Terminare in bellezza – piccoli traguardi di fine 2014

Novembre ha continuato a regalarmi piccole soddisfazioni, spianando la strada a un bel dicembre frizzante e beneaugurante.

La mia poesia “Ode alla Primavera”, ( se avete voglia di rileggerla la trovare in un post di qualche tempo fa ), è stata selezionata per far parte di un’antologia di autori vari, pubblicata da V edizioni, fatta di alcuni dei partecipanti al Premio Zucchi 2014, concorso bandito dall’associazione emiliana “Succede solo a Bologna”. La cosa più bella è che i proventi derivanti dalle vendite verranno devoluti alla sezione AIL bolognese.

zucchi

Ho, poi, tenuto a battesimo un libro da me già recensito, “Il bosco senza tempo”, dello scrittore aquilano Stefano Carnicelli che lo ha presentato presso la Cooperativa “Il Bosso” di Bussi sul Tirino (Pe) venerdì 21 novembre 2014 assieme alla voce narrante di Adriano Sabatini.

Non so voi, ma ogni volta che parlo di un romanzo al grande pubblico mi sembra quasi parlare di una mia creatura: stessa emozione, stessa sensazione “protettiva”, stessa voglia di vederlo volare sempre più in alto.

foto bussi

In foto Lucia, Stefano Carnicelli, Adriano Sabatini e Luciano Alberici

A dicembre, e precisamente sabato 13 dicembre, ci sarà anche il mio piccolo contributo all’evento giornalistico, fotografico e letterario Intorno alle parole – Officina ( e sinonimi ) dei fatti attorno alle parole, organizzato dall’Associazione Il cassetto delle Idee. Si parlerà di editoria, mercato editoriale, scrittura, premi letterari e di arte in senso ampio attraverso installazioni pittoriche e fotografiche, con degustazione finale di “Show Food” al BR1 Cultural Space di Montesilvano Colle (PE). Trovo che sia una bella coincidenza far parte di questa interessante iniziativa nel giorno del mio nome. E’ la seconda volta che mi capita una cosa del genere: l’anno passato, sempre il 13 dicembre presentavo “Pergolato” all’Emporio Primo Vere, Bottega del Commercio Equo e Solidale di Pescara, egregiamente supportata dalla scrittrice Rita Pelusi.
Naturalmente se ne avete piacere siete tutti invitati a intervenire. Inizio ore 16.45, ingresso libero

Locandina intorno alle parole

Nella calza di Babbo Natale o della Befana ci sono, infine, almeno un paio di altre cosette di cui mi riservo di parlarvi quanto prima

Nel frattempo vi abbraccio forte tutti

A presto con nuove letture e nuove parole

Lucia

Appuntidiviaggio

E’ un autunno iniziato con morbidezza, portando in dono giornate insolitamente miti, quasi a scusarsi della pioggia e del cattivo tempo che inevitabilmente sarebbero arrivati con la stessa prevedibilità dei momenti a volte belli a volte meno, che costellano la nostra esistenza. A me la nuova stagione ha portato una bella soddisfazione scrittoria, il secondo posto al Premio Lupo, premio nazionale pugliese, piccolo ma ben consolidato, di grande qualità  e rigorosità attraverso il mio racconto inedito “In un campo d’orzo e di papaveri” da voi già letto nel precedente post e premiato domenica 19 ottobre 2014 a Roseto Valfortore (FG).

premio lupo

Pergamena d’onore con la motivazione della giuria

Una Firenze meravigliosa dal fascino riservato mi ha accolta per conferirmi il premio speciale della giuria per la sezione B, scrittura al femminile, del III Concorso Nazionale “Città di parole” organizzato da “La Città di Murex, Laboratorio Arte e Scrittura di Firenze” grazie a “Un mercoledì perfetto”, racconto edito nel 2012 e parte di una raccolta di racconti “Il cuore delle donne”, a voi già presentato anche attraverso le pagine di questo blog.

Condividere con voi le cose che scrivo per me è un piacere; a me piace la scrittura schietta, pulita, trasparente. Quella che si mostra senza tema di alcun genere, con la voglia e l’entusiasmo di incontrare la sensibilità di un lettore attento, poco avvezzo a rimanere in superficie e mai alla ricerca di facili emozioni.

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in foto Lucia con lo scrittore  Piero Malagoli in un momento della Premiazione di “Città di Parole”

Un Novembre ballerino fatto di pioggia e nebbia ma anche di sorprendenti giornate di sole ha fatto da cornice alla mia partecipazione di autrice L.O.C. ( Letterature di Origine Controllata ) giovedì 6 novembre 2014  alla dodicesima edizione del FLA 2014, Festival delle Letterature dell’Adriatico, con la presentazione del mio “Pergolato”, La casa dal pergolato di glicine, introdotto con sapiente sensibilità da Arianna Di Tomasso, ideatrice e organizzatrice di Settimo Senso, Festival del Cinema e dell’Aurum, eccellenza culturale abruzzese che l’anno prossimo debutterà all’Expo  Milano 2015.

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guerino

Nella foto in alto i miei ferri del mestiere del FLA: programma, pass autori e “Pergolato” alla mano; in basso Lucia e Arianna parlano della storia di Marina Federici sedute sulla pedana della Sala Arancio del Circolo Aternino di Pescara, foto di Guerino Di Francesco

A questo punto vorrete sapere cosa farò da grande. La risposta è che al momento non lo so.

Mi piacerebbe continuare a scrivere, intessendo trame forti e robuste su canovacci grezzi per poi provare a ingentilirli con ricami incisivi ma  delicati. Staremo a vedere. A ogni modo sappiate che mi è piaciuto condividere con voi, oggi, questi pensieri sparsi, piccoli appunti di viaggio. Piccole e grandi conferme ricevute che mi hanno fatta riflettere in silenzio sul senso di molte cose, scrittorie e non.

Un abbraccio e un grazie di cuore per avermi seguita sino ad ora con pazienza.  Ce ne vuole tantissima con gli autori emergenti come me, patiti dello slow writing: di quella scrittura portata avanti pian piano, senza fretta, ponderata, che, tuttavia, non tradisce mai.

A presto

Lucia

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In un campo d’orzo e di papaveri

Guardare una fotografia e provare a leggerla ricamandoci sopra un racconto breve. E’ quello che ho cercato di fare un anno fa quando ho pensato a “In un campo d’orzo e di papaveri”, premiato domenica 19 ottobre 2014 a Roseto Valfortore (FG), come racconto vincitore del II posto della VII edizione del “Premio Lupo”, sezione letteraria, promosso dal comune di Roseto Valfortore, sostenuto da buona parte dei comuni del comprensorio del Subappennino Dauno,  con il partenariato dell’Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Spettacolo della Regione Puglia e il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Foggia.

Il sogno di Lauretta è quello di riuscire a intrecciare una coroncina di papaveri senza rovinarne la delicata sericità. La bimba riuscirà nel suo intento, e il braccialetto di fiori da lei creato con amore e altrettanta delicatezza diventerà per sua zia Maria Luisa, alla ricerca di una vita personale maggiormente soddisfacente, a cui il dono è riservato, metafora e simbolo beneaugurante di un futuro migliore.
Cornice del racconto la terra forte e dura di Puglia, ricca e capace di inaspettati atti di generosità.

Buona lettura

 

 

In un campo d’orzo e di papaveri 

La bambina si guardò attorno circospetta, temendo che qualcuno potesse rimproverarla per la sua sparizione ingiustificata; poi sospirò silenziosamente, rinfrancata da ciò che le compariva davanti. Attorno a lei c’era soltanto la distesa sconfinata di quel campo d’orzo inselvatichito, vivificato dal tripudio di papaveri e fiori selvatici che erano riusciti a sopraffarne la rassegnata uniformità. Ricacciando indietro le ciocche ribelli sfuggite alle treccine castane, si chinò a raccogliere quanti più fiori rossi poteva, noncurante dei cardi e dell’ortica che le insidiavano le gambette nude, a malapena protette dal vestitino di cotonella sottile.

I papaveri erano i fiori che preferiva in assoluto: belli, slanciati, setosi. Peccato che durassero il tempo di un respiro. Decise, tuttavia, di portarli a casa con sé per provare a intrecciarli in una coroncina come aveva visto fare a Natalina, la sua compagna di banco, con una manciata di pratoline. Quando le aveva detto della sua idea l’altra l’aveva guardata con un’ombra di compatimento.

– Non si può – aveva, poi, replicato con fare saccente.

– Perché no? – aveva insistito lei, suo malgrado dispiaciuta dal tono altezzoso dell’altra.

Natalina l’aveva squadrata con sufficienza se possibile ancora maggiore.

– I papaveri sono troppo delicati e muoiono presto – aveva sentenziato seccamente. Abbandonandola di scatto per raggiungere un gruppo di altre bambine che, in cerchio e tenendosi per mano, avevano preso da poco a intonare “La solitudine si deve fuggire”.

Lauretta era rimasta seduta su una panchina del cortile della scuola, all’ombra traforata di un albero di acacia, riflettendo a lungo su quanto l’amica le aveva svelato, le gambette penzoloni altalenanti e il capo chino. Per quella mattina non c’era stato gioco che l’avesse tentata abbastanza da farle lasciare la posizione rinunciataria in cui si era caparbiamente trincerata.

