e passione per le cose belle e vere.
Arrivederci, 2012. Benvenuto, 2013.

La Fata della Melagrana

La bambina prese con le mani le due metà della melagrana perfettamente combacianti e simmetriche incerta sul da farsi. Poi decise di separarle con dolcezza, lasciando che copiose gocce di succo agrodolce e vermiglio macchiassero la tovaglia bianca di fiandra con cui la tavola era apparecchiata.
La donna si stiracchiò languidamente, svegliata dalla solerzia della bambina guardandola interrogativamente e poi con maggior indulgenza e disponibilità. Destarsi all’improvviso le era costato parecchio ma comprendeva la curiosità di quella donna in nuce e decise di accontentarla. Fece qualche passo di danza per sgranchirsi le membra intorpidite sul chiaroscuro della tovaglia damascata lasciandosi guidare da una musica immaginaria e dal piacere genuino di quegli occhi infantili colmi d’intelligenza intenti a seguire con interesse ogni sua mossa. Sfoderò tutta l’intraprendenza che possedeva nel percorrere il perimetro quadrato del piano su cui poggiava ben attenta a non scivolare oltre, verso profondità e altezze inesplorate. Continuò fermandosi davanti alla foglia lucidissima e verdissima di un’arancia matura, saggiandone la consistenza provando a dondolarsi con leggerezza, le mani ben salde al picciolo, e la bimba ripensò a pigre giornate estive trascorse nel dormiveglia intrecciando le dita nelle maglie di un’amaca lontana dal vago sapore di salsedine e le sorrise. Decise, allora, di offrirle la polpa sugosa di un acino d’uva maturo e la donna accettò con gratitudine. Insieme ne assaporarono la dolcezza senza pretese a lungo e in silenzio; poi la creatura misteriosa accettò di salire sul palmo di quella manina grassoccia e amichevole per farsi esaminare con la stessa precisione di uno scienziato intento a osservare al microscopio un organismo prezioso e minuscolo poggiato con cura su un vetrino: i capelli lunghi e liscissimi, dalla consistenza setosa. La pelle rosea e compatta del viso. Gli occhi color ambra, mobili ed espressivi. Un corpo femminile sinuoso e morbido appena velato da un abito di consistenza traslucida che alla bimba fece pensare alla sottilissima pellicina dell’acino d’uva appena assaporato. Una fata perfetta e amabile, simile alle tante creature fiabesche da lei conosciute e amate nelle ore di assoluta e compiuta solitudine trascorse nella lettura avida di pagine e pagine di storie senza tempo. A lungo rimasero lì, insieme, avare di parole, comunicando un mondo di idee e sensazioni attraverso le sfumature sottili ed espressive dei loro sguardi sino a quando un rumore improvviso e inaspettato non le fece sobbalzare entrambe, con la sgradevole percezione di essere state appena colte in flagrante.
Il persiano di casa osservò sornione la sua giovane padrona dal basso, strofinandosi contro una gamba tornita del tavolo, riflettendo sulla prossima mossa da compiere. La fata portò l’indice alla bocca chiedendole silenzio e complicità e la bambina con delicatezza decise di lasciarla laddove l’aveva, quel giorno, scoperta per la prima volta, accanto ai grani trasparenti e rossastri del frutto che era la sua dimora e attese. L’altra annuì con un sorriso leggero lasciandosi racchiudere con grazia nella sua prigione dorata. La bambina guardò a lungo le due metà ora saldate alla perfezione e non disse nulla.
Poi, con fare autorevole, si rivolse al suo antico compagno di giochi invitandolo a seguirla come sempre in giardino.
Di quel pomeriggio magico e irripetibile non rimasero che poche stille vermiglie sul candore violato di una tovaglia delle feste e un’aria svagata e pigra ma stranamente appagante offerta dal sole e dal garbino attraverso la finestra aperta su una domenica di dicembre unica e speciale.

Lucia Guida

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photo by Danezz

PRESENTAZIONI D’AUTORE – “Vita senza tempo” di Caterina Regazzi e Paolo D’Arpini

“Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”

‘Che tu sia per me il coltello’, David Grossman

 

 

Un amore “settembrino”, quasi “senza tempo”, quello narrato da Paolo D’Arpini e da Caterina Regazzi nel loro bel libro “Vita senza tempo”, raccolta epistolare della selezione di un nutritissimo carteggio virtuale che inizia il 24 aprile 2009 e si conclude il 7 luglio 2010.

Ne abbiamo parlato con passione e con sentimento domenica 9 dicembre 2012 a OliS in un’intervista a tre mani, caratterizzata anche dal pieno coinvolgimento empatico del pubblico presente.

Il libro si dispiega in maniera graduale, partendo dall’iniziale fase amichevole della conoscenza reciproca di Paolo e Caterina, nutrendosi di un corposo segmento intermedio di approfondimento e approdando, infine, a una relazione stabile sentimentale. Un ruscello che convoglia le proprie acque in modo equilibrato prima di diventare fiume e sfociare in una conclusione ideale, quella di apertura verso il mare e verso la vita stessa, rivista da Caterina e Paolo in un’ottica di condivisione e comprensione l’una per i punti di forza e i punti di debolezza dell’altro e viceversa, come in un amore maturo e realmente fruibile dovrebbe sempre essere. Un sentimento forte e corposo ma non scevro da  dubbi, piccole incertezze, sussulti dovuti alla frenesia del vivere quotidiano sperimentati da Caterina, veterinaria, accolta in un abbraccio ideale dalla disponibilità  “appassionata/spassionata” di Paolo, spirito libero e pensionato, spesso ago della bilancia della quotidianità di entrambi. Il dialogo  procede secondo ritmi variabili, trattando moltissimi temi attuali e contemporanei: relazioni umane e loro spendibilità nel reale e nel web ( quest’ultimo visto come modalità privilegiata e catalizzante di comunicazione, seguita tuttavia da un’indispensabile conoscenza “de visu” );   accettazione amorevole e consapevole di se stessi come premessa indispensabile per l’instaurazione di rapporti affettivo-sentimentali-relazionali positivi e durevoli di amicizia e amore; scelte esistenziali sentite con particolare riferimento alla salvaguardia dell’ambiente, alla tutela del benessere degli animali anche in rapporto a stili alimentari vegetariani o vegani. Accomunate sempre e comunque dal profondo rispetto di tutto ciò che ci circonda.

