Messages in a Bottle – Messaggi in bottiglia

“ Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. E’ scoppiata tutto d’un colpo. C’erano cocci ovunque,  e tagliavano come lame. “

A. Baricco, “ Oceano Mare ”

Si scrive sempre per una qualche ragione. Per mero “compiacimento del proprio ego” (cit.) o, all’opposto, per comunicare messaggi di varia tipologia, a livelli di partecipazione diversi dettati dalla mission (se è presente! ) dell’autore. Per la valenza terapeutica spesso contenuta nel mettere nero su bianco idee e situazioni ma anche per l’esigenza di condividere con altri stati d’animo, pensieri, riflessioni sulla vita sperando di poter raggiungere lo strato più profondo della sensibilità del lettore. Una sorta di atto estremo di egoismo o di pura generosità, a seconda della prospettiva da cui lo scrittore si pone attingendo dalla propria versatilità.

Per me è soprattutto la possibilità di provare a parlare di uomini e donne cogliendoli nella loro interiorità. Con un’attenzione particolare per una prospettiva au feminin, dovuta, forse, al fatto di trattare con maggior consapevolezza argomenti conosciuti.

Ci sono poi ragioni  inespresse, e cioè motivazioni più o meno consapevoli, che provengono dal vissuto e da tutto ciò che chi scrive ha avuto possibilità di esperienziare nell’immediato e nel tempo. Come ho già sostenuto, non credete mai  a un autore che vi racconti di aver concepito un’opera di pura fantasia. L’autobiografico c’è sempre, volenti o nolenti, costituendo il sostrato da cui partire prima di prendere il volo. Un aggancio realistico indispensabile, a mo’ di trampolino di lancio, per proseguire con scioltezza  e autonomia maggiori nell’intreccio narrativo.

Per il I Concorso Letterario “Donne che fanno testo” bandito dal Messaggero ho deciso di scrivere un racconto breve intitolato “Il mare dalla finestra” in cui le mie riflessioni scrittorie si fondono con idee, voci, immagini attinte dal quotidiano altrui e proprio, partendo dall’incipit proposto dalla giuria. Delinenando un’immagine femminile pronta a spezzare le catene prendendo le distanze da una storia affettivo-sentimentale insoddisfacente per riappropriarsi della sua vita con fragilità e insieme determinazione come spesso può accadere. Con una rinata consapevolezza personale a cui il destino ha deciso di dare una mano.

http://www.donnechefannotesto.it/pdf/Il%20mare%20dalla%20finestra%20.doc%20finale.pdf

“Viaggio in Jugoslavia. Zagabria: giovane donna in costume da bagno seduta su una delle terrazze che costeggiano gli argini del fiume Sava”, F. Patellani

Working in Progress : Editing a Short Story

From Wikipedia:

“ Editing is the process of selecting and preparing written, visual, audible, and film media used to convey information through the processes of correction, condensation, organization, and other modifications performed with an intention of producing a correct, consistent, accurate, and complete work.

The editing process often begins with the author’s idea for the work itself, continuing as a collaboration between the author and the editor as the work is created. As such, editing is a practice that includes creative skills, human relations, and a precise set of methods (…) “

 

L’editing è una delle operazioni più complesse e nel contempo più semplici della pubblicazione di un libro. Una sorta di processo di assimilazione-accomodamento di piagettiana memoria tra  autore ed editor, in cui non ci sono vinti né vincitori ma semplicemente due persone che lavorano a un unico scopo: quello, cioè, di rendere accattivante e funzionale un testo per il pubblico dei lettori. Con competenza ma un briciolo di cuore, almeno secondo la mia personale opinione.

Gli autori, è cosa arcinota, appartengono a una razza estremamente bizzarra: molto spesso ermetici e prigionieri di emozioni, stati d’animo e percorsi di pensiero e altrettanto convinti di fornire sempre chiavi di lettura piane, trasparenti al loro pubblico. Senza curarsi talvolta dei necessari traits d’union.  La loro prospettiva è quella da cui si pone un qualsiasi individuo quando dal chiuso di una stanza prova a rimirare un paesaggio, senza però liberarsi delle vestigia del luogo che lo  accoglie. Del paesaggio riuscirà a percepire tantissimo ma probabilmente non con una visione a tutto tondo offerta, invece, dall’osservazione della stessa veduta dalla sommità di una collina.

Il fatto è che l’autore, specie se esordiente, nutre nei confronti della propria  opera lo stesso atteggiamento amorevolmente protettivo di una madre alle prime armi: vorrebbe che la sua creatura muovesse i primi passi nel mondo circostante pur non essendo sempre pronta ad accettarne gli inevitabili costi emotivi.

Questo perché editare è un atto di umiltà estrema, come farsi passare da capo a piedi da una macchina a raggi X: impietosa, precisa, impersonale, professionale.

Non a caso l’editing è uno dei punti di forza delle migliori case editrici. E qui mi fermo perché di quest’ultimo discorso voglio cogliere solo l’aspetto migliore e non già la propensione, da parte di alcuni editori, a uniformare, a torto o a ragione, le opere da loro pubblicate al loro taglio (sic!) editoriale.

La mia proposta odierna di lettura per voi è l’editing di un mio racconto breve di un paio di anni fa mai pubblicato in cartaceo a cura di Pescepirata.it, un giovanissimo laboratorio di scrittura e forum letterario molto innovativo. Tra le varie proposte ricevute per la mia storia, ho scelto quella di bruno, più vicina alle mie scelte narrative, ma il mio debito di riconoscenza va anche a MasMas che del mio racconto ha fornito una versione “giornalistica” netta e scorrevolissima, e a LICETTI che è riuscita meglio a percepire quello che di evocativo mi sarebbe piaciuto trasmettere al lettore.

 

 

LA BOTTEGA DEGLI OROLOGI *

 di Lucia Guida 

 

Per Valterio il tempo si era fermato nel preciso istante in cui, un mattino di quattro anni prima, aveva aperto i battenti della sua bottega e soffermato lo sguardo incredulo sulle lancette immobili del pendolo francese. Quell’orologio imponente e bifronte, che aveva segnato la giornata di tanti orologiai prima di lui e determinato con rigore la regolazione di mille altri apparecchi, aveva deciso inspiegabilmente di tacere dopo secoli di onorato servizio. Giaceva inanimato tra una corte variegata di orologi a cucù,  su ceramica, con calendario e zodiaco, da tasca, sveglie trillanti e quant’altro serviva agli esseri umani nella loro ricerca di certezze quanto meno temporali.