Il gracchiare lontano di una cornacchia la fece tornare al presente di quell’afosa giornata di principio d’estate. Guardando i papaveri raccolti decise che potevano bastare e si buttò a peso morto tra l’erba alta del campo semiabbandonato insensibile ai minuscoli abitanti che ne popolavano le nutrite retrovie. Sopra di lei il cielo, al mattino di un azzurro intenso, aveva preso un colore celestino indefinito, certamente dovuto al gran caldo. Con ponderatezza si scelse una nuvola dai contorni insoliti a cui aggrapparsi per poter fantasticare in libertà.

– Lauretta!

Il grido femminile, lontano ma non abbastanza da non essere da lei percepito con chiarezza, spezzò quell’incantesimo breve. Sollevandosi appena sui gomiti la bambina intravvide una donna vestita completamente di nero, dal fazzoletto che portava in testa al gonnone informe che ne avvolgeva la figura appesantita dallo scorrere impietoso del tempo e dalle tante fatiche domestiche. Sua madre, mani ai fianchi, la stava cercando, e non sembrava per niente contenta di non riuscire a scorgerla da nessuna parte. Riflettendo febbrilmente sul da farsi, Lauretta traccheggiò tra l’idea di riemergere dal microcosmo brulicante in cui si era crogiolata con indolenza sino a pochi istanti prima e quella di aspettare che la donna rientrasse nell’austera casa colonica oltre il campo, piombandole d’improvviso e come per incanto davanti con la cesta di vimini ricolma di uova e l’aria vaga che assumeva quando voleva dare a intendere agli altri di essere qualcuno che non era.

La cesta di vimini, oggetto delle richieste materne, era a pochi passi da lei, invasa da una colonia di formiche operaie ma il suo contenuto le pareva ancora indenne e tanto le bastava. Ricadendo all’indietro tra le sterpaglie Lauretta decise di indugiare per un altro po’, cercando di resistere stoicamente all’intraprendenza di un grillo che aveva preso a passeggiarle sul braccio e non voleva saperne di andar via.

Maria si guardò attorno, tentando di mitigare la luce abbacinante del sole proteggendosi gli occhi con una mano. Di quella figlia pestifera non c’era traccia. Le sembrò di scorgere qualcosa a ridosso del vecchio spaventapasseri ma poi decise che era solo un cardellino alla ricerca di qualche seme da becchettare e lasciò perdere.

A casa avrebbero fatto i conti non appena Lauretta si fosse degnata di farvi ritorno. Si sentì quasi male al ricordo di tutto il daffare in sospeso per la promessa di sua sorella. Mancavano due giorni all’evento e ogni cosa, come al solito, era lì a gravare sulle sue spalle.

Arrancando sulle zolle di terra arida si avviò verso l’aia, a quell’ora deserta, detergendosi le stille di sudore che avevano preso a colarle abbondanti sul volto per il calore solare attirato da tutto quel nero che la ammantava a celebrazione doverosa dell’ultimo lutto familiare.

Lauretta sbirciò con un velo di colpa sua madre attraverso un ciuffo di gramigna e fece per alzarsi ma qualcosa la convinse a non mostrarsi ancora. In quel pezzo di terra incolta non era la sola ad essersi nascosta agli occhi di Maria.

Vattenne, vai via da me, – era il grido accorato e sommesso di una donna giovane, sua zia Maria Luisa, vestita come l’altra di nero, i capelli acconciati in una crocchia castana sulla nuca appena un po’ disfatta, come alla fine di una lunga giornata laboriosa.

Lauretta non capiva con chi ce l’avesse, fino a quando un uomo dai capelli chiari e dalle braccia muscolose da gran lavoratore non le si affiancò velocemente. Era Vincenzo, un bracciante del paese.

– No che non me ne vado, o vuò capì? – l’apostrofò con rudezza, prendendola per le braccia e costringendola a guardarlo negli occhi – Tu, quello, non lo devi sposare!

Maria Luisa lo fissò con aria dolente e non ebbe il coraggio di replicare nulla. I suoi occhi parlavano benissimo da sé. A un certo punto, però, decise di scrollarsi di dosso quella sorta di trance in cui era caduta e, sia pure a malavoglia, si divincolò dalla presa dell’altro e dal suo abbraccio possente, riuscendo a scappar via verso la masseria. Il gigante biondo si lasciò allora cadere come privo di forza contro il tronco nodoso della quercia secolare che li aveva accolti entrambi sotto la sua provvidenziale ombra.

Lauretta restò acquattata tra le erbe a poca distanza da lui, sperando che l’altro sparisse presto; valutando, intanto, con tutta la consapevolezza infantile di cui era capace, quanto la sua punizione sarebbe stata proporzionale al ritardo accumulato.

Con un guizzo repentino l’uomo si sollevò in piedi facendole mancare un battito, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa (forse un ripensamento retrospettivo dell’amata?) che non riuscì a scorgere da nessuna parte. Allora, con un gran sospiro, si rassettò alla bell’e meglio l‘abito da lavoro che indossava, andando via a spalle curve in direzione dell’abitato, dopo aver ripescato, ben mimetizzata dietro un rovo di more al limitare della carreggiata, una bicicletta vetusta.

Fu soltanto allora che Lauretta, dando fondo a tutto il fiato che aveva in corpo, corse verso casa, i papaveri raccolti celati nel cestino assieme al suo prezioso contenuto.

– Dov’eri finita?

La mamma era palesemente di malumore in quella cucina di campagna piena di odori di cibo; aiutata dalla nonna, stava sgranando piselli in una coppa di ceramica sbreccata, mentre le zie Annarella e Maria Luisa provvedevano a lavorare su una spianata di legno un’enorme quantità di massa per il pane.

Lauretta decise di non rispondere. Qualsiasi cosa avesse deciso di dire sarebbe stata contrastata dalla sua interlocutrice, quindi si affiancò alla nonna ben decisa a darle una mano, le manine magre tradite da inconfondibili striature rossastre che fecero corrugare lo sguardo all’anziana ma non produssero fortunatamente altro effetto.

– Ci voglio fare una coroncina per la festa di domenica – le confidò a bassa voce in uno sprazzo di sincerità. La nonna scosse il capo con disapprovazione.

– A lutto, stiamo. Il rosso non va bene

La bambina non ne era pienamente convinta.

– Nemmeno per una coroncina o un braccialetto in un giorno di festa? –  chiese mortificata.

Nonna Fonzina questa volta la guardò con reale durezza e con un tono appena al di sopra di quello usato solitamente le replicò stizzita

– Il rosso è il colore del demonio – Chiudendo, per il momento, la questione.

Preparare una festa di fidanzamento non era cosa semplice per gente di campagna come loro. E tuttavia il gioco valeva la candela perché Maria Luisa si sarebbe imparentata con una famiglia benestante come quella del Contini, macellai da tre generazioni. Il matrimonio, combinato per il tramite di Don Marcuccio, sensale, era da subito apparso come una manna dal cielo per tutti loro. Antonio Contini non era propriamente un pezzo di marcantonio. Di aspetto assai modesto, di contrasto con il lavoro intrapreso in paese dalla sua famiglia, dava l’idea di volare via col primo colpo di vento; ed era certo che più di una delle sue profferte matrimoniali fosse stata rifiutata da altrettante ragazzotte del posto, che avevano visto la prospettiva di accasarsi con lui come il fumo negli occhi. Maria, invece, l’aveva da subito considerata una prospettiva unica e invidiabile per elevare il tenore della propria famiglia per il tramite dell’avvenenza e della gioventù della sorella minore. Dandosi da fare, con ogni mezzo, per condurre quest’ultima per la propria strada.

– Ma io non gli voglio bene …, – aveva protestato accorata la ragazza

– L’amore verrà dopo, – le aveva replicato prontamente lei. L’amore, quello fatto di sentimenti e slanci d’animo, era cosa da canzonette e non per faticatori come loro.

– Pare un morto vivente, davvero. Nessuna l’ha voluto, perché dovrei pigliarmelo proprio io? – aveva continuato l’altra senza demordere, nel disperato tentativo di scampare a quella condanna all’ergastolo

Maria l’aveva guardata cupamente

Maria Luì, lo vuoi capire o no che senza dote o corredo non ti si marita nessuno? Resterai zitella o sposerai un morto di fame ccume annuie!

L’altra aveva spavaldamente alzato la testa.

– E che m’importa? Vado a servizio in città …

– E allora vacci subito, intesi? Sei una svergognata ingrata … – aveva inveito sua sorella e una vena le si era d’improvviso gonfiata al collo, facendo presagire il peggio.

Quella sera era finita davvero male, Lauretta lo ricordava ancora, con sua zia che, in lacrime, era scappata di notte nei campi e non se n’era saputo più nulla fino al mattino dopo, quando suo padre, con infinita pazienza, aveva ripescato sua cognata in un casolare abbandonato riportandola a casa.

A riequilibrare definitivamente le sorti ci aveva pensato il destino con tragica tempestività.

Zio Michelino era caduto in un pozzo perdendo la vita nel tentativo di appurare se poteva ancora fornire acqua e la carenza di quel paio di braccia maschili oramai irrimediabilmente perse si era subito palesata attraverso una montagna di spese e debiti accumulati con sconcertante facilità a cui i Contini, per intercessione di don Marcuccio, si erano offerti con premura di far fronte in men che non si dica.

Maria si era chiusa in camera con Maria Luisa nel tentativo di farla ragionare mentre il resto della famiglia sedeva attorno al tavolo rettangolare senza avvertire più appetito, incapace di consumare anche un solo boccone dell’opulento pasto di riconsolo, offerto, come tradizione, da amici e parenti per la perdita del pover’uomo.