L’idea di vivere spensieratamente ma non superficialmente per arrivare gradualmente ma in modo maggiormente sentito e con naturalezza a determinate scelte di vita, senza forzare la mano a un processo che, una volta innescato, porta inevitabilmente alle giuste conclusioni. L’attribuzione, infine, di un peso rilevante al momento presente, da gustare intensamente scevro da ombre passate ( o forse, meglio, non appesantito ma arricchito dalla positività di ciò che è stato ) e di moderata propedeuticità verso un futuro ancora tutto da costruire con i piedi ben piantati per terra in un hic et nunc concreto e costruttivo.

 

Gli autori

 

Caterina Regazzi (classe 1959), veterinaria, è il referente della Rete Bioregionale Italiana per il rapporto uomo-animali. Vive a Spilamberto (MO) dal 2000 dove lavora e “si prende cura del proprio sé”.

 

Paolo D’Arpini (classe 1944), pensionato, è stato uno dei primi ri-abitanti della comunità di sperimentazione artistica, politica, sociale e spirituale di Calcata, alle porte di Roma. Dagli anni ’70 agli anni ’90 ha ripetutamente soggiornato in India ed in Africa. Ha collaborato in qualità di free lance con numerose testate, televisioni e radio. Vive attualmente a Treia (MC) dove si dedica soprattutto alla sua attività di blogger.

 

Le citazioni

 

Ben amalgamate nella narrazione, le riflessioni di Caterina e Paolo abbondano senza, tuttavia, il minimo sentore di  pretenziosità. Una sorta di corollario, fruibilissimo per tutti, di vita vissuta, agita.

 

Paolo D’Arpini

 

“ Viviamo in una società che non tiene conto del valore della vita di altre specie ed è per questo che una dieta vegetariana sarebbe indicata sia per motivi etici, che tuttavia sono meno importanti, che ecologici.”

“Le sensazioni più negative sono solo oscuramenti che sorgono nella mente, tanto vale non tenerne conto e procedere risolutamente nel bene … “

“Occorre accettare la propria solitudine e volersi bene come siamo, senza aspettative né desideri, allora nel silenzio l’amore fiorisce e non è più compensazione ma una semplice espressione di sé”

“Quando sono in viaggio mi muovo come se fossi in sogno, non so mai quello che succede realmente e quali sono le cose da fare, anche se un sottofondo di conoscenza o di ricordo dei percorsi e dei modi mi resta nella memoria”

“Le cose accadono perché ce le cerchiamo ma anche a volte contro la nostra volontà. Io, sinceramente, non credo che il nostro destino sia segnato ma che “attiriamo” o “respingiamo” le persone, gli eventi, le atmosfere a seconda di quello che siamo e che sentiamo e quindi di come noi ci poniamo”

“Non è meglio immergersi nel tutto e accettare, vivendo e basta? Dove per accettare voglio dire anche lottare, se necessario”

“La santità è una cosa diversa dalla saggezza”

“Ognuno di noi ha bisogno di essere addomesticato per poter risultare consono in un rapporto ma questo non significa perdere le proprie caratteristiche, anzi significa capire come accettarle e farle accettare con dolcezza”

“Ama e non preoccuparti … ama e basta”

“Ricordiamo sempre che possiamo solo compiere ciò che è a noi possibile, non ciò che riteniamo dovrebbe essere”

“L’amore è un gran livellatore dell’io”

“ (…) provo per te un infinito amore e cerco una fusione con te, uno stato dell’anima in cui non abbia più “bisogno” di chiederti alcuna spiegazione. Sciogliermi in te, restando me”

“Sii te stessa senza remore e non avrai mai da pentirti”.

 

 

Caterina Regazzi

 

“E’ più difficile fare di ogni scelta che ha risvolti commerciali una scelta consapevole sui risvolti  ecologici, etici, sociali che comporta (…) Tutti dovremmo guardare un po’ di più alle implicazioni che i nostri comportamenti sottendono … senza che il nostro ego ne abbia a gonfiarsi troppo.”

“Ero felice anche prima, Paolo, finalmente dopo tanti anni passati a subire la vita, ora ho imparato ad amarla incondizionatamente come si ama un figlio e forse proprio per questo ho incontrato te”

“L’amore non si può pretendere, ma non solo l’amore tra uomo e donna, tutti i tipi di amore (…) ti amo come sei senza chiedermi neanche più di tanto come sei”

 

“ (…) siamo tutti un po’ “sciroccati” e tutti, chi più, chi meno, ci attacchiamo a delle immagini, a delle esperienze fuori da noi, per poter dare “un valore aggiunto” alla nostra vita”  

 

“Se rinasco vorrei rinascere gabbiano, tanto lo so che dovrei retrocedere nella scala evolutiva ma almeno forse, per una vita di gabbiano mi sentirei più libera”

 

“Meravigliosi i momenti in cui non capisco dove finisci tu e dove comincio io”

 

“La ricerca della felicità è un istinto naturale (…) Per me la felicità si raggiunge essendo in armonia con il creato, provando amore per se stessi e per gli altri”

 

“ (…) sognando, ad occhi chiusi o aperti, a volte si scoprono energie e scenari che ci fanno vedere al di là delle semplici consuetudini e ci mettono in contatto con il nostro Sé”.