E dire che  lui aveva sempre provveduto a dare corda al pendolo allo scoccare dei quattordici giorni prescritti, con la premura e il garbo di un giardiniere che si preoccupa  di  potare,  concimare, rinvasare e curare le piante che gli sono state affidate, aspettandosi che queste lo ripaghino delle sue fatiche.

Aveva tentato in mille modi di riportarlo in vita, ma non c’era stato verso. Alla fine, sconfitto,  si era apprestato a terminare la riparazione di un costosissimo cronografo d’epoca Zenith; aveva promesso di restituirlo funzionante in giornata e nell’urgenza del lavoro non si era accorto nemmeno che l’ora di pranzo era passata da un pezzo senza che Irina gli avesse portato da mangiare.

Quando era uscito di casa, come al solito prestissimo, l’aveva lasciata  addormentata sull’enorme letto Chippendale che aveva ereditato dai suoi zii con la casa e tutto il resto. Non aveva avuto cuore di svegliarla da quel sonno così profondo e a pranzo si era arrangiato sbocconcellando una mela.

A sera fatta aveva risposto al saluto del medico condotto, suo committente per lo Zenith, con un sorriso soddisfatto che la diceva lunga sull’esito dell’intervento e poi, serrate le imposte del negozio, aveva lanciato un ultimo sguardo al suo beniamino ridotto a totale inattività ripromettendosi di esaminarlo con cura raddoppiata l’indomani. 

A casa l’aveva accolto un silenzio innaturale, rotto solo dal miagolio nervoso del micio affamato che saltava liberamente da un mobile all’altro del tinello. Nella cucina, pulitissima e in ordine perfetto, niente era cambiato dalla sera prima.

La situazione si era chiarita grazie al biglietto lasciato in bella mostra al centro del tavolo: Irina se n’ era andata, comunicando la sua decisione in quattro parole e senza spiegazione alcuna su un foglio di quaderno.

Valterio si era passato una mano stanca sulla fronte. Andando a ritroso nel tempo aveva esaminato, finalmente con la dovuta attenzione, i tanti campanelli d’ allarme disseminati negli ultimi tempi del loro ménage; segnali a cui non aveva voluto fare caso, deliberatamente e caparbiamente. I lunghi silenzi di lei attribuiti sbrigativamente alla difficoltà di esprimersi in una lingua straniera; gli sguardi senza tenerezza e opachi, la fine delle tante premure che l’avevano conquistato e reso felice nei primi tempi del loro amore,  piccoli rituali scomparsi come neve al sole di marzo. 

Per qualche giorno aveva fluttuato in un’atmosfera irreale; portare a termine la minima azione gli costava un notevole sforzo fisico e mentale.  Ai vicini e ai clienti più affezionati aveva raccontato che sua moglie era dovuta partire all’improvviso per il suo Paese per assistere un familiare gravemente ammalato. Aveva sperato che la pietà e la discrezione prevalessero sulla morbosità e sul gusto del pettegolezzo; era stato accontentato, nessuno aveva messo in discussione pubblicamente quella sorta di recita imbastita alla bell’e meglio. Irina ben presto era stata considerata un’ospite di passaggio nel borgo e la sua permanenza temporanea volenterosamente archiviata.

Soltanto a distanza di più di un anno un suo lontano parente gli aveva riferito di aver intravisto in città una bionda somigliante a lei in maniera stupefacente, aggiungendo però in fretta che no, non poteva essere sua moglie, perché la donna spingeva una carrozzina con un neonato che piangeva a squarciagola. Lui l’aveva lasciato parlare senza alcun commento poi, rimasto solo, aveva ripensato a quei figli cercati lungamente e mai arrivati, frangente da lui accettato con filosofica rassegnazione e celebrato invece da sua moglie con lunghi silenzi e sguardi lucidi di pianto.

Il periodo di lutto era terminato il giorno in cui aveva ripreso in mano il suo ddu botte, l’organetto a due bassi imparato a strimpellare da bambino che era sempre stato di conforto nei momenti meno felici della sua vita. Era successo un pomeriggio di primavera: il ticchettio familiare degli orologi non era riuscito a rinfrancarlo come al solito. Incapace di concentrarsi su quanto aveva tra le mani, si era guardato attorno cercando un salvagente cui potersi aggrappare e l’ aveva finalmente scorto in un angolo del laboratorio, in paziente e muta attesa. L’ aveva afferrato con foga, carezzato con delicatezza i trafori sapientemente intagliati, i tasti candidi perfettamente allineati e il mantice non più libero come una volta di gonfiare il respiro. Aveva scoperto  con dispiacere tra le pieghe di quest’ultimo le minuscole larve dell’insetto che vi si era annidato approfittando dell’abbandono in cui versava lo strumento. Con delicatezza l’aveva ripulito, riportato alla luminosità dei tempi in cui le serenate erano tutte per quella donna dall’incarnato diafano che gli aveva toccato il cuore, quando aveva intonato saltarelli, quadriglie e canzoni popolari della sua terra, con la gioia di riportare un sorriso leggero in quegli occhi azzurri  malati di nostalgia. Era bastato un attimo per riannodare quell’antica storia d’amore; l’organetto aveva ripreso a vibrare sotto le sue dita, riempiendo nuovamente di suoni e colori vividi la stanza per ritemprarlo come un tempo nei momenti di riposo.

La musica e gli orologi erano state da sempre le sue grandi passioni. Era diventato orologiaio per caso e per necessità insieme, per il bisogno intenso di proiettarsi in qualcosa di certo e di tangibile.

I suoi genitori erano rimasti uccisi di ritorno dai campi, in una giornata piena di sole e di lavoro, travolti nel piccolo tre ruote da un camion che aveva perso il controllo in un tornante di montagna. Lui si era salvato perché in ritiro, quel giorno, per la sua prima comunione in un vicino santuario. Aveva appreso la notizia dalla voce tremante della perpetua, alla fine di una domenica di meditazione al profumo d’ incenso in chiesa e poi di giochi all’aria aperta, tra l’odore del grano appena mietuto e il ronzio dei  calabroni. Una giornata speciale che era stata spartiacque tra un passato infantile oramai sfumato e un presente di precoce maturità terribilmente concreto.

