Presentazioni d’autore: “Per il bene che ti voglio” di Michele Cecchini

“Per il bene che ti voglio”, seconda pubblicazione per Erasmo Edizioni di Michele Cecchini, scrittore lucchese, è la recensione libraria che oggi vi propongo. Una piccola anteprima alla presentazione di questo bel romanzo presso la Libreria Mondadori di Pescara che si terrà giovedì 9 luglio 2015, ore 18.00, da me introdotta alla presenza del suo autore.
Buona lettura e a presto

Il romanzo

“Io la storia di Antonio Bevilacqua vorrei raccontarla così, senza partire dall’inizio, tuttavia non so se sia il caso di cominciare proprio dalla morte. Il fatto è che vorrei iniziare da un finale. La vita di un uomo è costellata di finali e quello della morte è solo uno dei tanti”.

La citazione è parte dell’incipit di “Per il bene che ti voglio”, seconda fatica letteraria di Michele Cecchini, docente e autore lucchese e ben rappresenta quello che sarà il prosieguo della narrazione. Il romanzo racchiude più di una fine e più di un principio, affidando fabula e intreccio a una progressione temporale variegata, a tratti analettica, e a punti di vista altrettanto diversificati, palesi e impliciti, che permettono al lettore di osservare con attenzione le vicissitudini di Antonio Bevilacqua, in mericano Tony Drinkwater, emigrato nel 1926 in America, maggiante di successo e rampollo di buona famiglia di Fabbriche di Careggine in Garfagnana, invidiato e stimato dai suoi compaesani.
Antonio ha un sogno. Da buon teatrante vorrebbe provare a cimentarsi nell’arte del Muvinpicce, del Moving Picture oltreoceano. In una situazione di assoluta controtendenza, nonostante la Merica non sia più considerata una sorta di paese di Bengodi e l’Italia sia diventata una nazione da cui è difficile partire, si fa aiutare a espatriare imbarcandosi alla ricerca della realizzazione concreta di un sogno. Ma la realtà per i Dagos come lui in cerca di un futuro di maggiore fortuna è difficile da affrontare. Antonio non si perde d’animo. Può contare sulle proprie finanze per poter scegliere, almeno all’inizio, cosa fare. Si stabilisce a San Francisco e lì inizia a lavorare nell’avanspettacolo e a farsi conoscere. La sua grande occasione, la sua cianza, gliela offrirà tuttavia Hollywood nell’attimo in cui verrà scelto e lavorerà per un paio d’anni come “controfigura schermatica” di Charlie Chaplin nella realizzazione del film City Lights.Quest’esperienza, però, sarà destinata a non avere un seguito. E a Tony/Antonio non resterà che fare ritorno a San Francisco, riprendendo a viverci con l’indolenza e la nonchalance tipici di questa città multietnica, grandiosa e bellissima con un retrogusto di malinconia che ben rappresentano il protagonista del romanzo. Una città affascinante, disincantata e poco generosa, o quanto meno prodiga soltanto per coloro che riescono ad adeguarsi ai suoi ritmi da nuovo continente, lenti e al contempo frenetici. A una vita in cui c’è pochissimo spazio per l’arte intesa in senso ampio come moltissimo, invece, ce n’è per chi sa dare prova di buone pratiche di bisiness, lottando, ingegnandosi e tentando il tutto e per tutto per aderire totalmente al sogno americano di fare fortuna a ogni costo.

Antonio non si lascia travolgere da lusinghe di tipo sentimentale, considerando l’amore una specie di male necessario a cui adeguarsi mantenendovisi, però a debita distanza. Stesso atteggiamento mostra per tutte le persone amiche che costelleranno la sua vita di emigrante e nella parentesi americana e nei giorni della disillusione italiana, quelli di una rondine partita che ritorna, paradossalmente, proprio in un maggio mite del 1952. La sua continua ad essere una solitudine ricercata, agita e subita, a cominciare dal gesto educato e distaccato delle sue sorelle ad attenderlo alla stazione al suo rientro e a finire con la separatezza che caratterizzerà i suoi ultimi giorni di outsider nel paese natio. Continuerà, però, ad avere un sogno nel cassetto: la ristrutturazione di un piccolo teatro pubblico, quello di Vetriano, che diventerà per lui l’ultima battaglia da affrontare.