 

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Presentazione di “Vita senza tempo” a OliS, Associazione Culturale di Montesilvano (PE)
9 dicembre 2012

 

 

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Il blog di Paolo D’Arpini e di Caterina Regazzi:
http://paolodarpini.blogspot.it/

“Vita senza tempo”, edita da Viverealtrimenti è reperibile qui e nei principali store on-line

Andar per fiere – a Più Libri Più Liberi con la Nulla Die

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Prendete cinque autrici grintose, mettetele insieme a parlare di scrittura al femminile e otterrete  risultati sorprendenti. Le donne, si sa, sono dotate di energia e inventiva inesauribili, pronte a dispensare potenziale umano a piene mani con generosità e obiettività non scevre di concretezza e realtà. L’evento a cui mi riferisco è stato il dibattito “La scrittura  è Donna. E il mercato editoriale?”, promosso il 6 dicembre 2012 dalla Nulla Die, casa editrice siciliana di Piazza Armerina (EN), ospitato nella Bibliolibreria del Palazzo dei Congressi di Roma in occasione della X edizione di Più Libri Più Liberi, fiera nazionale della piccola e media editoria.

Antonella Santarelli, nel duplice ruolo di autrice e moderatrice, ha voluto sondare il terreno parlando di mercato editoriale e di proposte scrittorie con me, Greta Cerretti, Laura De Angelis e Cristina Lattaro in un’ottica rigorosamente femminile richiesta dal dato di fatto più oggettivo: che, cioè, la fetta di lettrici/ compratrici/fruitrici di libri sia a oggi costituita in maggioranza proprio dalle donne.   Nel panorama variegato e complesso dei libri editi in quest’ultimo periodo è palpabile un’attenzione in tal senso, non sempre corrisposta da un livello qualitativo adeguato. Come dire, citando Ogilvy à revers, che nel mare magnum del marketing editoriale non sempre contino realmente le persone che contano, almeno in un’ottica di onestà intellettuale. Molto più facile puntare sul livello di intrattenimento, di puro divertissement della lettura; e poco importa che si finiscano col sottovalutare volutamente e artatamente gusto e background socio-culturale femminile posseduti da buona parte delle lettrici, livellati senza mezze misure per rispondere in modo maggiormente funzionale a logiche di compravendita mordi-e-fuggi, spesso sulla falsariga di diktat esteri a partire dalle famose cinquanta sfumature jamesiane e oltre.

Le succitate autrici Nulla Die, impegnate ciascuna in forme di elaborazione  scrittoria di genere differente, hanno voluto dire la loro, sottolineando come l’erotismo non vada affatto confuso con il mom-porn o soft-porn  dilaganti e debordanti soprattutto negli ultimi tempi tanto da diventare punti di riferimento e offerta narrativa anche di note case editrici italiane. Che la scrittura impegnata ma anche fantasy, noir, di genere possa ben costituire una valida alternativa a ciò che si pone compulsivamente come moda del momento. In particolare Cristina Lattaro, in attivo due pubblicazioni in cartaceo con la Nulla Die e altrettante in versione e-book con la Sesat, si è detta pronta a  sperimentare il genere erotico noir stando bene attenta a non cedere alle lusinghe della pornografia tout court. Dello stesso avviso Greta Cerretti e Laura De Angelis, ciascuna autrice per la Nulla Die di un romanzo edito nella passata stagione, entrambe ben pronte a tentare nuovamente a breve la strada della pubblicazione con lavori inediti già ultimati. Alla domanda rivoltami da Antonella Santarelli,  autrice anch’essa per la Nulla Die di testi poetici e di prosa, se sia ancora il caso di proporre opere “impegnate” ho risposto di si; alle antieroine di “Succo di melagrana” impegnate nella quotidianità più spicciola a scegliere di imboccare strade diverse con una consapevolezza e una costruttività tutta al femminile credo fermamente.  E non è detto che in tal senso letture di qualità incentrate su buoni propositi permeati di positività e non di buonismo non possano fare la differenza. Quanto meno in termini di non omologazione di pensiero.

 

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PRESENTAZIONI D’AUTORE – “ La figlia del sarto “ di Lucilla Pavoni.

Nel mio caldo autunno scrittorio 2012 c’è anche la conduzione di una rubrica letteraria di presentazioni librarie presso l’Associazione Culturale OliS di Montesilvano (PE), a cui sono iscritta da diversi anni, su espressa richiesta di Michele Meomartino, socio fondatore.

A inaugurazione di questo ciclo di incontri domenica 25 novembre 2012 l’opera prima di Lucilla Pavoni, intitolata “La figlia del sarto”. Il libro, pubblicato nel 2009 per la prima volta, è la narrazione lucidissima e attendibile di uno spaccato d’Italia, con riferimento particolare alla società rurale marchigiana del secondo dopoguerra. La Lucilla di un tempo analizza con silenziosa e attenta curiosità propria di una bimba di cinque anni la ciclicità dell’esistenza nelle sue varie fasi, dai primissimi istanti scanditi dalla descrizione di Marcellina di sua figlia ( “ Sei proprio ‘na contadina! Del resto sei nata su un campo! “ ) in “Le origini”, sino alle battute finali della giovanissima esistenza di “Alberto” nell’omonimo capitoletto, suo compagno di giochi, perito all’improvviso e prematuramente in “(…) un giorno bellissimo, felice più che mai .