Nonna Fonzina, zia Annarella, suo padre, lei e suo fratello Lino avevano assistito in silenzio, seduti a cena, alla disperazione della loro zia più giovane, fino a quando suo padre, infastidito o forse imbarazzato da tutto quel clamore in una sera che avrebbe dovuto essere di raccoglimento per l’intera famiglia, era uscito di casa nella notte a fumare una Nazionale dall’odore pessimo. Avuto il permesso di alzarsi da tavola per riordinare e conservare gli avanzi di quella cena sfortunata i restanti convitati avevano seguito il suo esempio senza proferire parola. In barba alle occhiatacce della nonna, Lauretta aveva poggiato un orecchio sulla porta della camera da letto dei suoi per cercare di carpire l’epilogo di quella sceneggiata familiare ma non c’era riuscita. A un certo punto, però, la zia ne era uscita di botto, gli occhi arrossati per il lungo pianto, precipitandosi fuori verso la tettoia dove d’inverno conservavano i ciocchi di legno per il camino, e lei l’aveva istintivamente seguita. L’aria di quella serata di fine maggio era ferma e carezzevole. Lauretta le si era avvicinata con un po’ di timore temendo di essere scacciata, ma la zia le aveva sorriso tra le lacrime e l’aveva stretta a sé quasi a confortare se stessa attraverso il calore autentico e generoso di quel corpicino infantile visibilmente in pena per lei.

Scrutando l’oscurità erano rimaste abbracciate a lungo, sedute su ciò che rimaneva di un tronco di ulivo, sradicato qualche settimana prima dalla buonanima di Michele perché quasi del tutto secco. Quando la luna aveva fatto capolino tra il fogliame dei pochi alberi a confine della costruzione, la zia l’aveva presa in braccio e l’aveva riportata dormiente in casa adagiandola sul lettino nella sua stanzetta.

L’indomani suo padre, di ritorno dal paese vestito dell’unico abito buono che possedeva, aveva annunciato a tutti l’avvenuto fidanzamento tra la cognata e Antonio Contini mentre l’interessata, a capo chino, ne prendeva ufficialmente atto con occhi lucenti ma senza versare altre lacrime.

Due giorni alla festa e ancora tantissime faccende da portare a termine.

Maria se lo ripeteva tra sé e sé di continuo, nel vano tentativo di darsi forza e nessuno osava farle da contrappunto vocale, prestando, tuttavia, senza risparmio le proprie energie per la riuscita di quell’avvenimento memorabile.

La domenica arrivò in un baleno accolta con ansia da tutti sin dalle prime luci dell’alba in piedi, ciascuno con un compito ben preciso cui adempiere. L’aia era stata svuotata e debitamente ripulita da suo padre e dal modesto contributo di suo fratello Lino, la tavolata apparecchiata come d’uso per le festività solenni all’ombra di una tettoia ombreggiata da filari d’uva per fornire frescura sufficiente al banchetto dei promessi. Le vivande, preparate per tempo, erano state allineate su ogni superficie libera dell’enorme cucina e in parte anche della stanza da letto dei padroni di casa, lustrata a specchio e prontamente rimessa in ordine, la coperta di broccato sormontata da quella intagliata sul letto matrimoniale rifatto da sua madre alla perfezione.
Maria Luisa era un incanto nell’abitino cucitole dalla sarta di paese; nero regolamentare, manco a dirlo, ma ingentilito da una scollatura a cuore e un vitino sottile con una gonna più ampia di quelle da lei di solito indossate. A Lauretta pareva una delle cantanti del festival di Sanremo sbirciate con curiosità sul giornaletto della signora Irma, bolognese, su cui questa e la mamma avevano scelto per la promessa sposa un modello degno delle circostanze.

La giornata era andata avanti senza scossoni, seguendo un copione prestabilito elaborato con sapiente lungimiranza. Gli ospiti, accolti con deferenza, erano stati fatti accomodare in casa per i primi scambi di convenevoli e poi condotti sotto il famoso pergolato. Maria Luisa e Antonio Contini erano seduti al centro, affiancati ciascuno dai personaggi principali della propria famiglia di origine come in una bizzarra prova generale del pranzo di matrimonio che si sarebbe celebrato a meno di un mese. Lauretta aveva contato una quindicina di invitati, intristendosi al pensiero che nessuna delle donne adulte presenti indossasse abiti dai colori vivaci, beneauguranti, e aveva fatto onore al banchetto, notando, invece, come la zia Maria Luisa spilluzzicasse di malavoglia ciò che con abbondanza sua sorella si affannava a offrirle invitandola, con occhiate più che eloquenti, a servirsene.

Lei e Lino avevano anche provato a familiarizzare con i bambini Contini ma senza successo; le due femminucce in abiti pastello ed enormi fiocchi di nylon tra i capelli, non si staccavano dalle gonne delle rispettive madri e l’unico maschio, dell’età apparente di quindici anni, non aveva intenzione di sporcarsi di terriccio e di pagliuzze dorate il vestito a giacca scuro come, invece, era capitato a Lino. Con sguardo furbo la bimba constatò come l’abbondante e generoso vino rosso e la ratafìa ghiacciata stessero facendo effetto sugli ospiti, decidendo che era arrivato per sé il momento di allontanarsi dalla tavolata, sentendosi come un cuccioletto legato alla catena a cui sia finalmente stata offerta la possibilità di sgranchirsi un po’ le zampe da un padrone severo e intransigente. Le era venuta un’idea luminosa ed era sicura che almeno qualcuno avrebbe gradito la sua sorpresa. Vi si era esercitata per giorni e giorni con risultati eccellenti che non vedeva l’ora di mostrare a tutti Inciampando nel vestitino a sbuffo, grazioso ma scomodo per una bambina en plein air come lei, si spinse coraggiosamente fino al primo ciuffo di papaveri rossi spuntato a ridosso della campagna. Con delicatezza ne colse la giusta quantità, stando attenta a non macchiarsi e a non sgualcirne i petali teneri e impalpabili; poi, col suo bottino si sedette all’ombra della quercia imponente da lì poco distante. Con grande abilità ne intrecciò le corolle riuscendo a non rovinarne nessuna, decidendo di regalare la coroncina di fiori a Maria Luisa. Era sicura che l’avrebbe resa meno triste, forse addirittura più felice.

Due sagome note intrecciate in un abbraccio attrassero la sua attenzione e lei si stropicciò gli occhietti stanchi per il timore di aver frainteso.

Con grande stupore vide sua zia ricambiare inequivocabilmente le affettuosità del gigante biondo e muscoloso baciandolo su una guancia. Questi, allora, la prese per mano aiutandola a salire su un camioncino malmesso poco distante. Un unico attimo di indecisione, poi un’idea veloce come un lampo in un cielo d’estate.

– Zia, aspetta!

Lauretta corse a perdifiato come in quella mattinata lontana ma questa volta per raggiungerli, pronta a consegnare il suo dono campestre con infantile determinazione. I due amanti si volsero di scatto verso di lei, sorpresi, e sua zia, già di lato al suo cavaliere, si sporse dal finestrino e le accarezzò il visetto intelligente sorridendole come per scusarsi, con un luccichio insolito negli occhi che le fece capire che quello era un addio.

Lauretta le tese seria la ghirlandina di papaveri e l’altra l’afferrò veloce con uno sguardo luminoso, ben diverso dall’espressione incolore degli ultimi giorni. Poi le mandò fugace un bacio prima di stringersi al suo cavaliere. L’automezzo si allontanò rombando, sollevando una nuvola di polvere che fece tossire per qualche istante la bimba ma non la intimorì.

Quando li vide scomparire dietro il lungo filare di pini marittimi che delimitava la carreggiata Lauretta s’incamminò sulla strada del ritorno stringendo in pugno l’unico fiore rosso sfuggito al suo capolavoro, con sguardo pensieroso. Di una cosa, però, era abbastanza sicura. I papaveri erano troppo incantevoli per appartenere al demonio. Potevano soltanto essere fiori di angeli provvidenziali se erano riusciti a restituire il sorriso a sua zia. Gongolò al pensiero piacevole di quanto quest’ultima avesse apprezzato il suo braccialetto. Le avrebbe certamente portato fortuna, si disse convinta. Questo pensiero la confortò e la rese più serena.

A pochi passi da lei, al centro dell’aia attorno alla lunga tavolata ancora imbandita a festa, c’era qualcuno che discuteva con concitazione. Con un sussulto leggero lei trasalì credendo di saperne il perché ma non indietreggiò.

Vi si avvicinò, invece, a fronte alta; pian piano, con coraggio e calma estremi, pronta come non mai ad affrontare i rimproveri di sua madre.

Il suo bel vestito della festa era irrimediabilmente macchiato di verde e di vermiglio, ed era una realtà, ma a lei questo poco importava. Attorno a sé avvertiva ancora, forte e persistente, la fragranza discreta dei fiori rossi di campo magicamente da lei intrecciati l’uno all’altro, assieme a un nuovo e misterioso profumo di amore, percepito con lievità di bimba sensibile e da subito riconosciuto e accolto nel suo piccolo cuore.