L’unico parente stretto, un fratello di suo padre, era a capo di una famiglia numerosa: per lui spazio non ce n’era. L’avevano accolto in casa degli zii in seconda della madre che non avevano figli. Aveva ricevuto comunque la prima comunione, col cuore gonfio per i due perfetti estranei che in chiesa avevano occupato il posto che sarebbe spettato ai genitori.

Quando oramai nessuno più si aspettava che quell’undicenne dagli occhi pieni di ombre potesse provare  interesse per qualcosa, il miracolo si era compiuto. Lo zio, orologiaio, l’aveva invitato più e più volte a recarsi nel suo negozio, ma lui aveva preferito continuare a rifugiarsi nei pressi di quella che un tempo era stata la sua casa, ora passata a un altro massaro, osservando con sguardo impenetrabile la nuova vita che vi si svolgeva, sordo perfino alle lusinghe di due tiri al pallone con i ragazzi del paese; nascosto dietro un cespuglio aveva masticato fili e fili d’erba dal retrogusto amaro, legato a doppio filo a un passato da cui non riusciva a staccarsi. Fino a quando la zia l’ aveva pregato per  l’ennesima volta di portare un certo involto al marito e lui, sfinito da tanta insistenza, le aveva ubbidito per mera educazione, senza una parola o un cenno di assenso.

Tuttavia, una volta giunto a destinazione, si era lasciato ammaliare dal fascino di quei sommessi ticchettii, così diversi l’uno dall’altro. Si era chiesto cosa potesse celarsi dietro la facciata rustica di un orologio a cucù o il ben più sontuoso sportello di un orologio da parete, solo apparentemente mossi dallo stesso scopo. E in questa sorta di rapimento era rimasto sino a quando, all’improvviso, quel coro di leali musici aveva deciso di celebrare l’ora esatta, all’unisono e in mille  variazioni.

Valterio si era riscosso  e con un po’ di vergogna aveva sbirciato il buon uomo, osservando con sollievo come questi fosse talmente intento, monocolo e strumenti alla mano, alla riparazione di un qualche sofisticatissimo meccanismo, da non aver percepito né il cigolio della porta né tanto meno quel tripudio di festosità. Alla  fine lo zio l’aveva salutato, gli aveva chiesto il pranzo ed era tornato in breve alle sue cose, lasciandolo nuovamente libero di esplorare quell’universo tanto accattivante. Da quel momento il ragazzo non si era più rifiutato di eseguire commissioni che avessero come meta finale la bottega e con un filo di voce aveva, tra un recapito e l’ altro, trovato anche il coraggio di chiedere spiegazioni sull’operato dello zio, sino a quando quest’ultimo, dopo diversi mesi, gli aveva proposto di passare parte del pomeriggio da lui, per essere iniziato a quella nobile arte in cui la precisione e l’abilità manuale dovevano per forza sposarsi con una certa sensibilità. 

Valterio poggiò con delicatezza la cassa dell’orologino da donna a cui aveva cambiato la pila, non senza procedere a una pulizia scrupolosa prima di riconsegnarlo alla proprietaria. Gli orologi a funzionamento meccanico continuavano a essere i suoi preferiti, ma era cosa impensabile chiudere la porta alla tecnologia. Ultimamente aveva preso l’abitudine di intervallare i lavori seri e sacrosanti di sempre, per i quali continuava a essere richiestissimo, con lavoretti di poco conto che pure l’aiutavano a sbarcare il lunario.

Chiuso a chiave il cassettino in cui custodiva tutto ciò che, in sospeso, avrebbe terminato nei giorni a venire, aveva abbracciato con gli occhi le pareti della stanza, frementi attraverso le casse di risonanza dei tanti ospiti che vi dimoravano stabilmente. Quella sera sarebbe passato dal bar in piazza per fare due mani di briscola con amici di vecchia data e decise che avrebbe portato con sé il ddu botte. Sapeva che gli avrebbero chiesto di suonarlo.

La vita gli aveva concesso tempo infinito da dedicare ai pensieri e alle riflessioni nella nicchia discreta della sua bottega; ogni istante presente, passato e futuro era prezioso e irrinunciabile.

La mascherina istoriata di un pendolo di legno e metallo gli rimandò il monito conosciuto di  Tempus Fugit  e lui pensò che davvero non era possibile tornare indietro,  ma soltanto guardare avanti. Con quella certezza, in cui erano racchiuse in egual misura residue scintille di speranza e  qualche segreto rimpianto, spense la luce della bottega, con la netta impressione che cento anime trattenessero per lui il respiro. Poi, con il ddu botte a tracolla, prese deciso la stradina che saliva verso il centro del paese pulsante di vita, nella bruma di novembre, accompagnato dal rumore amico dei suoi passi tranquilli e solitari.

 

* Editato gratuitamente dalla community di Pescepirata.it a cura di bruno

” Orologiaio “,  A. Caselli

 

 

Poetando emozioni – Poetizing Emotions

Non sono una poetessa.

Non so nulla di metrica, non l’ho mai studiata. Il mio approccio alla poesia è quello di una brava cuoca che s’ingegna a riprodurre con esercizio di buona volontà le creazioni di un grande chef. Una volta mi è capitato di condividere questa mia estrema consapevolezza con i membri di un gruppo di poesia su Facebook dopo aver postato  a beneficio della loro lettura il mio primo haiku. Immediatamente ho ricevuto due commenti: il primo sottolineava con precisione ingegneristica le caratteristiche dell’haiku ( e come il mio gli somigliasse solo di straforo ! ). Il secondo era un vero e proprio rimprovero: per la commentatrice si è poeti o non lo si è, senza se e senza ma. Magari aveva anche ragione.

Faccio ancora parte del gruppo di cui sopra ma non ho più trovato il coraggio di postare altro: forse perché al di là dei tecnicismi la poesia per me è  sentimento puro,  colore che sfuma in altro colore. Qualcosa di ineffabile che il poeta si ostina a fermare su un pezzo di carta. E l’ineffabile, si sa, non si può ingabbiare.

Le mie proposte per voi sono il famoso haiku e una poesia in versi sciolti scritta in occasione dell’8 marzo un paio di anni fa.

Buona lettura

Luce di Luna

Chiara turba anche

Notte profonda

Photo: “Luce di luna” di P. Kratochvil

Non regalateci mimose

Non regalateci mimose

comperate da fiorai distratti,

vaporosi ed effimeri

pegni di risarcimento

di amori trascurati e delusi:

dureranno una manciata di pensieri

in un giorno isolato

che non ci farà sbocciare

esplodendo di vita piena.