Si parte dall’immagine scultorea di Edmondo, il sartore, misuratore sociale del  piccolo microcosmo contadino di appartenenza e personaggio di spicco al pari di artigiani come barbiere e calzolaio, capaci di trasformare, con la loro abilità in signore  “ anche l’ultimo miserabile di questa terra ”, accompagnato nel suo girovagare professionale dalla figlioletta in paese e nelle campagne circostanti, accolto da tutti a braccia aperte, per poi proseguire con Lucilla oramai adulta alla ricerca delle proprie origini fatte di “foglia e ramo e albero e terra su cui tutto poggia”, grata per essere riuscita, sia pure con fatica, a ritrovare se stessa e la propria anima. La rassegna continua con la narrazione di “camilli e donne vestite nude” di colonialistica memoria seguita dalla descrizione particolareggiata di incontro, promessa, corteggiamento e matrimonio in “Li spusi”, con l’elencazione perfetta di tutto ciò che a corollario caratterizzava tale stagione di vita; un esempio tra i tanti la lenta costituzione della “cassa del corredo”, “viatico per tutta la vita” per le donne di una volta. Di pari passo scorrono come perfetti fotogrammi di una vita all’insegna della semplicità  e dell’essenzialità i momenti fatti di ineluttabilità in cui con un conforto dato dalla saggia accettazione  dell’imponderabile “la morte era meno morte” e immagini impresse indelebilmente di cose, personaggi e piccole e grandi creature della natura: Pacì, Annina e una piccola figlia di contadì compagna di scuola, umanità variegata e specialissima nella propria unicità, fatta di tangibilissimi punti di forza e di fragilità. Il volo “impazzito” delle candelore trattate come minuscoli aquiloni viventi e i bachi da seta di Dorina, “insaziabili, ansiosi di crescere” e tuttavia condannati a fine certa sia pure preceduta da un bagno generoso nel sangiovese. Piccoli lussi come la scatola di Idrolitina ottenuta dalla “vergara” in cambio del surplus delle uova prodotte dalle galline del suo pollaio; erbe curative  come “grugni, crispigne e pimpinelle” capaci di togliere di torno ogni male, rafforzate nell’effetto benevolo dall’uso antico di gratitudine, speranza e fede nella positività che è insita in ciascuno di noi e nell’energia potente e rigeneratrice dell’Universo stesso.  La consapevolezza di giudei, contadì e paesà di essere piccoli tasselli di un unico, irripetibile quadro, accomunati da sentimenti, paure ancestrali di malesseri come un fastidiosissimo mal di denti, vissuto come interruzione forzata del fluire incessante e doveroso dell’esistenza, di “ove pinte” di riconosciuta bontà a esorcizzazione di un presente di molti affanni e pochissime soddisfazioni, di amore sviscerato per la terra “bottega dove trovi tutto”, desiderio di “fortuna” e timore della malasorte e voglia  incessante di ”libertà” sacrosanta e imprescindibile, connaturata a tutti gli esseri viventi.

Tutto ciò e molto altro ancora in 124 pagine, prologo e indice inclusi nella ristampa del luglio 2011 a cura di Scriptorama , caratterizzate da un’attestazione costante di profondo e sentito amore per le cose perdute di un tempo, appena velato dalla malinconica consapevolezza dell’autrice che ciò che è stato non potrà più essere.  Affiancato, tuttavia, da altrettanta coscienza di essere a buon punto del proprio cammino di crescita personale per aver saputo rivalutare odori, colori, sapori, sensazioni di vita vera in un oggi possibile e maggiormente sostenibile con una scelta di vita radicale ma necessaria.

L’autrice 

Lucilla Pavoni è nata a Filottrano (AN) nel 1948. Dopo varie perigrazioni che l’hanno portata anche in Africa, ha oggi finalmente realizzato il sogno di tornare a vivere nella campagna marchigiana, a diretto contatto con la natura e gli animali. “La figlia del sarto” è la sua opera prima.

Le citazioni

In “Le origini”:

“ Ci ho messo tanto a ritrovarmi, confusa da mondi che mi avevano fatto perdere la strada, ma poi ho cominciato a ricordare e a  capire dove poter ritrovare l’essenza della mia Anima”

A proposito del “corredo”:

“ In quella cassapanca di legno c’era tutto, il passato, il presente, il futuro; era un viatico per tutta la vita ”

“Anche un semplice orlo può raccontare tante cose: l’imperizia del ricamo nei primi centimetri del lavoro, la confidenza che si prende man mano che si va avanti, le soste forzate quando non si ha più soldi per il filo da ricamo, gli attimi di esitazione e di inutilità del lavoro quando litighi col fidanzato, la ripresa piena di gioia quando si fa pace, la fretta di vederlo già finito sul letto da
sposa”

In “ Profumo di mosto”:

“ I vecchi sapori sono scomparsi. C’era il sudore in quello che mangiavi e la trepidazione di un’annata incerta; c’era l’incenso delle processioni per chiedere pioggia quando la siccità bruciava tutto, e le litanie a Sant’Antonio quando “lu porcu s’ammalava”

In “La mamma dei bachi”:

“ A volte mi sono sentita così, racchiusa in un bozzolo che sembrava una protezione dal quale non avrei voluto uscire perché era bello e rassicurante rimanere all’interno, ma ogni volta mi tornava in mente Dorina con i suoi occhi verdi così belli, il suo grembiule ordinato, le sue mani delicate e gentili, e mi sono ricordata che tutto questo era sinonimo di morte e allora ho ripudiato tutte le Dorine di questo mondo, rassicuranti, amorevoli ma assassine. Ho fatto un buco nel mio bozzolo e ho scelto la vita”

Presentazione de “La figlia del sarto” a OliS, Associazione Culturale di Montesilvano (PE)
25 novembre 2012

Il gruppo creato dall’autrice su Facebook:

https://www.facebook.com/#!/groups/335294759881980/

“La figlia del sarto” è reperibile qui e nei principali store on-line

Case dell’anima

Nelle mie storie la casa, intesa come concentrato di sensazioni e stati d’animo personali, è sempre una sorta di “ locus amoenus “  a revers caratterizzato dall’affettività dei personaggi che la popolano, spazio ideale in cui poter essere per quello che si è realmente, senza limitazioni di nessun tipo. Soprattutto senza dover fingere ciò che non si è. Nel mio immaginario trovano posto con eguale imparzialità case antiche e moderne; ciò che a me importa realmente è che riflettano il temperamento e il carattere di chi le abita, rappresentando nel contempo luogo d’evasione e rifugio ideale dalle piccole e grandi contrarietà di tutti i giorni.