Lucia Guida 

photo by Jarmilla

Presentazioni d’autore: “La pietra di Cesare” di Maurizio Milazzo

Cari amici, qui di seguito troverete la mia recensione dell’ultima fatica letteraria di Maurizio Milazzo, autore romano, di cui avevo avuto in anteprima notizia in occasione della presentazione romana del mio “Pergolato”, avvenuta il 23 maggio 2014 presso la Shakespeare & Co. di Vincenzo Libonati.
Buona lettura e a presto

Il romanzo

“La pietra di Cesare” è il secondo romanzo di Maurizio Milazzo pubblicato per la casa editrice siciliana indipendente Nulla Die. Fa parte di una saga disvelata poco a poco dal suo autore che vede come protagonista Nicola Enaldi, questa volta nei panni di un talentuoso informatico ventenne alle prese con un intrigo a metà tra il paranormale e il fantascientifico con risvolti di tipo giallistico.

La storia si svolge ai nostri tempi ed è incentrata sul personaggio principale di “Strada facendo”, qui ritratto all’inizio della sua affermazione professionale e personale, affiancato da Giulio e Simone, suoi colleghi di lavoro presso la Datatrace S.p.A., società di servizi informatici romana. Nicola è uno studente lavoratore ben deciso a farsi strada da solo, senza agevolazioni che gli provengano dal fatto di avere un padre azionista  di un’industria farmaceutica in cui lui potrebbe certamente trovare occupazione attraverso corsie privilegiate. Grazie alla sua intraprendenza e alla voglia di fare giustizia per sé e per i suoi compagni di lavoro, come lui preoccupati di essere messi in cassa integrazione o trasferiti,   uscirà a venire a capo di un intrigo di tipo finanziario in parte procuratogli dal fatto di aver accettato di aiutare Aulo Tiberio Manlio, centurione della Nona Legio Hispana, giunto a Roma nel terzo millennio grazie ai poteri magici di un amuleto donatogli da Giulio Cesare, suo capo, per catturare Sesto Nasone, l’unico congiurato romano riuscito a sfuggire alla vendetta dei fedelissimi di Cesare grazie a un frammento della stessa pietra magica, carpito con l’inganno all’augusto condottiero nel giorno della sua uccisione.

Nicola e Aulo Tiberio Manlio scopriranno che il loro antagonista ha assunto camaleonticamente le fattezze di “Bellicapelli”, famoso politico locale e incarnazione della politica più becera e opportunistica che possa esistere, cercando di fermarne le malefatte e attirandosene l’ira funesta.

Il romanzo di Maurizio si divora con grande facilità, spingendo il lettore ad andare avanti per poter sapere “come andrà a finire”. Molti gli spunti di riflessione su aspetti salienti della nostra quotidianità offerti dal suo autore: uno tra tanti, quel sottile senso di precarietà alla base del nostro vivere spicciolo, che contribuisce a rendere transitorie tutte quelle cose che una volta duravano per sempre, come un posto di lavoro modesto ma conquistato con fatica. Il narratore si impegna a traghettare ciascuno di noi con estremo garbo attraverso il dipanamento di un intreccio solo all’apparenza facile e scontato, mirando a verificare come, nel corso dei millenni,  in questione di potenziale umano e relazioni interpersonali  sia davvero cambiato poco se peccati capitali come l’ambizione, la sete di potere, un certo “delirio di onnipotenza” propri di tutti coloro che vorrebbero prevaricare i propri simili per assicurarsi, a discapito degli altri, condizioni di vita migliori, siano sempre lì, pronti a venir fuori e a connotare con spietata negatività chi se ne lascia consapevolmente ammantare trasformando la propria esistenza in un modus vivendi d’assalto.

La positività e l’elemento salvifico non mancano: risiedono nella trasparenza dell’ingegner Fiore, preoccupato per il benessere dell’azienda per cui lavora piuttosto che di procacciarsi un’opportunità professionale ghiotta e maggiormente remunerativa altrove; in Mara, amica di vecchia data di Nicola, complice e affidabile senza troppi se e ma; nella lealtà di Giulio e Simone, consapevoli di dover giocare una partita dura e pericolosa per dare manforte all’azienda che ha conferito loro dignità professionale; nel profondo senso del dovere di Aulo Manlio, pronto a inseguire in epoche temporali differenti il suo acerrimo nemico  piuttosto che rischiare di disattendere il compito che si è prefisso di portare a termine: catturarlo e punirlo in modo esemplare.

L’autore

Maurizio Milazzo è nato a Roma nel 1968, si occupa di Sistemi di Pagamento per la Pubblica Amministrazione. Socio della Free Lance International Press, collabora con giornali e riviste, scrive e conduce programmi radiofonici e televisivi su network locali. Da presidente della Promoit Onlus persegue progetti di solidarietà. Nel 2009 pubblica la raccolta di racconti “Sogno o son destro? Incubi di un mancino”. Nel 2012 pubblica in e-book i racconti “Rompete le righe… ma anche i quadretti” e nel 2013 il suo primo romanzo, “Strada facendo”, per le Edizioni Nulla Die.

Maurizio Milazzo, La pietra di Cesare, ISBN: 9788897364962   € 16,00

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The First Time – La prima volta da autrice. Intervista al “Democratico”

Ieri sera mi è capitato di rileggere la mia prima intervista “seria” rilasciata da autrice al web magazine “Il Democratico”. Era il 26 gennaio 2012 e il mio primo libro, la silloge di racconti “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” era appena stato dato alle stampe. Al di là della foto a corredo, che mi ritrae in “posa da affabulatrice” mostrandomi certamente più giovane ( e, magari, forse meno disincantata riguardo alle faccende legate al mondo dell’editoria e alla pubblicazione di un libro di quanto a oggi io sia ), mi sono soffermata a leggerla con un pizzico di attenzione in più. Giusto o sbagliato che sia mi sono rivista appieno: il tempo è trascorso ed è un dato di fatto. E molte cose della mia vita, personale e di autrice, sono cambiate. Restano tuttavia invariati i capisaldi esistenziali, quelli conquistati  in qualche circostanza a denti stretti. Sono ancora in cammino, poco ma sicuro, portando nel mio fardello quotidiano quelle certezze sulle cose e sulla gente sedimentate e poi gelosamente custodite in me stessa, quasi a darmi forza e a spronarmi ad andare avanti, quando il percorso da intraprendere diventa più faticoso e meno agevole.
Un abbraccio a tutti e buona lettura

 

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Incontro con la scrittrice Lucia Guida

 

Abbiamo incontrato nella città dannunziana la scrittrice emergente Lucia Guida, docente di Lingua Inglese: è una splendida quarantenne che ci accoglie nel suo appartamento nella zona dell’università per sorseggiare un tè al bergamotto rigorosamente inglese. Il soggiorno che ci ospita, luminosissimo, ci regala lo spettacolo incantevole di Majella e Gran Sasso al tramonto appena velati dalle nuvole. La sua prima raccolta di racconti “Succo di melagrana. Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” edito da Nulla Die sta raccogliendo il crescente favore del pubblico e recensioni molto positive.  Fra libri, appunti e ricordi di famiglia la prima domanda è d’obbligo: come si diventa scrittrici?

Da un grande amore per la lettura nato precocemente grazie a mio padre e dalla voglia di scrivere storie che ho avuto sin da bambina. Credo che i miei conservino per ricordo ancora qualcuna di queste mie ‘produzioni’. La vita, poi, mi ha portato a scelte importanti come le mie prime esperienze lavorative, all’estero e in Italia, la maternità, che mi hanno fatto temporaneamente accantonare questa mia passione. Scrivere richiede tempo e una certa dose di serenità, anche interiore, almeno questa è la mia opinione. Ho sempre continuato a leggere moltissimo e a scribacchiare postando in un blog i miei ‘appunti di viaggio’, riflessioni sul mio quotidiano più spicciolo…“

Sul suo profilo facebook abbondano citazioni letterarie: colpisce una di Alessandro Baricco tratta da “Questa storia” che recita: “Sono una donna felice, come lo dovrebbe essere qualunque donna nel riverbero di questa età luminosa. Ho debolezze eleganti, e cicatricicharmantes. Non ho più illusioni sulla nobiltà delle persone, e per questo so apprezzare la loro inestimabile arte di convivere con le proprie imperfezioni. Sono clemente, alla fine, con me stessa e con gli altri.” Davvero lei si riconosce in questa frase?

“La citazione è di uno degli autori preferiti miei e di mia figlia. Mi ci riconosco per intero, soprattutto nel riferimento a quelle che l’autore chiama ‘cicatrici charmantes’: vivere appieno è mettersi in discussione e  parimenti accettare anche il rischio di soffrire o di scoprire di se stessi ‘verità scomode’. Credo che questa consapevolezza di fondo, talvolta raggiunta a caro prezzo, ci renda a un certo punto del nostro percorso di vita molto più affascinanti cha a vent’anni e forse più indulgenti verso le fragilità proprie e altrui.“

I suoi racconti descrivono con abilità e disincanto storie femminili
dove spesso le protagoniste vivono amori difficili e contrastati. La sensibilità femminile si scontra inevitabilmente con l’istinto maschile?