Non riempite il vaso del vostro rimorso

con splendidi fiori recisi di serra;

quel dito d’acqua che li terrà vitali per poche ore

non potrà sostituire

la terra grassa e bruna

di un campo all’ aria aperta.

Offriteci, invece, una pianta d’ulivo;

minuscola

ma con radici ben piantate al suolo

sferzata dal vento

blandita dalla pioggia

accarezzata dal sole.

E’ quello di cui noi donne

più abbiamo bisogno:

bellezza infinita

che traspare da sembianze semplici

e cura costante degli elementi,

l’abbraccio forte, vero

e fragile

di un uomo che è verità, forza

e fragilità.

Questo e questo soltanto

ci necessita

e non già vetro trasparente di serra

mentre fuori imperversa

la bufera.

Lucia Guida

Photo: “Luras, albero di olivo secolare” in SARDEGNA DigitalLibrary

An Excerpt from “Scelta o destino, Antologia di racconti”: Polvere di stelle

Polvere di stelle

Una notte di S. Lorenzo come quella non s’era mai vista. Lo sguardo puntato alla volta celeste rapita da quella scia finissima di stelle cadenti, mi convinsi che i desideri più segreti potessero tramutarsi in realtà. Lo pensai per me stessa e per te, creatura mia, racchiusa nel mio grembo e già così vitale. Sapevo che saresti stata una bimba e volevo per te un avvenire migliore ben diverso dal mio, lontano da un’infanzia finita precocemente ancor prima di sbocciare fatta di  privazioni, di sogni sfumati bruscamente e di continue battaglie per la sopravvivenza spicciola.

A quindici anni avevo accettato di andare a servizio in città sostituendo al verde tenue delle risaie il grigio uniforme di abitazioni scurite dal tempo dai comignoli svettanti verso cieli incerti. Il parroco, cui avevo chiesto aiuto, m’aveva raccomandata a certi conoscenti alla ricerca di una ragazza senza troppi grilli per la testa e capace nel lavoro domestico. Il mio primo viaggio in treno era durato un giorno intero offrendo ai miei occhi avidi i paesaggi veneto, lombardo e piemontese in tutta la loro opulenza autunnale. All’arrivo il padrone di casa, capo contabile in una cartiera, si era appropriato del mio poco bagaglio senza notarne l’inconsistenza. Quella notte sbirciando dalla finestra un cielo dal blu indefinito avevo pianto a lungo. L’indomani all’alba avevo in fretta raggiunto la cuoca in cucina che dopo avermi rifocillata mi aveva mostrato come accendere l’enorme cucina economica lasciando che una nuvola spessa di vapori e odori preludio dei pasti della giornata ci avvolgesse. Fianco a fianco avevamo lavorato in silenzio sino a quando la siora era venuta a salutarci e a impartire ordini. Intimidita l’avevo appena sbirciata mentre lei soppesava il mio volto diafano, le trecce color stoppa, la figurina inconsistente per poi chiedere alla Ada di darmi qualcosa con cui sostituire l’abituccio che portavo, per me il migliore. Ero stata assunta.

Ogni giorno mi levavo zelante per tempo in attesa che in quella casa di paroni ciascuno si dedicasse ai propri impegni; osservando spesso attraverso la vetrata che li separava da me la Mara, impiegata, e suo fratello Filippo, universitario, vivendo di riflesso un’esistenza dorata cui non appartenevo. E tuttavia rassettare le loro stanze non mi pesava affatto. Accarezzarne i mobili ben tenuti mi dava curiosamente la possibilità di riandare col pensiero a quanto avevo lasciato pur senza troppi rimpianti risvegliato dalla cera profumata che ne impregnava il legno lucido e che mi ricordava l’odore d’incenso della messa alla domenica. Diverso dalla costosa essenza di Mara, provata di soppiatto un pomeriggio in cui i Barberis al completo, le donne avvolte in soffici stole di volpe, si erano recati al cinematografo per vedere Amedeo Nazzari. In quel giorno di festa anch’io e la Ada avevamo  goduto di qualche ora di libertà. Con la Isa, a servizio come me, ero stata in estatica contemplazione del Valentino immerso in un’acerba primavera mentre la cuoca aveva preferito visitare alcuni parenti che abitavano in periferia in una delle tante case di ringhiera. Per un po’ avevo ripensato alla solenne processione del Venerdì Santo e alla festosità dei pianini napoletani coi loro ballabili e le canzoni popolari alla Domenica di Pasqua ridondanti per le vie del borgo mentre seduta su una panchina osservavo il passeggio permettendomi il lusso di un gelato comprato da un ambulante e accettando con la mia compagna la corte impacciata di Cesco e Beppe, operai, anche loro come noi in libera uscita a disagio nei vestiti buoni lontano dal frastuono della fabbrica. Cesco, di Noale, veneto come me anche se de mar era a Torino da pochissimo e divideva una camera con Beppe, marchigiano di Ancona. Alla fine ci eravamo salutati tutti con la speranza di rivederci e con un sorriso. La vita aveva ripreso con lentezza il solito corso sino a quando il destino non ci aveva messo lo zampino e al Cesco, cui avevo confidato il mio indirizzo, era venuto in mente di aspettarmi qualche sera dopo sotto casa in attesa che con una scusa scappassi ad incontrarlo. In men che non si dica ero diventata la sua morosa, la nostra promessa suggellata dalla visione di un film di sentimento e passione e da numerosi baci che ci eravamo concessi con ingenua e sincera prodigalità. La mia aria svagata non aveva tuttavia tratto in inganno la Ada, la quale mi aveva una domenica colta in flagrante da lui in atteggiamenti inequivocabili. Con insperata gioia l’avevo udito impegnarsi solennemente a sposarmi e la brava donna, rasserenata, aveva fatto da intermediaria presso i paroni perché ciò in breve tempo si compisse. Ed eccomi lì con una sottile fede d’oro al dito, regalo di nozze dei Barberis che così maldestramente avevano vegliato sulla mia illibatezza nonostante le molte raccomandazioni del don.

In una concisa lettera avevo spiegato le novità ai miei promettendo di visitarli quanto prima, poi mi ero trasferita nelle due stanze procurate con premura dal mio uomo gomito a gomito con altre due famiglie già avviate, l’una di operai, l’altra di anziani ambulanti.