Nel racconto breve che sto per presentarvi Carla, la protagonista, ha la possibilità di tornare indietro nel tempo grazie a un dono imprevisto: una casa d’epoca ricevuta in eredità. Rinunciando a venderla, come all’inizio progettato, per  tenerla per sé. Scegliendo di guardare con occhi consapevoli a un presente connotato dal gusto forte e deciso di un passato riscattato appieno

 

In dono

Carla aprì con uno scatto deciso il portoncino di quella casa. Ne era diventata proprietaria all’improvviso e con così poco preavviso da non rendersi ancora del tutto conto che sua  zia Rachele le aveva lasciato in eredità quella villetta in stile liberty con un gesto di munificenza dovuto, forse, anche al fatto di essere stata la sua madrina di battesimo.

La comunicazione le era arrivata  con una laconica telefonata della segretaria di un notaio dal nome antico e  altisonante che la informava di essere tra gli eredi della signorina Cataldi, sorella di sua madre, destinata da sempre al nubilato per imprecisate ragioni di famiglia; un personaggio decisamente singolare ed eccentrico nel suo conclamato tradizionalismo. Le loro frequentazioni, intense e doverose dai tempi dell’infanzia erano divenute piuttosto sporadiche, soprattutto negli ultimi tempi.  Fino a trasformarsi in incontri occasionali intitolati alla celebrazione di matrimoni  o funerali.

Probabilmente era per questo che la notizia l’aveva colta del tutto impreparata giungendo, per altro, alla fine di una giornata complessa e piena di situazioni tortuose che l’avevano a lungo tormentata fino a quando la sua mente, probabilmente per sfinimento, non aveva elaborato soluzioni idonee di una semplicità disarmante. Quel tipo di spiraglio che talvolta ti si prospetta quando non sai più a che santo votarti e sei sul punto di cedere le armi.

Dopo lo stupore iniziale aveva brevemente ringraziato la sua interlocutrice, assicurando di richiamarla a breve per approfondire i dettagli di quell’evento di cui al momento non era in grado di cogliere la pregnanza perché troppo stanca per farlo.

L’aveva fatto con diligenza il giorno successivo e dopo circa una settimana, tempo necessario per lo studio notarile per sbrigare le formalità del caso, aveva ricevuto da un anonimo corriere un plico di documenti da firmare accompagnati da un mazzo di chiavi e un biglietto scritto di pugno dal professionista che la pregava di recarsi con sollecitudine sul posto per rendersi conto di persona di ciò che in sorte le era toccato.

Il villino era composto da due piani e sorgeva nel nucleo antico di quel paese di provincia in cui per una vita intera si era sdipanata l’esistenza di quella donna divisa tra la cura dei suoi genitori, i suoi nonni, e quella di una sorella minore di salute cagionevole che l’aveva lasciata prima che lei, Carla, nascesse. E lei, giunta tardivamente in un periodo in cui sua madre si apprestava a far la nonna a tempo pieno più che la mamma, ne aveva ereditato il nome. L’arrivo inatteso di quella bimba, quasi coetanea del suo primo nipotino, era stato accettato con stoicità da tutti, contribuendo a regalare a sua madre nuova linfa vitale e ai suoi parenti un nuovo e durevole argomento di conversazione.

Carla sostò per qualche istante nell’ingresso minuscolo rischiarato da una finestra laterale stretta e lunga, ripercorrendo a memoria quegli ambienti conosciuti a menadito prima di farlo realmente con passo lento e ponderato.

Il pianterreno era strutturato in un salotto,  un cucinino a ridosso di un tinello e una stanza quadrata, la camera del cucito, in cui le sue abitanti erano solite riunirsi per confezionare e ricamare capi di corredo destinati alle giovani donne in odore di nozze della famiglia. Al piano superiore, a cui si accedeva per il tramite di una scala dai gradini di marmo e dalla ringhiera arabescata in volute di ferro, c’erano la stanza da bagno e tre  ampie camere da letto. Lei ricordava ancora l’albero di platano che occhieggiava da una finestra delle tre camere, promettendo verde e ombra a sufficienza nelle calde giornate estive a chiunque avesse deciso di trascorrere ore di relax  nel piccolo giardino a ferro di cavallo che circondava la costruzione.

Il pavimento era quello  di sempre, costituito da mattonelle di cotto che in ogni ambiente si riunivano al centro della stanza per dar vita a ordinate simmetrie geometriche; certamente un po’ logore ma non prive di un certo fascino, quello delle cose senza tempo impregnate di ricordi scanditi dal ticchettio di un orologio da tavolo, da un odore indefinito di pietanze cucinate o di lavanda spigata conservata un po’ dappertutto.

Con una sensazione indefinibile dal sapore fané  ammise con se stessa di non sapere cosa fare di quel dono inaspettato. Certo aveva provato una punta di rimorso nell’attimo in cui, per il tramite di quel gesto generoso, aveva scoperto di essere ancora nei pensieri di quella parente visitata da bimba e adolescente con la sistematicità dovuta a una brava ed educata figlioccia. Non c’erano stati un Natale, una Pasqua, genetliaco o onomastico, in cui avesse mancato all’appuntamento, spesso accompagnata da una delle sue sorelle per richiesta di sua madre,  ben lieta di farsi sostituire, in quelle ricorrenze, da una delle figlie maggiori.