“Diciamo che noi donne abbiamo generalmente modalità comunicative verbali maggiori rispetto agli uomini; che investiamo nel sentimento piuttosto che nell’operatività concreta, modalità privilegiata, invece, da voi. Poi ci sono anche moltissimi uomini che hanno scelto di riconoscere (e di accettare!) la parte femminile che è in loro, quella fatta di sensibilità. Come d’altro canto moltissime donne, soprattutto di ultima generazione, che hanno fatto della propria razionalità e lucidità, una volta appannaggio prettamente maschile, un punto di forza del loro agire. Ideale sarebbe, magari, una sorta di complementarietà: accettarsi gli uni e gli altri per quello che si è realmente, per quello che si ha concretamente da offrire, al di là di tipizzazioni ahimè ancora prevalenti nel sentire comune. Una piccola sottolineatura, infine, sulle vicissitudini sentimentali delle protagoniste delle storie: vivono certamente situazioni difficili in cui non c’è sempre posto per l’happy ending, ma alla fine le scelte a cui arrivano sono scelte permeate di speranza, di positività.“

Certe atmosfere del Sud sono lo sfondo privilegiato della sua scrittura. Le sue origini hanno influenzato il suo immaginario emotivo e letterario, ha utilizzato anche spunti del suo vissuto?

“A me piace pensare di essere quella che sono grazie anche alle mie origini e ai valori trasmessi dalla mia terra per il tramite della famiglia. Nei miei racconti, e quindi anche nei sei proposti in ‘Succo di melagrana’, c’è più di uno spunto appartenente al mio vissuto: appunto una storia di famiglia, quella della bambinaia di mia nonna materna nel primo, ad esempio. Ma anche situazioni concrete altrui rivisitate in un’ottica di verosimiglianza in cui, però, c’è sempre posto per una conclusione diversa, personale.“

Quali letture sono state importanti nella sua formazione di scrittrice, considera alcuni modelli imprescindibili per chi voglia accostarsi alla scrittura?

“Da apprendista affabulatrice quale io mi reputo non ho purtroppo potuto avvalermi di corsi di scrittura creativa. Ho sempre, però, letto moltissimo senza limitazioni temporali di sorta con particolare riguardo alla narrativa italiana e straniera; se penso a dei modelli me ne vengono in mente diversi: Thomas Hardy, Jane Austen ma anche Natalia Ginzburg. Sidonie Gabrielle Colette, magari oggi poco apprezzata, Honoré de Balzac. Piacevolissimi i romanzi di Gianrico Carofiglio, scrittore barese di eccellenti legal-thriller, di cui sono una grande estimatrice caratterizzati da uno stile sobrio, essenziale: diretto.“

Ha sempre un libro sul suo comodino e quali libri porterebbe con sé su un’isola deserta per non sentirsi mai sola?

“Il libro attualmente sul comodino è ‘Adamo ed Eva’ di Mark Twain, incentrato sull’eterno conflitto tra uomo e donna, consigliatomi da una cara amica divoratrice di libri come me. Sull’isola deserta porterei decisamente tutti i romanzi di Jane Austen, da me collezionati con certosina pazienza, possibilmente in edizione originale.“

La scrittura al femminile anche in Italia sta conoscendo una stagione di notevole consenso di pubblico. Ama oppure odia qualche autrice in particolare?

“ Consenso e gradimento del pubblico credo siano un omaggio più o meno velato alla grande sensibilità femminile. Ho un ricordo molto tenero dei romanzi di Brunella Gasperini, divorati da adolescente. Credo di non odiare nessuna autrice anche se è capitato talvolta che non portassi a termine la lettura di qualche libro…“

Erotismo e letteratura spesso vanno d’accordo: lei stima più le scrittrici audaci o quelle socialmente e politicamente impegnate?

“Ammiro fortemente chi in maniera aperta e senza pruderie di sorta fa dell’erotismo e della femminilità più intima materia dei propri libri incarnando desideri e fantasie profondi del lettore, anche se le mie simpatie vanno per tutte quelle donne che sono impegnate nel sociale  e nella politica. Sono una bella spinta alla riflessione pubblica, al ruolo della donna nella società e alle sue infinite potenzialità … “

Le donne nel Belpaese non sono mai abbastanza presenti in politica, nel mondo del lavoro e purtroppo anche della cultura. Abbiamo un atavico complesso maschilista?

“Una risposta sincera, scevra da posizioni oltranziste? Io credo di si e lo dico con infinito dispiacere, con quella sottile sofferenza femminile che si prova nell’avere quotidianamente la sensazione di “non essere mai abbastanza” e, di conseguenza, dover faticare il doppio, il triplo per convincere chi si ha di fronte della propria intelligenza e valore intrinseci. In situazioni complesse e straordinarie  come in episodi di vita vissuta e spicciola.“

Pescara è stata a lungo al centro della drammatica scomparsa di Roberto Straccia, lo studente trovato poi morto sul lungomare di Bari. Come ha vissuto questa vicenda piena di ombre che ha smosso una città intera?

“Sono d’accordo, è una vicenda ancora piena di ombre, di chiaroscuri in cui è difficile intravvedere linee precise. Mi ha colpito la determinazione della famiglia di Roberto nello sperare sino alla fine in una conclusione diversa, più umana. Come madre credo che non vi sia al mondo dolore peggiore e contro natura di quello della perdita prematura di un figlio.“

Si dice spesso che i giovani figli di internet non amino leggere: lei oltre che insegnare è anche madre di due figli. Crede che gli italiani siano inguaribilmente pigri o che i docenti non sappiano motivare abbastanza?

“Dovrei rispondere da prof o da mamma? Scherzi a parte, credo di avere spezzato più di una lancia a favore della lettura. Che nell’invogliare in tal senso i propri figli servano innanzi tutto buone pratiche genitoriali:  un buon libro come regalo quale alternativa al più costoso e gettonato video gioco del momento… Ma la lettura come buona abitudine necessita anche di insegnanti sensibili e attenti che sappiano proporre ai propri alunni titoli stimolanti, che li crescano con il gusto della carta stampata. Insomma, che alla teoria più raffinata corrisponda una pratica di sostanza a 360°.“

Vivere e lavorare nella città di Gabriele d’Annunzio ed Ennio Flaiano non la condiziona in qualche modo, scrivere nella città di due mostri sacri non le crea un certo imbarazzo?

“No, affatto. Mettiamola così: la mia è la stessa ammirazione che una brava donna di casa prova di fronte alle raffinatezze preparate da uno chef rinomato. Non c’è contrasto né imbarazzo, dal momento che l’una e l’altro sono impegnati in ambiti differenti. Ciò non toglie che la brava donna di casa non possa cimentarsi nella preparazione di una prelibatezza: non raggiungerà magari la perfezione del primo, ma si divertirà e imparerà senz’altro qualcosa, che poi è, forse, la cosa più importante.“

Sta preparando un seguito alla sua prima silloge di racconti o preferirà  cimentarsi con un romanzo vero e proprio? Vuole darci qualche anticipazione.

“Per scaramanzia non anticipo niente, ma come ho già detto ad altri, dopo questa prima silloge di racconti non intendo mettere limiti alla Provvidenza. Ricorro a un’altra citazione, questa volta di Daniel Pennac che recita: ‘Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare.) Rubato a cosa? Diciamo, al dovere di vivere’. Bello è quando al dovere/piacere di vivere si riesce a coniugare la soddisfazione sottile di sviluppare un’idea fino a vederla concretizzarsi in una storia compiuta.“

Grazie per il tè, squisito davvero, come i biscotti preparati con estrema cura, una ricetta segreta naturalmente. Il sapore di melagrana li ha resi ancora più delicati!

“Le ciambelline sono un felice connubio di tradizione culinaria abruzzese e pugliese. La melagrana una piccola e gradevole concessione scaramantica e innovativa all’oggi…“

 

Martino Cristiano*

* Il link originale dell’articolo lo trovate qui

 

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La stanza della memoria

Non è facile parlare di femminicidio senza rischiare di cadere nella retorica o, peggio, di parlarne in maniera scontata e poco incisiva. In questo racconto breve, scritto qualche tempo fa per un reading, ho cercato di calarmi nei panni di una donna vittima dell’ossessione amorosa del proprio partner. Dandole voce per poterle far raccontare con voce postuma “da donna a donna” ma anche “da donna a uomo”  lo strazio di un amore femminile tradito, avvilito e annientato da parte di un uomo che con altrettanto amore e rispetto non è stato capace di ricambiare.

Buona lettura e a presto

 

La stanza della memoria

 

Sul comò di legno bianco laccato c’è ancora una cornice portafoto.

Nella foto che racchiude ci siamo io e te, capelli spettinati dal vento e sorrisi al cielo, il mondo intero stretto nel pugno di una mano in due, felici e irridenti. C’è un velo di polvere sottile e persistente sulla cornice dorata in stile veneziano che nessuno ha avuto il coraggio di toccare. Ciononostante, tutto in questa camera dai toni chiari, volutamente rilassanti, ha conservato la fragranza di un tempo.

Il letto dalla testata in ferro battuto decorato con volute e arabeschi sapienti, il comò sovraccarico dei miei gioielli etnici e di un mazzolino di rose secche lasciate appassire lentamente durante il tempo di un’estate mite, indulgente. Ricordi? Me le avevi comprate da un fioraio ambulante che te le aveva legate con un nastro rosso lucente, contro la sfortuna. Un nastro avvolgente come la passione che allora ci univa. C’è anche il tuo dopobarba, disperso tra le mille cose di poca e grande preziosità della mia quotidianità femminile che attorniano questo ritratto così evocativo di un giorno di sereno tra di noi che pure c’è stato: un’immagine unica, bella, radiosa, spettacolare.

“Siamo una bella coppia”, quante volte me l’avrai ripetuto? Non me lo ricordo più. So, però, per certo che all’epoca ci credevo davvero.

Sulla toeletta di legno scuro intarsiato troneggia una lampada dalla base di porcellana chiara con un’impercettibile fessura sul lato posteriore, nascosta all’occhio dei più. Deve quella crepa a un tuo atto di intemperanza, di cui a suo tempo mi hai prontamente chiesto scusa con un sorriso pentito, offrendoti di ripararla. Di comprarne addirittura un’altra.