In quella prima sera da sposa mi era sembrato di toccare il cielo con un dito; una casa tutta nostra, la mano confortevole di mio marito poggiata sul mio ventre a cercar di carpire i primi movimenti di nostro figlio. L’affettuosa indiscrezione di nuovi amici, pronti da subito a darmi con semplicità una mano. Un cielo estivo da poter rimirare con libertà in qualsiasi momento ne avessi avuto voglia.

Condividendo con te, figlia mia, attese e speranze future con le tue movenze lievi di farfalla appena sotto il mio cuore quasi a chiedermi perdono per la notte insonne procuratami.

Respirando a fondo avevo chiuso gli occhi su quella luminosità di seta marezzata. Saresti stata Stella, avevo deciso, e il tuo cammino di donna generata per salite spesso difficili da intraprendere sarebbe stato in piano, illuminato dalla benevolenza costante di un astro lontano, il tuo. *

“Polvere di stelle” in A.A.V.V. (2011), Scelta o destino, antologia di racconti, Cooperativa Tipografica degli Operai, Vicenza

 

” De sterrennacht ” by V. Van Gogh

Concorsi letterari: quando essere premiati paga

Girovagando nel web qualche giorno fa mi è capitato di imbattermi in un sondaggio; ai visitatori di un sito di scrittura e lettura veniva chiesto di indicare quanta importanza rivestissero i concorsi letterari nella scrittura. Se, cioè, servissero e in che misura a promuovere gli autori che vi partecipavano.

Ho cominciato a inviare i miei racconti brevi ( brevissimi per qualcuno, ma il mio stile è questo: periodare lunghetto compensato da racconti mini, prendere o lasciare! ) nell’autunno del 2008. Da poco avevo scoperto un sito che mi era apparso formidabile, quello di CLUB.IT: di facile consultazione, gratuito, esaustivo. E con certosina pazienza avevo iniziato a spuntare bandi dopo bandi alla ricerca dell’occasione. Mi ero incamminata per questa strada a caccia di conferme esterne che andassero oltre gli apprezzamenti amichevoli  per i  miei post dei blogger di libero,la piattaforma in cui con buona volontà e voglia di confrontarmi avevo aperto una sorta di pensatoio pubblico. La conferma arrivò con una certa celerità, al secondo tentativo: con la fortuna del principiante ero giunta in finale al  XII Concorso Letterario organizzato dalla Biblioteca Poggio dei Pini di Capoterra (CA). Col senno di poi credo che se ciò non fosse avvenuto avrei con molta probabilità continuato a scribacchiare di vita quotidiana al femminile sul mio Springfreesia.

Non credo di esagerare affermando che quella selezione cambiò il corso dei miei eventi scrittori: fui incentivata a continuare in tal senso e a partecipare ad altri eventi letterari con maggiore e minore fortuna. La cosa bella ed entusiasmante per un’aspirante affabulatrice come me è proprio nel sentire riconosciuta questa tua capacità, vera o presunta. Quella, cioè, di riuscire a trasmettere a  chi legge qualcosa di tuo, che sia impalpabile come sensazioni e stati d’animo o al contrario di sostanza come la descrizione di cose, eventi e persone

Di premi e bandi letterari il Bel Paese è stracolmo. Ce ne sono di accettabili e seri ma anche di leggeri e poco credibili. Tra questi ultimi svariate le manifestazione a premi  caratterizzate dalla velata promessa di ottenere una pubblicazione in grande stile gratuita: a spese zero per l’autore, interamente a carico della casa editrice che si è, per l’occasione, fatta promotrice dell’evento letterario in questione.

Peccato tuttavia che assai spesso alla tua non ammissione in finale segua un’interessante proposta editoriale: certamente a pagamento, certamente onerosa per chi la riceve, trasudante però gloria in fieri. Può capitare che l’autore in questione si senta lusingato da simili profferte e accetti. Intasando il ripostiglio o un paio di scaffali del proprio garage con scatoloni di cartone ricolmi della propria opera solertemente pubblicata, onerosamente pagata e ahimè invenduta, dopo aver provveduto a piazzarne presso amici, parenti e conoscenti qualche copia sporadica.

Difficilissimo orientarsi in questa moderna babele letteraria. Con un po’ di esperienza sul campo personalmente ho imparato a diffidare di quei premi letterari che prevedano onerosi contributi lasciati passare come  tasse di lettura o spese di segreteria (sic!). Ai concorsi proposti dalle case editrici con modalità simili a quelle su esposte in precedenza preferisco, magari, partecipare a un concorso organizzato da una piccola biblioteca di provincia: la locandina sarà forse meno altisonante, ma lo scopo che lo sottende sarà sicuramente più apprezzabile e stimolante se  alla base di quest’iniziativa culturale c’è la diffusione e il consolidamento del gusto per la lettura tra giovani e meno giovani.

I concorsi letterari sono, infine, un piccolo e fedele microcosmo di vita vissuta italiana, pregi e difetti. E può capitare anche di assistere alla premiazione di lavori improbabilissimi infilati dai giurati tra i selezionati all’ultimo momento per simpatia .

Morale della favola: moderazione, come sempre. E ragionevolezza nelle scelte. L’apparenza, si sa, può ingannare con facilità. La consolazione è che comunque tutto ciò che sembra è destinato  per legge di vita a dissolversi al primo soffio di vento a favore della concretezza, che poi fa l’essenza di quelle cose che nella vita  contano di più.

“pratoline” di Julia Hoersch

Maternità – Motherhood

Si nasce o si diventa madri? E ancora: quando si diventa madri: nell’atto del concepimento o forse ancora prima, nell’istante in cui si comincia a pensare progettualmente al bambino che arriverà? Senza buonismi di sorta sono davvero convinta che la maternità sia un dono immenso per una donna; diventarlo consapevolmente credo sia una preziosità unica.

Un pensiero a tutte le donne e mamme qui di passaggio attraverso i pensieri di Lucia, protagonista del mio racconto breve “Una nuova stagione di vita” in un estratto tratto dalla mia silloge Succo di melagrana.