Poi per Carla erano arrivati gli anni giovanili dell’affermazione; dopo l’università era andata a lavorare all’estero conoscendo pezzi di mondo ad ampio spettro, richiamata all’ovile da un fidanzato impaziente di impalmarla da cui si era, dopo alcuni anni di matrimonio, separata. In quella circostanza la sua madrina aveva tuonato, spronandola spesso a riconciliarsi con suo marito, fino a perdere definitivamente ogni speranza quando lei, sempre telefonicamente, le aveva dato notizia dell’ottenimento del divorzio. Si era spesso soffermata sulla foga messa dall’anziana donna nei suoi  persuasivi discorsi; un impeto che mal si contemperava con l’esigua esperienza in materia di uomini da quest’ultima posseduta. Ciò non le aveva però impedito di percepire che, dietro a quei toni accesi ci fosse la genuina preoccupazione  che lei potesse rimanere sola, in balia degli eventi, senza un’adeguata e protettiva spalla maschile su cui poggiarsi. Quella che a suo tempo  a lei  era mancata, condannandola ad un’esistenza dedicata alla cura di anziani familiari bisognosi di assistenza continua e nipoti concepiti come figli putativi da gratificare e da guidare con la tecnica del bastone e della carota.

Richiudendo a fatica una persiana scrostata che aveva conosciuto tempi migliori  si disse che l’esplorazione della sua nuova proprietà era finalmente terminata. La casa aveva bisogno di urgenti e radicali riparazioni; i rubinetti dell’ampio bagno superiore avevano finito col macchiare irreparabilmente  di ruggine lo smalto immacolato del lavabo e della monumentale vasca da bagno con i piedi, suo sogno proibito  di  ragazza romantica.

Tracce grigie di condensa dovute a imposte tenute caparbiamente  serrate negli ultimi tempi segnavano impietosamente il candore  e le tinte pastello dei muri di buona parte delle stanze. Il giardino in cui un tempo, stagione dopo stagione, rifiorivano ciclamini nani  e ciuffi di mughetti, adagiati ai piedi di un paio di alberi secolari, era ridotto a un ammasso di rampicanti prepotentemente in rigoglio e di erba infestante cresciuta con vigore inaudito.

Seduta sul sofà foderato di cretonne fiorato dai toni addolciti dal tempo pensò alla fatica fisica e mentale che avrebbe richiesto ristrutturarla e agli infiniti e svariati accomodi  a cui avrebbe necessariamente dovuto sottoporla. Suo malgrado le era infatti balenata l’idea di poterla tenere per sé. Poteva anche provare a convincere i suoi figli a seguirla, magari solo per qualche volta nei fine settimana; prefigurando una serie di rimpatriate collocate in una dimensione temporale che ora non c’era più e che le sarebbe piaciuto in qualche modo ricreare. L’alternativa sarebbe stata, del resto, affittarla, pur non essendo del tutto certa di riuscirvi in maniera soddisfacente:  accingersi a trovare degli occupanti che se ne innamorassero per quella che era, senza inutili e pretenziose sovrastrutture, non era cosa di facile risoluzione.  Il villino di zia Rachele era austero e solido come la sua originaria padrona di cui aveva conservato i tratti severi, rigorosi. Apprezzato probabilmente soltanto da chi, penetratane l’essenza, fosse riuscito a respirare l’aria che conteneva, forte e inebriante come un sorso di quel rosolio fatto in casa, conservato  nella bottiglia di cristallo dal tappo tondeggiante in credenza e offerto ai pochi ospiti che osavano varcarne  la soglia.

Nella sua progettualità immediata non era riuscita, tuttavia, a pensare di alienarla vendendola al miglior offerente; semplicemente perché la sua mente rifiutava di contemplare una simile opzione. Quella dimora ospitale e silenziosa, fortemente accattivante nella sua apparente severità era il suo personale pezzo d’infinito a cui  nell’arco di quel pomeriggio aveva scoperto di non voler rinunciare per nessuna ragione al mondo.

Con un piccolo sforzo tirò dietro di sé il portoncino d’entrata formulando a mezza bocca quasi con discrezione un arrivederci.

Nella tasca del suo impermeabile le pesanti chiavi tintinnarono con complicità, solidali. Per ricordarle che esistevano ancora infinite possibilità di riscatto, che ci sarebbero state ancora e a lungo.

A cominciare da quel tepore insolito in una giornata di metà novembre e dai colori caldi, amichevoli di quell’autunno senza tempo, sospeso nell’aria, sorprendentemente indulgente.

Lucia Guida

 

 

photo by blueprincess 

Passioni creative

La  mia passione per la cucina nasce un po’ per gioco e un po’ per sfida. Ai tempi dell’adolescenza e di pari passo con altre attività con cui mi piaceva trascorrere buona parte del mio tempo libero e che contemplavano situazioni di natura estremamente variegata: dipingere, disegnare, lavorare con i ferri e con l’uncinetto, scrivere poesie e inventarmi storie su cui confezionare racconti lunghi o romanzi brevi. Nonostante il mio periodare lunghetto, nelle mie storie non sono mai stata troppo prolissa, forse perché il timore di non portarle a compiutezza non mi abbandona mai del tutto.
Nell’intervista che oggi vi posto, realizzata da Federica Gnomo per il sito ITODEI.blogspot.it e poi replicata nel suo blog Gnomosopralerighe, parlo di me come autrice di manicaretti oltre che di testi scrittori. Con un finale a sorpresa, l’indicazione di una ricetta di facile e sicura realizzazione, una torta al cioccolato adatta ai gusti di tutti. Uno dei miei cavalli di battaglia storici. Provare per credere.