Io ti ho celato il mio sguardo lucido e ho fatto finta, quel giorno, di osservare, attraverso le tende avorio della portafinestra, la collina e il biancore immacolato delle montagne antiche che tanti nostri risvegli hanno celebrato e salutato. “No”, ho, poi, trovato la forza di risponderti, nell’attimo in cui ho ritrovato un filo di voce. “Non occorre, vedrai che si potrà aggiustare”.

E, giorno dopo giorno, mettendoci tutto l’impegno di cui sono stata capace ci ho lavorato con amore, con speranza, incaponita com’ero a riportarla al suo splendore originario: quello dei nostri momenti migliori in cui felici, innamorati, frugavamo dalla prima all’ultima bancarella dei mercatini di paese alla ricerca di un oggetto qualsiasi che potesse suggellare i nostri primi attimi d’infinito insieme.

La poltroncina in stile è ancora nell’angolo in cui io l’avevo collocata, impregnata dell’odore maschile del tuo corpo sprigionato dai vestiti che eri solito poggiarvi. Le prime volte che facevamo l’amore non occorreva neppure che tu li sistemassi lì: i miei abiti, la tua camicia e il tuo maglioncino finivano frettolosamente in terra e nessuno di noi si dava peso di raccoglierli per lungo tempo. A coprirci bastavano il mio desiderio di te e il tuo di me.

Se spalanco le ante del nostro armadio riesco a percepire ancora la fragranza, sottile e persistente, della mia essenza di donna unita a quella tua, di uomo,  nei cassetti, negli scomparti e nei ripiani ora desolatamente vuoti. La nostra vita insieme mi ritorna in mente col suo ritmo lento e pacato iniziale; furioso e tumultuoso, inspiegabilmente frenetico e inumano al suo epilogo. Una fine impietosa, inusitata, brutalmente violenta, che qualcuno ha stentato a credere, leggendo di noi sulla pagina di cronaca nera di un quotidiano locale.

E’ incredibile notare come oggi i muri di questa camera sospesa nel tempo e nello spazio, luogo privilegiato dei nostri pensieri migliori, siano immacolati e perfetti come una volta.

Niente pare averli scalfiti o insozzati. E le parole durissime e le grida di rabbia e di rancore, di timore che pure ci sono state sembrano quasi essere rimbalzate verso l’esterno, verso quell’orizzonte, a volte più nitido da scorgere a volte meno, così speculare e simile alle fasi altalenanti della nostra relazione d’amore.

In questo sentimento io ci ho creduto sino alla fine, sai? Coprendomi il capo di cenere e passando sopra alla tua furia e alle tue giustificazioni pietose, alla profanazione del mio corpo di donna e al cilicio che a un certo punto, sempre più spesso, hai voluto che io indossassi. Per motivi futili, hanno detto alcuni. Per non averti amato abbastanza, mi sono ripetuta a mente io, restando ostinatamente, pervicacemente fedele al giuramento che ti avevo fatto davanti a tutti.

Ho cercato di sorridere anche quando mi sono costretta a guardami per metà nello specchio tondo di camera, nel tentativo maldestro di celare un’ombra violacea su uno zigomo, segno tangibile della tua profonda insoddisfazione verso di me e verso il mio modo di esistere, o un labbro spaccato e dolente, colpevole di aver portato un rossetto per te troppo colorato e vistoso. Le mie scelte estetiche ti sono apparse di volta in volta troppo audaci o troppo poco appariscenti, procurando il tuo fastidio, la tua collera. Un mutare d’accento continuo, il tuo, per me destabilizzante e poco indicativo del tuo reale sentire del momento. Una iattura che non mi ha portato affatto bene e che mi ha condannata a un lento, inesorabile declino, facendomi perdere consistenza e consapevolezza umana, di persona.

Non sono stata capace di guardare al di là del mio naso e la colpa è stata solo ed esclusivamente mia. Forse avrei dovuto e potuto fare diversamente. E’ questo l’ultimo pensiero con cui ho colmato il mio sguardo attonito, interrogativo, mentre il tuo coltello affilato frugava impietoso all’altezza del cuore di questo mio corpo troppo docile, desolatamente arrendevole. Impossibile pensare e credere che tu potessi arrivare a tanto. Eppure l’hai fatto.

Tu, il mio primo e unico amore, il mio compagno di vita, il mio uomo.

In questa stanza dai toni tenui e rassicuranti il mio spirito ha voglia di trattenersi ancora sino a quando il tempo delle risposte non si sarà compiuto.

Di aprire cassetti ossessivamente svuotati. Di accarezzare con la punta delle dita ogni cosa poggiata su quel comò antico con i gesti familiari di un tempo; ridando vita a oggetti che nessuno ha avuto il coraggio di chiudere in uno scatolone e dimenticare nel fondo di un magazzino buio e senz’aria. Sono stata io a suggerirlo con voce bassa e suadente, a farli desistere da questa incombenza pietosa per loro certamente rassicurante. Tutto deve restare così com’era allora sino a quando ce ne sarà ancora bisogno.

Perché io avverto ancora l’esigenza di far ondeggiare e tintinnare le stampelle dell’armadio come al soffio d’aria benevolo e leggero di brezza di primavera, prima di richiuderne con cura le ante fino al prossimo utilizzo.

Desidero coprirmi con leggerezza con un lenzuolo freschissimo di lino ricamato a mano, quello della nostra prima volta insieme, lasciandolo scivolare sulla mia pelle nuda, liscia e levigata di ragazza di un tempo.

Voglio spegnere con dolcezza l’abat-jour sul comodino al lato del letto aspettando pian piano che i miei occhi spalancati sul nulla si abituino al buio profondo e prendano a sondare attraverso le ombre della sera i contorni conosciuti della nostra quotidianità di coppia, mia e tua. In attesa di te e del tuo spirito che ora, ne sono certa, sta vagando in un altrove impensabile e indescrivibile, certamente disumano e ben lontano da questo limbo che mi è stato concesso di popolare con silenzioso e rinnovato dispiacere.

Ancora per qualche giorno, ancora per qualche ora, formulando domande a cui nessuno, per l’eternità, potrà forse più rispondere per noi.

Questa stanza della memoria sarà il nostro sentiero battuto per altri che non avranno scusanti per non pensare, per fingere di non ricordare e poi fuggire con colpevole leggerezza dal dolore e dal prevedibile orrore del mio sangue versato per noi, per loro, per tutti nel chiarore di un’alba ancora troppo vicina per poter dimenticare.

 

Lucia Guida

 

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Il dipinto “Tramonto” è di Aldo Sterchele

Presentazioni d’autore: “Lanterne per riconoscermi” di Maria Luisa Mazzarini

Ho conosciuto Maria Luisa diciotto anni fa e per un intero anno scolastico abbiamo condiviso un pezzetto di percorso professionale come docenti, lei di Lettere e io di Lingue. Incontrarci nuovamente rispettivamente in veste di poetessa, per lei, e di prosatrice, per me, nel corso di un evento letterario è stato uno di quegli scherzi esistenziali che  il Destino, bontà sua, ogni tanto si diverte ad architettare.
Gli amici che mi conoscono sanno che nutro per la poesia una sorta di timore reverenziale e, quindi, accoglieranno questa piccola recensione, da me fatta puntando più su questioni di gusto che su un tecnicismo e una specificità che non posseggo, il giusto tributo a un’Arte posseduta ed esercitata, invece, da Maria Luisa Mazzarini con maestria ed estrema eleganza.

Buona lettura

La silloge

 

“Lanterne per riconoscermi” è la terza silloge di poesie di Maria Luisa Mazzarini. Attraverso un percorso fatto “D’Amore, di Acqua e di Luce, di Sole e di Luna, di Fiori, di Sogno”  narra le sensazioni e le emozioni di un’anima in stretto e profondo contatto con la natura e con tutto ciò che la circonda, facendosi per lei Vita, elementi rappresentati attraverso una scelta precisa e minuziosa di vocaboli in cui il significato e il significante coincidono con una sensibilità squisitamente femminile, pur lasciando ampio margine di discrezionalità al lettore che si accinge a tuffarsi in un mare di tableaux vivants fatti, appunto, di parole usate con sapienza, capaci di prenderlo per mano e di portarlo in più di una dimensione spaziale e temporale in cui il terreno si mescola abilmente al divino; in un gioco di parti in cui, tuttavia, non c’è vinto o vincitore ma soltanto lo stupore di vivere un’esperienza sinestetica, fatta di espressività contrastante ma, al contempo, emotivamente assai coinvolgente.

Maria Luisa definisce le sue crezioni poetiche “i miei gioielli” ed è accorta e lungimirante in questo; in più di una circostanza le sue liriche fanno, infatti, pensare certamente a uno scrigno capiente in cui trovano la giusta accoglienza preziosità elaborate in foggia diversa, caratterizzate dalla stessa luce fatta di brio e stupore: la medesima meraviglia di una bimba posta di fronte alla luminosità di un tesoro con cui  potrà giocare a lungo perché qualcuno l’ha autorizzata a farlo, premiandola per la sua diligenza e la sua abilità a maneggiarlo con cura, sicuro della sua buona fede e autenticità a preservarlo dall’opacità del tempo e della quotidianità.