 
(…)

Strinse lievemente il bordo della copertina di lana lavorata a mano che la avvolgeva, avvertendo un involontario brivido che non era soltanto di freddo. Pensare di essere incinta di un uomo che aveva conosciuto nello spazio di pochissimo tempo le dava le vertigini. Eppure era successo, eppure era realtà. E lo sarebbe stato ancora maggiormente col passare del tempo, quando la rotondità del suo ventre avesse deciso di evidenziarsi in tutta la sua esuberanza e piena affermazione della vita che conteneva piuttosto che celarsi con discrezione come adesso sotto l’abito nero da vedova. Passata l’estate, terminato l’autunno, avrebbero in dicembre avuto, lei e i suoi figli, il loro personale Bambinello in carne e ossa, ninnato nella culletta di legno dalla fattura essenziale che suo marito aveva intagliato prima della nascita di Annuccia e che, dopo un paio di anni, era stato nido confortevole anche per Beppe. Ce l’avrebbe fatta. Non era forse vero che quattro bocche si sfamano con la stessa facilità di tre? E che l’arrivo di un figlio, seppure non desiderato, è sempre da preferirsi a una montagna di guai? Almeno era quello che la saggezza popolare suggeriva con pietosa consolazione a tutte quelle donne che, condividendo la sua stessa sorte, si trovavano di fronte a un evento inatteso di tale portata. Ma cosa aggiungere a beneficio di quelle che, in mala tempora come lei, avevano da fare i conti col fatto di non essere legittimate in quest’attesa dall’avere un compagno che le affiancasse, magari partito per la guerra o all’estero come tanti uomini di quel paesello in cerca di fortuna ma pur sempre in odore di rimpatrio, con cui condividere anche socialmente una responsabilità così gravosa? Avrebbe potuto continuare a recarsi nel suo campicello nelle giornate festive o, da brava sarta, cucire ancora per le donne del luogo? E chi l’avrebbe aiutata a tirar su quel pupetto, le volte che lei non avesse avuto possibilità di occuparsene personalmente? Per quanto per natura fosse avvezza ad affrontare uno per volta i problemi che si prospettavano, stavolta quest’antico atteggiamento mentale, in precedenza assai risolutivo, fatto di intuizione femminile e di una buona dose di buonsenso, oltre a una notevole capacità di ottimizzare qualsiasi difficoltà le si parasse davanti, facendola fruttare anche solo in briciole di positività, le sembrava non funzionare a dovere.

Era a un bivio.

A dire il vero l’aveva addirittura superato. Perché con estrema incoscienza o speranza o qualcos’altro che non sapeva ancora ben definire, forse prematuro istinto materno verso quella creatura ancora troppo piccola per segnalare con un battito d’ali o un guizzo la propria infinitesimale presenza, e tuttavia già radicata con forza nella sua vita, aveva deciso di non chiamare la levatrice per farsi aiutare a sbarazzarsene. Di continuare a farla crescere dentro di sé. Di partorirla e di cercare un nome per lui o lei, vestendo quel neonato con coprifasce e vestitini cuciti a mano che erano stati quelli dei suoi ragazzi da piccolissimi e che sarebbero appartenuti anche a quel nuovo fratellino o sorellina figlio di un semisconosciuto soldato americano.

 

Guida Lucia ( 2012), “ Una nuova stagione di vita “ in Succo di melagrana, Piazza Armerina, Nulla Die

“Sweet Lullaby” by Sascalia 

Inspiration Point. Quando l’ispirazione prende il volo Riflessioni personali e semiserie su frammenti di genesi scrittoria

Le belle idee cui dare  forma narrativa ti arrivano quando meno te l’aspetti e se non le afferri prontamente ti abbandonano con altrettanta velocità. Come dire passato il treno, sprecata un’occasione. Per un’aspirante scrittrice part-time come me a volte è difficile anche mettere nero su bianco pensieri e spunti sul moleskine. Una volta mi è capitato di pensare a come sciogliere un nodo narrativo che mi impediva di progredire nella stesura di un racconto mentre guidavo in autostrada con i miei figli alla volta di Roma, in visita a persone care. Impossibile fermarmi su un cavalcavia a strapiombo su un viadotto lunghissimo senza piazzole di sosta. Provare, una volta giunta alla meta, a riprendere le fila del discorso non è stato semplice.  Altro sarebbe stato se avessi avuto a portata di mano il mio pc nel confortevole bozzolo di un luogo familiare e protetto. A parlare semplicisticamente rinunciare a uno spunto ispirativo è un po’ come fare la spesa cercando di tenere a mente quello che devi comprare: non sempre il risultato finale è quello che ti aspettavi. Una volta terminato di stilare la lista della spesa se pure dovesse capitarti di lasciarla  a casa da qualche parte ( come a me immancabilmente accade! ) la tua mente ha comunque messo in moto dei meccanismi cerebrali tali da permetterti, una volta nel supermercato, di ricordarne senza sforzo almeno l’80%. Ben altra cosa se, invece, hai pensato di affidarti completamente alle tue capacità mnemoniche: finirai inesorabilmente per acquistare, se ti va bene, un terzo di ciò che ti occorre, dirottando le tue energie su un’infinità di cose di cui potresti tranquillamente fare a meno.

” Se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé. “ E’ uno degli aforismi pluricitati di Virginia Woolf e mi sento di condividerlo in toto. Perché a mio avviso rispecchia allora come oggi quella che è la situazione di molte di noi. Per me scrivere richiede serenità mentale, una dose generosa di tempo a disposizione, la libertà di gestire quest’attività lontana da affanni contingenti come la preparazione del pranzo, l’accompagno di un figlio in palestra o la relazione commissionata dal capo che hai portato con te a casa per terminarla e consegnarla a lui in tempo. Ma quanti scrittori, aspiranti o veterani del campo, possono vantare di possedere una tale ampiezza di manovra? Pochissimi, certamente i più affermati; quelli che hanno avuto la possibilità di trasformare un passatempo rubato alle incombenze routinarie in un mestiere legittimato e consacrato dal favore dei lettori.

La mia unica consolazione, autentica e realmente sentita, alla comparsa di contrattempi simili a quello su citato, è che uno scrittore-lavoratore possieda, forse, maggiori chance di mantenersi con i piedi per terra. Può tastare con maggiore obiettività il polso della situazione e provare ad affabulare il suo pubblico con maggior verosimiglianza.