IN CUCINA CON LO SCRITTORE: Lucia Guida

Interviste culinarie di Federica Gnomo

Oggi salutiamo e ringraziamo Lucia Guida, autrice della silloge di racconti “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” pubblicata dalla Nulla Die, casa editrice NAP di Piazza Armerina, nel gennaio 2012, per averci aperto la porta della sua cucina.

Succo di Melagrana racconta al femminile attimi di quotidianità spicciola. Le protagoniste dei racconti — caratterizzati da diversità di epoche, età e situazioni personali — sono colte nei fotogrammi del loro percorso esistenziale. Le storie sono collocate cronologicamente in senso crescente dal periodo pre e post bellico sino ai nostri giorni in una provincia microcosmo puntuale, punto di forza e di debolezza, dell’esistenza umana più ampia. Tempo e Spazio diventano pretesti per comunicare un messaggio essenziale, quello dell’infinita capacità rigeneratrice di ogni donna, chiaro invito a cercare orizzonti migliori.

      

La prima domanda di rito è: le piace mangiare bene? E cucinare?

Considero mangiar bene uno dei piaceri della vita e cucinare un’attività creativa e gratificante altrettanto quanto la scrittura. Amo sperimentare nuove ricette pur preferendo andare sul sicuro e ripiegare sui miei “cavalli di battaglia” se ho ospiti a pranzo o cena

 Lo fa per dovere o per piacere?

Dipende. Cucinare può talvolta essere entrambe le cose; diventa un piacere soprattutto se hai a tavola con te qualcuno che apprezzi le tue fatiche culinarie e che te ne dia merito mostrando di gradire con entusiasmo quello che hai preparato per lui

Invita amici o è invitata?

Per me i piaceri si equivalgono; certamente  essere ospitata in casa d’altri ti dà la possibilità di goderti, forse, maggiormente, la circostanza. Invitare, invece, è un po’ più impegnativo, dal punto emotivo oltre che come fatica “fisica” in senso stretto. Quando lo faccio amo coccolare i miei ospiti preparando un’infinità di manicaretti, ad esempio puntando su una serie di antipastini stuzzicanti e di bell’aspetto. In ogni caso le mie sono ricette di facile e veloce realizzazione. Raramente  ho la possibilità di passare molto tempo ai fornelli

Ha mai conquistato amici cucinando?

Un antico adagio recita che per giungere al cuore di un uomo si debba necessariamente passare per la sua gola. Mi sento di condividere quest’affermazione, o forse gli uomini che ho incontrato erano tutti amanti della buona cucina, chissà … Parlando in generale di amicizie, devo dire che in più di una circostanza mi è capitato di sorprenderli piacevolmente: non pensavano che io fossi una cuoca capace. E’ stato gratificante, soprattutto se considera che nell’arte culinaria sono praticamente un’autodidatta: mia madre, bravissima in tantissime cose, non ha mai amato particolarmente cimentarvisi

Vivrebbe con  un compagno che non sa mettere mani ai fornelli?

Per me non costituirebbe affatto un problema. In passato mi è capitato e questa caratteristica non è stata affatto motivo di contrasto. Non ho, però, mai provato cosa significhi vivere con un gourmet che abbia anche una buona dimestichezza in cucina. E’ una cosa che mi incuriosisce parecchio

Quando ha scoperto questa sua passione?

Da bambina nel momento in cui mia nonna materna mi ha insegnato a otto anni a cucinare un’ottima omelette.

Ci racconta il suo primo ricordo legato al cibo?

La sofferenza di non poter mangiare un bacio perugina con gli altri bambini presenti; avevo quattro anni e non riuscivo a capacitarmi come potesse essermi negato un piacere del genere. In realtà ero reduce da una bruttissima intossicazione alimentare e la cioccolata in quel frangente sarebbe stata per me veleno puro

Ha un piatto che ama e uno che detesta?

Non ho mai provato a mangiare la trippa, a mia madre non piaceva e quindi non l’ha mai preparata né io ho mai avvertito il desiderio di provarla. Adoro, invece, le lasagne e in generale i pasticci di pasta e le torte rustiche

Un colore dominante proprio di cibi che la disgustano?

Per me il cibo è anche piacere per la vista. Nei manicaretti che preparo cerco sempre di alternare colori caldi e freddi cercando di stuzzicare la curiosità dei convitati anche attraverso questo.

Quando è in fase creativa ha un rito scaramantico legato al cibo? Prende caffè? O the, una bibita speciale per stare ferma a scrivere?

Dipende da come prosegue la mia attività. Amando scrivere di primo mattino ( quando mi è possibile e quando non sono al lavoro! ) è fondamentale per me iniziare con una buona prima colazione. Se, invece, provo a farlo in altri momenti della giornata trovo piacevole bere succhi di frutta, colorati e rinfrescanti

Scrive mai in cucina?

Mi è capitato più di una volta per “indisponibilità” di uno spazio tutto mio e non mi ha creato particolari  problemi, anzi. La cucina è un luogo circoscritto, certamente meno dispersivo di altri ambienti domestici e forse per questo maggiormente accattivante

Dove ama scrivere? E a che ora le viene più naturale?

Non avendo a disposizione uno studiolo tutto per me mi rifugio in soggiorno, stanza piuttosto lontana dal resto della casa ( abito in un duplex suddiviso in zona giorno  e zona notte ). Potendo scegliere, come già accennato, preferisco farlo a mente più fresca, nelle prime ore del mattino

 Si compra cibo pronto ( tramezzini, pizza, snack) o si cucina anche quando è molto preso dalla scrittura?

Se sono impegnata a risolvere un nodo narrativo un tramezzino veloce da preparare è certamente la scelta migliore per placare l’appetito. Cucinare qualcosa di più elaborato richiederebbe tempo ed energia necessari in quel frangente per altre priorità

Che tipo di cibo desidera di più quando scrive ed è presa dal suo lavoro? Salato o dolce?