Nei suoi versi trovano, quindi, posto minuterie di un microcosmo vivo e brulicante fatto di fiori di campo e di serra, animali e insetti, i quattro elementi evocati da ciò che li rappresenta visivamente a noi esseri umani ( il sole, il vento, le nuvole, il cielo, l’aria, le acque di ruscello e di mare … ) , in cui non c’è distinzione alcuna tra ali di farfalla e petali di rosa, sorriso di fiori e silenzio di sogni e di stelle, ma appare unicamente la consapevolezza dell’autrice di gratificare  e cullare quegli uomini e quelle donne che possiedono la capacità di immergersi e nutrirsi di queste preziosità, liberandosi e ritemprandosi dagli affanni di una vita spesso frenetica, distratta e di poca soddisfazione.

Viene da pensare che se possibilità di salvezza ci sarà per noi, in primis una salvezza emotiva e sentimentale capace di liberarci da un’esistenza che potrebbe tendere a desertificare la nostra interiorità, questa sarà certamente racchiusa nella bellezza della Poesia, unica chiave di volta e di accesso alla riscoperta di un rapporto vivo e reale, fatto di scambi generosi con tutto ciò che ha determinato la nostra umanità più profonda e che, ancora, è alla base e a fondamento della nostra unicità, un’ essenza fatta di naturalità rigenerante e feconda, pronta di slancio a perdonare l’umana debolezza e ingratitudine.

 

ORO E ARGENTO

Il Poeta

d’oro sublima

ciò che l’uomo

calpesta.

A sera

sa dove trovare

la sua luna d’argento.

M.L. Mazzarini

 

L’autrice

 

Nata ad Umbertide (PG) e laureata in Lettere Classiche, Maria Luisa Mazzarini vive da più di 40 anni a Loreto Aprutino (PE) dove ha svolto attività di docenza e di scrittura. Ha pubblicato nel 2010 “E poi soltanto il vento” e nel 2012 “Fuga in gonna di farfalle” per Aletti. “Lanterne per riconoscermi” (2014 ) è edito da Divinafollia.

Maria Luisa Mazzarini, Lanterne per riconoscermi, ISBN: 9788898486274, € 12,00

 

 

Sulla riva del mio Presente

Fino a qualche anno fa ho lasciato che fossero le pagine di un blog della community di libero a custodire le mie riflessioni, divertendomi, da prosatrice più che da poeta, a esprimerle qualche volta in versi.

Approfittando dell’indefinitezza di questa giornata festiva di agosto, tutta nuvole e sole, vi propongo un mio componimento intitolato “Sulla riva del mio Presente”

A presto

Lucia

Sulla riva del mio Presente

 

Sulla riva del mio Presente

mi son seduta,

lo sguardo al cielo

e al cielo i miei pensieri.

Sentendomi  ricca dentro

ho taciuto,

crogiolandomi nel tepore

insperato

di una giornata di festa,

di sole e di sereno.

Il Passato è lì

che attende,

sagoma di monti all’orizzonte

sfumata nel blu

di ciò che è già stato.

Ma è un’ attesa pacata,

simile al saluto di chi

resta;

mentre il treno

dell’ancora possibile

pian piano prende la rincorsa

per portarmi

via e lontano.

 

L. Guida  (2011)

 

 

“Past. Present. Future.1” , Anna Razumovskaya

Il cielo resta sempre

Una ragazza alle prese con una quotidianità scialba e con un amore che fa male decide di punto in bianco di cambiare rotta e andare via. Dirigendosi verso il mare e la sua grande apertura, alla ricerca di nuove possibilità  di vita; scoprendo all’improvviso di non avere mai smesso di volersi bene.

Buona lettura

 

Il cielo resta sempre*

La percezione era quella, spiacevole, di un malessere subdolo e serpeggiante. Un senso di disagio che si insinuava in lei in profondità sin dal risveglio scandendo la sua quotidianità passo dopo passo, inesorabilmente. Un accenno di nausea che la prendeva all’improvviso accompagnato da una sensazione di vertigine che l’attanagliava a tradimento, facendole desiderare distese sconfinate di erba verde ondeggiante al vento dal chiuso di quell’ufficio minuscolo in cui da circa tre anni svolgeva la sua attività di contabile part-time. All’inizio le era bastato inspirare profondamente davanti alla finestra aperta e ripetersi che tutto andava bene, che tutto sarebbe andato a posto. Ma quel sollievo momentaneo non era durato a lungo e lei si era trovata a fronteggiare da sola, specialmente in orario di lavoro, attacchi d’ansia dalla portata devastante che nemmeno l’idea consolatoria di poter, a una certa ora, fare ritorno a casa, riuscivano a smorzare. Rifugiarsi in quella stanza minuscola dell’appartamento in condivisione con altre tre ragazze era stata da sempre la sua ancora di salvezza ma ora non le bastava più al pensiero di un presente che era un meschino tirare a campare e nulla più. Un’esistenza appesantita anche dalla storia di poco conto con un cliente della ditta per cui lavorava. Si erano conosciuti discutendo animatamente per una partita di appariscenti borse made in china griffate da lui ordinate da tempo immemore che tardavano ad arrivare. Lei era stata la prescelta mandata in avanscoperta per tentare di placarne le ire, contando sul fatto che l’altro avrebbe contenuto le proprie rimostranze alla vista di quella figura femminile esile, capelli corti e occhi scuri grandissimi in un viso dall’incarnato diafano. Una ragazza d’altri tempi. Stando tacitamente al gioco, si era scusata per l’inconveniente promettendo con solennità di risolvere personalmente la faccenda in tempi brevi. Erano finiti a prendere un caffè a un tavolino del bar Ideal all’angolo frequentato da avventori occasionali e rappresentanti annoiati in cerca di uno stacco minimo prima di poter andare avanti nel prosieguo della giornata. Lui le aveva preso la mano per leggerle il futuro ostentando la sottile fede d’oro che indossava. Dopo meno di una settimana si erano rivisti in un motel a ridosso dell’autostrada ed erano diventati amanti, con un patto di reciproca non interferenza suggellato dalle volute di fumo azzurrino della sigaretta di lui e dallo sguardo di lei al soffitto, concentrato sul movimento vorticoso di un immenso e vetusto ventilatore a pale impegnato a stemperare l’atmosfera rarefatta di un venerdì sera come tanti.

Può un cioccolatino dall’aspetto invitante saziare un affamato? Se l’era chiesto più volte; concludendo amaramente che non era possibile e tuttavia continuando a non mancare a nessuno di quegli appuntamenti clandestini consumati in agriturismi o alberghetti fuoriporta che coloravano la sua quotidianità scialba e inconsistente. Sino a quel fatidico giovedì in cui una sensazione strana, sgradevole si era impossessata di lei per il resto della giornata; facendole dapprima pensare di aver contratto uno di quei  virus capricciosi e passeggeri, capaci tuttavia di scombussolare, anche se per breve tempo, una vita senza scossoni, senza infamia e senza lode come la sua. Sentendosi soffocare l’aveva chiamato sul cellulare di servizio con un numero schermato, come da lui ampiamente raccomandatole, defilandosi per il giorno successivo con una scusa a cui lui non aveva replicato, accettando quel diniego piattamente, quasi impersonalmente; probabilmente per non destare sospetti nella persona che, dall’altro capo del telefono, lo fronteggiava. Senza percepire nulla del bivio che lei scientemente aveva deciso di intraprendere.

Le successive due settimane in cui non aveva incontrato il suo amante, in vacanza in montagna con moglie e prole al seguito, le avevano tuttavia dato modo di mettere a punto quell’idea nuova, singolare che l’aveva stupita per l’insospettabile forza che conteneva strappandola con fermezza a quel bozzolo soffocante che si era costruita attorno, prontamente aiutata dalla casualità che dal cappello a cilindro aveva d’improvviso estratto un’amica da poco in città desiderosa di un  appoggio temporaneo che potesse tramutarsi in punto di riferimento stabile.

Quella mattina Irene si era mentalmente ripetuta il discorsetto da propinare al suo titolare e approfittando di qualche minuto di relax che lui si era concesso per festeggiare una transazione conclusa in maniera particolarmente favorevole, gli aveva dato il preavviso ridicolmente breve di una settimana, facendogli andare di traverso quel vetrino freddo ordinato al Bar Ideal con così tanto entusiasmo. Con insolita determinazione gli aveva anche chiesto una parte di ciò che le spettava come liquidazione, forte di quei quattro anni di impiego diligente e scrupoloso, aumentando lo stupore dell’uomo che si era limitato a sgranare gli occhi, incapace di metabolizzare quell’insospettabile voltafaccia da parte di una persona  apparentemente innocua come lei. Convocandola il giorno successivo e chiedendole, tra una sigaretta e l’altra, cosa l’avesse indispettita a tal punto da spingerla a una risoluzione così radicale. Con un impercettibile sospiro e un sorriso che non arrivava al cuore la ragazza aveva replicato che la sua era una decisione dettata esclusivamente da difficoltà familiari, impelagandosi in spiegazioni frammentarie in cui aveva parlato di affari urgenti cui badare e della necessità di doversi a breve trasferire in altra città. Lui l’aveva ascoltata con sguardo meditabondo senza proferire parola, poi aveva estratto da un cassettino della scrivania un modulo dattiloscritto che lei aveva firmato senza leggere, a fiducia, prendendo la busta che le porgeva quasi con rammarico, con una fermezza che sentiva prossima al capolinea, senza controllare minimamente cosa contenesse.