A patto, naturalmente, di concepire la scrittura come ciò che io chiamo “riflesso” della realtà più compiuta. Una dimensione in certo qual senso attendibile, arricchita tuttavia dal tuo miglior estro creativo. Una sfumatura di colore sui generis su una stoffa di sostanza, tessuta con un filo apparentemente  sottilissimo ma in realtà di ottima tenuta.

carte, registrati, oggetto, foglio di carta

A proposito di pubblicità

Il booktrailer è uno strumento di ultima generazione per pubblicizzare opere letterarie di genere diverso. In un formato accattivante e maggiormente fruibile qual è quello di un video fatto di immagini e non di sole parole ( come è diversamente in una recensione o nel testo riportato dalla quarta di copertina ) il potenziale lettore può brevi manu farsi un’idea certamente vicina alla realtà del libro propostogli accettando di proseguire nell’esplorazione scaricandolo come ebook oppure recandosi in libreria ad acquistarlo.
In questo post vi presento il booktrailer homemade della mia silloge di racconti “Succo di melagrana” realizzato da mia figlia Roberta su mie indicazioni sperando di incontrare il vostro favore tanto da spingervi a leggerlo in versione integrale

 

Dietro le quinte – On the Backstage

Scrivere e pubblicare un libro non è un atto automatico. Richiede tempo, lavoro, coinvolgimento affettivo-emotivo, impegno tecnico, un pizzico di intraprendenza. E’ un lavoro a tempo pieno che io ho gestito come fosse corollario di un grande teorema: la mia vita di genitore single, il mio lavoro, le mie amicizie, la mia quotidianità più spicciola. Collocare  in questo algoritmo ben architettato preesistente il tempo necessario per condurre quest’impresa in modo decoroso non è stato semplice. Più di una volta mi sono chiesta con consapevolezza e forse un po’ di stanchezza se fosse ancora il caso di continuare per questa strada. Decidendo poi di andare comunque avanti con dignità, entusiasmo rinnovato e molto olio di gomito, cercando di non deludere chi aveva creduto in me regalandomi con generosità stima e apprezzamento.Qui di seguito qualche momento di questo percorso in progress. Ancora tutto da costruire, ancora tutto da equilibrare

 

Image

Il pc per un autore è punto di arrivo e punto di partenza. Il mio è affettuosamente obsoleto ma non riesco a staccarmene; come non riesco a fare a meno del paio di occhiali parcheggiati sulla tastiera: un regalo dei miei figli per il mio compleanno, segno del tempo che trascorre incessantemente.  E che mi ha resa, oggi, nella scrittura allodola e non più  pipistrello

Image

 

Image

Un paio di foto commissionate a professionisti sono il tormentone delle prime volte di ogni autore. Com’era prevedibile mi ci sono imbattuta anch’io scegliendo alla fine di pubblicare foto “vivibili”: più sentite, meno preconfezionate

Image

 

Image

Prove tecniche di trasmissione per l’acquisto su uno store on-line di libri del mio “Succo”. La foto, gentilmente scattata da mio fratello, ne attesta la buona riuscita!

Image

 

Image

Pensare a qualcosa di piccolo ma di importante per il pubblico che è in sala ad assistere a una tua Presentazione: una pergamena con una poesia al femminile, in cui il concetto di Donna non è mero optional

 

Image

Image

I fuoriprogramma. L’affetto di amici e colleghi   per i quali la presentazione del tuo libro non è un momento come un altro

 

Image

Image

Una lettera che è un attestato di stima ma anche una piccola recensione

Image

Image

I sentieri più battuti, si sa, sono fatti di piccoli ma significativi passi.

An Excerpt from ” Succo di melagrana – Storie e racconti di vita quotidiana al femminile “: Bella bella bella