Qualcosa di stuzzicante e di salato se sono in un momento di stasi creativa. Un dolce, invece, se sento di aver concluso in modo soddisfacente quello in cui ero impegnata

Ha un aneddoto legato al cibo da raccontarci? O una cosa carina e particolare che le è accaduta?

Da piccola mi piaceva moltissimo la pasta di mandorle, dolcissima e ipercalorica, modellata a forma di frutta di vario tipo. E la cioccolata. Una volta, in assenza di mia madre sono stata capace di terminare un’intera scatola di pocket coffee. Poi ho aspettato che rientrasse dal lavoro e con tranquillità le ho annunciato che di lì a poco sarei morta(sic!): era quanto lei mi aveva paventato, nel caso avessi dato fondo a tutti i suoi cioccolatini

Lei è una scrittrice di narrativa; quando esce a cena con i suoi figli o amici  che tipo di locale preferisce?

Adoro girovagare per agriturismi e trattorie, specialmente fuoriporta. Credo che un posto rustico e caratteristico dia “più sapore”, se così si può dire, al cibo che lì viene servito. Sono comunque e sempre una patita dello slow food

Per festeggiare una pubblicazione cosa tende a ordinare in un locale?

Quando hanno pubblicato i miei lavori ho preferito festeggiare a casa da me mettendomi alla prova con qualcosa che piacesse particolarmente ai miei figli

Ha mai usato il cibo in qualche storia?

A oggi non ho mai incentrato interamente le mie storie sul cibo ma i riferimenti a pietanze e bevande ci sono senz’altro. Le basti pensare al titolo della mia raccolta di racconti, “Succo di melagrana” e al mio romanzo, attualmente in visione dal mio editore, in cui c’è posto per più di un riferimento conviviale.

In “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” ci sono passi che ricordano cibi o profumi di cibo?

I riferimenti a sensazioni gustative e olfattive trovano ampio spazio nel mio stile  narrativo. A me piace “tirar dentro” nella storia il lettore, farlo immedesimare nella vicenda anche attraverso descrizioni particolareggiate che lo facciano sentire “ a casa”. A partire dall’aroma intenso evocato da un tè al bergamotto

 Parliamo ancora di “Succo “: a che ricetta lo legherebbe, e perché?

Se potessi paragonarlo a una portata sceglierei di farlo attraverso un dessert: una mousse, ad esempio. Delicata ma incisiva a completamento di un buon pranzo o di un’ottima cena. Questo perché da golosa quale io sono i miei pasti, specie se in buona compagnia, terminano sempre con un  dolce o un sorbetto

Nelle sue presentazioni offre un buffet? Pensa sia gradevole per gli ascoltatori intervenuti?

Il cibo è un ottimo elemento aggregante e socializzante e mi è capitato di concludere qualche presentazione con un flute di spumante, dei dolci e degli stuzzichini salati. Un modo per ringraziare piacevolmente gli intervenuti chiudendo l’evento in bellezza e in allegria

Per concludere ci potrebbe regalare una sua ricetta? Quella che le riesce meglio?

Una torta al cioccolato, facile da realizzare e plurisperimentata. Uno dei miei successi gastronomici.

La ricetta:

 

Torta al cioccolato
Ingredienti:
-125 gr di burro o margarina;
– 130 gr di zucchero;
– 3 uova intere;
– 130 gr di farina;
– cacao amaro q. b. ( da 25 gr in su, se la gradite bella “carica” );
– 1 bustina di lievito x dolci.

Preparazione
Battete le uova con lo zucchero aggiungendo poco per volta la farina e il burro liquefatto e freddo, il cacao in polvere e il lievito ben setacciato. Infornate a cottura tradizionale (forno elettrico) a 150°/175° per 45′ più 5′ a forno spento.
Se preferite potete tagliarla a metà e farcirla con una cremina al cioccolato preparata così:
– 200 gr di panna da cucina ( quella x i tortellini);
– 100 gr di ciocciolato fondente;
– 100 gr di cioccolato al latte.
Mettete la panna in un recipiente a bagnomaria e aggiungeteci i pezzetti di cioccolato fondente e al latte. Rimestate bene sino a quando il cioccolato non si squaglierà e con la panna diventerà cremoso. Lasciate raffreddare e poi utilizzate i due terzi della crema ottenuta per farcire il dolce di cui sopra che avrete provveduto a tagliare a metà. Utilizzate il terzo di cremina avanzato per spennellare la superficie dell’ intero dolce. Ponete in frigo e lasciate riposare per almeno un’ ora. La crema si solidificherà assumendo l’ aspetto di una copertura. Servite questa torta sempre fredda: rende meglio!

 

Quale complimento le piace di più come cuoca? E come scrittrice?

Sono felice quando i miei ospiti fanno onore al menu da me ideato, dando fondo a tutto ciò che ho preparato: per me è il complimento migliore che mi si possa rivolgere. Come autrice è bello sentirsi dire di essere stata capace di trasmettere emozioni e sensazioni attraverso scene che ben evocano un sentire comune, condiviso

Che frase tratta dalla sua opera o dalla sua esperienza possiamo portarci nel cuore uscendo dalla sua cucina?

Io credo che la poesia che costituisce il prologo della mia raccolta di racconti sia in tal senso illuminante. Parlando di ciò che rappresenta la mia interiorità recita testualmente così:
“ Io sono   (…)

Succo agrodolce

di melagrana

che ti disseta

con discrezione

lasciando traccia

vermiglia

indelebile

sulla tua mano. “

 

Grazie per la sua disponibilità

Grazie a lei, di cuore

Federica Gnomo

il link dell’intervista in versione integrale su Gnomosopralerighe:

http://gnomosopralerighe.blogspot.it/2012/10/in-cucina-con-lo-scrittore-lucia-guida.html?spref=fb