Preparando il borsone, il quarto in quel sabato di chiaroscuri fatto di afa estiva inutilmente attenuata da un susseguirsi incessante di temporali, aveva elaborato il passo successivo. Mara aveva ascoltato in silenzio del suo licenziamento e della sua difficoltà presente di affrontare la spesa del subaffitto di quella stanzetta di dieci metri quadri in un condominio di periferia. Accettando con magnanimità di conservarle in una cantinola tutto ciò che lei non fosse riuscita a caricare nella sua utilitaria fino a quando lei non avesse trovato adeguata sistemazione in un altrove imprecisato di cui non aveva voluto sapere nulla. Aveva anche promesso discrezione assoluta sulla sua partenza, compatendola mentalmente per quanto le era in così poco tempo accaduto, e a quel punto Irene le aveva trascritto su un post-it il suo nuovo cellulare ringraziandola per tutto e assicurandole di chiamarla presto per farle avere sue notizie. Delineando di se stessa e della propria vita in quella mezzora molto di più di quanto in quattro anni di coabitazione non avesse fatto. Poi era partita.

Per andare dove non lo sapeva nemmeno lei. Certamente allontanarsi in fretta da una situazione che le aveva tolto serenità e vitalità, smagrendola e conferendole un’aria più patita del solito che le era diventata inaccettabile. Uscire dalla cinta d’asfalto di quella città di provincia le aprì i polmoni liberandola in parte dal peso di angoscia e di incertezza che le premeva sul cuore.

D’istinto decise di puntare verso la costa, verso il mare. Aveva voglia di respirare aria pulita di salsedine mista all’odore penetrante di ozono che le solleticava le narici, guidando blandita dal ticchettio rasserenante della pioggia sulla capote della sua macchinuccia e dal confortante ritmo dei tergicristalli in azione.

Quando arrivò in quella cittadina pulitissima dal nome antico di sibilla si accorse con stupore di avere fatto più strada del previsto incalzata dal temporale e da pensieri vorticosi che tuttavia si erano dipanati come il filo di una matassa prontamente districato da un’esperta tessitrice.

Scendendo dall’auto per sgranchirsi le gambe intorpidite fu assalita dal richiamo del mare infuriato e dall’odore dell’arenile bagnato a quell’ora deserto.

Tra l’insegna fluorescente dell’hotel che prometteva vacanze marine roboanti e quella, più modesta, di un bed and breakfast a poche decine di metri più in là scelse quest’ultimo, cenando, come spesso le capitava da bimba, con un cappuccino e un croissant. La stanza era piccola ma graziosa e tra i tetti degradanti di quel centro storico così compito, mostrava un piccolo scorcio di mare aperto, beneaugurante, appena illuminato dallo scintillio di un quarto di luna sbucato non si sa come dai nuvoloni dispersi dal vento. Si addormentò con semplicità, come oramai da tempo non le capitava, le braccia strette attorno al corpo smagrito e le persiane aperte sull’aria fresca e invitante della notte.

– Buon giorno.

La padrona del Mistral l’accolse con un sorriso e la condusse verso un terrazzino odoroso di bouganvillea e gerani in cui aveva apparecchiato per lei. Irene fece onore alla colazione mentre guardava con occhi impenetrabili verso il mare, certo e incredibilmente presente anche da quella nuova prospettiva.

Un gabbiano intraprendente svolazzò dalla pensilina che la sovrastava e lei si stupì di quell’audacia osservandone ammirata l’apertura delle ali e il volo sicuro a metà tra la libertà e la consapevolezza di dover tentare nuove strade, nuovi mari, alla ricerca del necessario per andare avanti con dignità.

– Per stasera cosa ha deciso? Pensa di trattenersi ancora?

Cincischiando distrattamente con un’unghia sul ricamo della tovaglietta della colazione Irene si riscosse e accennò a un sorriso, lo sguardo verso il cielo rimesso al bello, nella carezza di una brezza gradevole e sottile.

– Resto, le disse.

E, con la lievità di una nuvola trasportata da correnti d’aria propizie, si diresse verso il fulcro di quel paese antico che sapeva di nuovo, che sapeva di buono.

 

Lucia Guida

 

* “Il cielo resta sempre” ha partecipato al Premio Dialogare 2014

 

 

“Promenade sur la falaise, Pourville”, Claude Monet (1882)

Presentazioni d’autore: “Strada Facendo” di Maurizio Milazzo

Maurizio Milazzo è un autore romano pubblicato dalla Nulla Die di Piazza Armerina (EN), da me conosciuto in occasione dell’edizione di Più Libri Più Liberi 2013. “Strada facendo”, edito nel 2013 e da me qui recensito, è il suo romanzo di esordio.
Dello stesso autore “La pietra di Cesare”, romanzo storico umoristico di imminente pubblicazione.

Buona lettura

 

Il romanzo

 

 

Immaginate di dover fare un viaggio sostanzioso, da Roma a Großostheim Ringheim Flughafen per esempio, magari per riabbracciare nuovamente la donna della vostra vita, conosciuta in un’occasione singolarissima, nella citta che è la vostra e a casa dei vostri genitori dai quali non capitate spessissimo. 

E’ quello che accade a Nicola Enaldi, giovane impiegato romano, ben deciso a compiere un tragitto di tutto rispetto in autostrada, casello dopo casello, accompagnato da un’ottima colonna sonora musicale, varcando  ben due confini nazionali alla ricerca di un sogno che sta per concretizzarsi dopo un lungo tempo di attesa e di riflessione.

La strada è certamente lunga e quale occasione migliore per Nicola di frugare nella sua memoria rivisitando quei luoghi appena sfiorati e annunciati da un cartello stradale, riassaporandone i ricordi e gli aneddoti ad essi legati, curiosità di vario genere incluse; ma anche riascoltare per radio, grazie a un più che tempestivo DJ,  canzoni della sua adolescenza e del suo tempo presente, ben allineate in mente a segnare momenti passati, resi piacevoli da un senso di amarcord vivido, a tratti struggente come sanno essere quelle cose che ti sono rimaste dentro pur non essendo più temporalmente alla tua portata.

Assonanze scherzose, aneddoti gustosi e immagini ancora intense nella mente di questo viaggiatore che ha deciso di raccontarsi in prima persona, non rinunciando tuttavia a segmenti di narrazione “seri”, da narratore onnisciente in terza persona, finalizzati a descriverci Nicola nei momenti cruciali di quest’esperienza: per esempio nell’atto di decidere qualcosa che non sia semplicemente una variazione su tema di un percorso prestabilito. Pensieri e riflessioni si rincorrono, ritmando il tempo di questa storia dalla durata di poco meno di un giorno, a ridosso di un perno cardine del nostro millennio, l’11 settembre 2001, segnando la fine e il principio di un tempo nuovo, forse più consapevole, certamente più disincantato, per quest’uomo alla riscoperta di se stesso ma anche, forse, per tutti noi.

“C’è sempre un forse nella vita … forse” è tra le frasi preferite di Nicola; una sorta di motto scaramantico che lui ama ripetersi per mettersi a riparo dagli inconvenienti dell’ultim’ora, mai come in questo frangente dal sapore realmente profetico. Per incontrare Alina gli toccherà, infatti, percorrere un bel po’ di strada in più, prolungando la chiacchierata con la propria anima sino ad arrivare a Berlino, dal momento che l’attentato alle Twin Towers newyorkesi ha influito, sia pure in misura infinitesimale ma certamente con concretezza, anche sul suo destino e su quello della sua ragazza.

Maurizio Milazzo si diverte a giocare sulla curiosità del lettore, in alcuni casi soddisfacendola con dovizia di particolari e cesellando pagine degne del miglior monologo interiore in cui, talvolta, c’è solo l’imbarazzo della scelta per poter passare da un argomento all’altro. Lasciando al lettore, tuttavia, la possibilità di completare degnamente questa narrazione con un finale a scelta, adattabile (mi piace pensarlo!) all’indole del suo pubblico.

Lo stile è fresco, frizzante, mai eccessivo, dando a chi legge l’impressione di una guida sapiente ma pronta ad adattarsi al percorso intrapreso, tra rettilinei e curve, per portare sino alla fine del tragitto chi ha voglia di spiccare, Nicola al fianco, voli di pensiero fatti di buonsenso, saggezza esperita, semplice e bonario fatalismo  privo di rassegnazione e ricco di costruttività.

“Roma, Berlino, cosa importa il luogo per due persone che si amano? “ è una delle conclusioni a cui l’autore arriva, lasciandoci intravvedere un finale connotato positivamente, ma ricordandoci comunque di tenere bene a mente la differenza che passa tra “viaggiatore” e “turista” , il primo ben deciso ad assaporare le mille sfaccettature dell’esistenza e il secondo impegnato, viceversa, a recitare , evitando di prendere attivamente posizione per vivere e agire.

 

 

L’autore

Maurizio Milazzo è nato a Roma nel 1968, si occupa di Sistemi di Pagamento per la Pubblica Amministrazione. Socio della Free Lance International Press, collabora con giornali e riviste, scrive e conduce programmi radiofonici e televisivi su network locali. Da presidente della Promoit Onlus persegue progetti di solidarietà. Nel 2009 pubblica la raccolta di racconti “Sogno o son destro? Incubi di un mancino”. Nel 2012 pubblica in e-book i racconti “Rompete le righe… ma anche i quadretti”.

 

Maurizio Milazzo, Strada facendo, ISBN: 9788897364696, € 10,00

 

 

NB: Il link originale della presente recensione è qui