Sara si svegliò di colpo desiderando di poter chiudere gli occhi per riaprirli in un tempo indefinito, lontano da qualsivoglia affanno presente. Ma sapeva che non era possibile; non in quel periodo dell’anno, per lei sempre molto impegnativo, e non di mercoledì, giorno fulcro della sua settimana lavorativa. Il panorama dalla finestra della camera da letto le rimandò la distesa a perdita d’occhio di tetti di varia foggia tipica dell’ assetto urbano di quella piccola città di provincia in cui la sua esistenza scorreva lenta e senza scosse oramai da più di un lustro.Vi si era trasferita per amore, inseguendo un sogno sentimentale sfumato repentinamente dopo pochissimi mesi, lasciando il paese in collina in cui era nata e cresciuta a cui aveva, tuttavia, scrupolosamente continuato a fare ritorno a scadenze fisse, ricorrenza dopo ricorrenza, per visitare con diligente senso del dovere la propria famiglia. Decidendo di stabilirvisi definitivamente a sprezzo di quella storia andata male, nell’ incapacità di salpare per altri lidi più lontani, grata alla piccola nicchia fatta di quotidianità rassicurante che lì era riuscita a ricavarsi: un lavoro accettabile, una cerchia di amici-conoscenti con cui trascorrere i fine settimana e i momenti di relax che le erano concessi, una casetta sufficientemente comoda cui far ritorno dopo l’ufficio. Sara aveva appena oltrepassato i quaranta ma sembrava che la cosa la toccasse marginalmente; era quello che ripeteva spesso con un sorrisetto a chi, ammirato, davvero non glieli attribuiva. Pur avvertendo ultimamente, suo malgrado e con un brivido interno, un profondo senso di inadeguatezza, quasi di fastidio alla comparsa dei primi segni del tempo. La sua silhouette aveva nel complesso conservato la fisionomia di adolescente alta e longilinea di una volta grazie anche alla cura ossessiva e sistematica dedicatagli nello spasmodico sforzo verso una perfezione formale sempre troppo lontana da raggiungere che la impegnava di continuo senza concederle tregua.La sua vita era stata costellata di incessanti tappe obbligate da coprire nella recherche infinita in cui si era lanciata iniziando con la frequenza sistematica di palestre e centri di bellezza perché altri potessero guidarla nel delineare il suo corpo a immagine e somiglianza di un ideale femminile dai contorni ben definiti stampati prima nella sua mente di bimba e poi in quella di adolescente.A poco più di vent’anni aveva deciso di cambiare colore dei capelli scegliendo una nuance di biondo che sentiva maggiormente propria e più in armonia con i suoi occhi verdi. Aveva, quindi, coscienziosamente proseguito imparando trucchi ed artifici del maquillage e una volta appropriatasi della materia non se n’ era più separata, truccando il suo viso impeccabilmente 24 ore su 24, incapace di farne a meno, per sua stessa ammissione, tanto in situazioni di banalissima routine, come ad esempio un acquisto veloce nel supermercato all’angolo della strada, quanto in occasioni specialissime e intime in cui era prevista anche la compagnia maschile. A trent’anni aveva stabilito di migliorare il suo sorriso affidandosi alle cure di un famoso ortodontista ottenendone una dentatura perfetta e smagliante. Possedeva un metabolismo da ragazzina ma badava a non eccedere mai nel cibo. Scherzando era solita raccontare a tutti di nutrirsi di schifezze, attribuendo a ciò i disordini alimentari cui era spesso soggetta. Pur vantandosi di possedere un robusto appetito, in riunioni conviviali era solita spilluzzicare come un uccellino, lamentando una subitanea sensazione di pienezza a giustificazione di pietanze appena assaggiate. Nella scelta dell’ abbigliamento amava destare sensazione e suscitare ammirazione; anche in quest’ ambito nulla nei suoi atteggiamenti e nel suo modo di presentarsi era lasciato al caso, risultando al contrario frutto di un’accurata pianificazione finalizzata a mettere in risalto il meglio di sé. I suoi progetti di vita erano piuttosto circoscritti e subordinati a questo amore sviscerato per l’immagine di donna gelosamente e esasperatamente coltivata nel suo intimo, il cui mantenimento richiedeva uno sforzo continuo e al tempo stesso terribile, reso mastodontico dal fluire inesorabile del tempo e dalla frequenza maggiore con cui cominciavano a emergere piccole falle e impercettibili crepe bisognose ora più che mai di essere appianate con ogni mezzo a disposizione. Un po’ come per un giardino certosinamente curato e abbellito da un giardiniere in costante tensione nel mantenere ordine e rigore a fronte di una natura dispettosa e ribelle, sempre pronta a riaffermare il proprio pieno diritto a esistere e a sovrastare, divertendosi a infestare di erbe spontanee aiuole graziosamente acconciate e ben delineate. Per qualche istante osservò compiaciuta e con occhio da intenditrice le sue natiche ancora ben conformate, ripromettendosi di indossare presto la brasiliana consigliatale dalla commessa del suo negozio di intimo preferito. Un attimo, però, di brevissima durata, spazzato via da un’ impercettibile smorfia della bocca, perfetta e ammodo anche quella. Il suo cruccio più recente era al momento il seno, giudicato troppo piccolo e, forse, in procinto di mostrare segni di cedimento. Sara lo osservò con cipiglio riflessa nel lungo specchio basculante che occupava un angolo della sua camera e a cui affidava di solito la supervisione d’ensemble di se stessa appena abbigliata. Non era affatto rispondente ai suoi canoni estetici, necessitava al più presto di essere rimodellato da un bravo chirurgo estetico. Avrebbe come al solito provveduto al meglio e con sollecitudine.Questo pensiero le dette subitaneamente un senso di sollievo. Offrire di se stessa un’ immagine più che gradevole era lo scopo della sua vita, l’ unico aspetto che sentiva assolutamente di poter fronteggiare con una certa sicurezza, plasmandolo secondo quanto la facesse star meglio.

Peccato, tuttavia, che quel controllo sistematico e intransigente non potesse essere esteso ad altri ambiti. La sua vita affettiva, per esempio, vissuta con insoddisfazione perenne e costellata indelebilmente da esperienze dolorose che preferiva non ricordare. Lì veniva fuori tutta la sua insicurezza di bambina incompresa e trascurata da una madre troppo frettolosa e da un padre cronicamente assente. Si innamorava sempre di uomini che la conducevano alla sofferenza. Uomini a cui immolava tutta se stessa, a cui si dedicava anima e corpo. Uomini rincorsi disperatamente a cui chiedere di continuo conferme. Uomini che puntualmente scappavano lontano da lei a dispetto della sua disponibilità estrema e incondizionata. Compagni per cui aveva recitato con discrezione all’inizio, con disperazione alla fine, un ruolo femminile di autentica, totale dedizione. Che finivano con lo scegliere donne dall’aspetto, a suo avviso, quanto meno improbabile e discutibile. Donne comuni, ordinarie, incredibilmente poco avvezze alla cura di se stesse. Figure femminili della porta accanto, da mercatino rionale più che da bottega per gourmet. Che tristezza, lei pensava, e che profonda ingiustizia nei confronti del santuario pluridecennale da lei eretto a imperitura adorazione di una bellezza narcisistica idealmente e affannosamente ricercata e inseguita per tutti quegli anni.

Immersa in queste riflessioni non piacevolissime si riscosse e, dopo l’ ultimo sguardo alla sua immagine riflessa, raccattò pochette e foulard finalmente pronta per la sua giornata di lavoro. Decentemente a posto. Chiuse con cura l’uscio affrettandosi per le scale; l’ultima sbirciata l’avrebbe data all’enorme specchio posizionato nell’ androne del sobrio ed elegante condominio in cui viveva a mo’ di ulteriore e finale conferma per sentirsi a tono , perfetta come sempre, elemento costante in un algoritmo temporale fatto di settimane e giorni tutti uguali e in fila, l’ uno dopo l’ altro. Questo era ciò che lei si augurava di cuore: resistere stoicamente al fluire incessante e frenetico dell’ esistenza secondo un ritmo uniforme privo di variazioni in tema percepito tuttavia come rasserenante e indispensabile alla propria sopravvivenza fisica e mentale.

L’ improvvisa pioggerella fina la colse per strada di sorpresa costringendola a tirarsi sul viso il cappuccio dell’impermeabile e ad affrettarsi con tono sbarazzino sui tacchi alti verso un taxi fortunatamente posteggiato a breve distanza. Spiando velocemente nel minuscolo specchietto ditartaruga sempre a portata di mano fece per constatare danni inesistenti cui porre eventuale rimedio, concludendo che, davvero!, la vita era una battaglia continua. Poi si appoggiò al sedile ceduto al peso dei tanti clienti di passaggio e la sua attenzione fu tutta per quella variegata umanità celata sotto decine di ombrelli disseminata per le vie del centro. Una moltitudine irresistibile ma troppo lontana, sfumata dal suo respiro simile a quello di una bambina cresciuta troppo in fretta, appannato sulla trasparenza del vetro di un’ auto pubblica in corsa nel grigiore argentato di una giornata di pioggia. *

*  “Bella bella bella”  in Guida, L. (2012) Succo di melagrana – Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die