Lo stile di Michele è scorrevole senza rinunciare alla ricercatezza lessicale e formale. Le pagine del suo romanzo invitano a riflettere ma lo fanno con eleganza misurata, suggerendo e mai imponendo al lettore idee o prospettive esistenziali. Accurata la documentazione di cui l’autore si è avvalso e che colloca quest’opera in un’ottica storica oltre che narrativa in senso stretto, raccontando con estrema verosimiglianza uno spaccato di vita italiana del XX secolo. Il romanzo possiede, infine, un piccolo vocabolario di termini di italiese/italiano, ampiamente usati da Cecchini nella sua narrazione, per quei lettori che vorranno calarsi con maggior profondità nella storia per assaporarla anche nelle sfumature più infinitesimali.

L’autore

Michele Cecchini è nato a Lucca nel 1972. Si è laureato presso la Facoltà di Lettere moderne dell’Università di Pisa, indirizzo italianistico. È docente di materie letterarie in una scuola superiore di Livorno, dove risiede. Con la casa editrice Erasmo ha pubblicato nel 2010 il suo primo romanzo, “Dall’aprile a shantih”, che ha aperto a Praga una serie di presentazioni di autori esordienti organizzata dalla Società Dante Alighieri.
‘Per il bene che ti voglio’, uscito nel 2015 sempre per Erasmo, è il suo secondo romanzo.
Michele Cecchini, Per il bene che ti voglio, ISBN 9788898598380     €. 16,00

 

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In fondo al mare

Nell’attesa che la questione dei cookies di profilazione venga chiarita anche per quei blog che, come questo, non dovrebbero utilizzarne, volevo postare uno dei miei racconti scritto a progetto per un concorso letterario ma non per questo meno sentito.
Si intitola “In fondo al mare” ed è la storia di  Samia Yusuf Omar, atleta somala (aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino nel 2008) annegata a Lampedusa nel 2012 tentando di raggiungere prospettive di vita migliori e la possibilità di poter partecipare anche alle Olimpiadi di Londra.
Una storia emblematica e tragica che ce ne riporta alla memoria tantissime altre a noi vicine: le vicissitudini dei molti italiani emigrati alla fine del XIX secolo e per buona parte del XX. Partiti alla ricerca di un’esistenza diversa, più umana ben al di là della mera concretizzazione di un sogno.
Buona lettura e a presto
Lucia

In fondo al mare*

Ho sempre amato il mare, con quell’idea di immenso e di apertura racchiusi in una promessa grigioverde.

L’ho intravisto a occhi chiusi nelle mie notti silenziose trascorse a Bondere, respingendo la polvere sottile e penetrante che la brezza solleva dalla strada, respirata assieme alla frescura e alla speranza di un’alba finalmente luminosa, beneaugurante.

Mi sono immaginata a riva, in piedi sulla battigia, ad aspettare con pazienza un barcone dal colore indefinito, prima che si riempia di noi migranti e dei nostri fardelli pesanti, scomodi. Dei nostri poveri abiti a coprire corpi affastellati gli uni agli altri in una bizzarra composizione cromatica in cui, quasi per caso, si mescolano sfumature pacate a colori brillanti.
Su un carretta del mare non c’è posto per molti oggetti.

A mala pena ci è permesso di portare un sogno ciascuno. Io ne ho uno speciale. Tendere il mio corpo esile e aggraziato in avanti, scattando dopo il segnale di partenza con la determinazione e l’agilità di una gazzella: finalmente verso la libertà e la possibilità concreta di sperare in qualcosa di bello senza dovermi guardare dalla paura di non farcela per la disapprovazione e il disprezzo della mia gente.

Per molti io sono soltanto una donna e le mie braccia tese nello sforzo di far bene, controbilanciando con sapienza e perizia la forza di gravità del mio corpo esile in corsa, potranno semplicemente stringersi a un uomo durante l’amore o serrare a sé un bambino per allattarlo.

Io voglio di più.

Voglio sfinirmi nella durezza di un allenamento quotidiano mettendomi alla prova per potercela fare, lo desidero per me stessa e per tutti quelli che hanno creduto in me. Per l’amore e l’affetto di coloro che mi hanno sempre sostenuta e che ora non ci sono più, e anche per quelli a cui è mancata la forza e la volontà di lottare, e che pure mi hanno incitata, con le loro ultime parole, ad andare via.

Verso un nonluogo, una terra promessa che non oso immaginare e che non sarà mai la casa che mi ha vista nascere e combattere sin dal mio primo vagito ma che spero potrà accogliermi con sufficiente benevolenza. Da principio, forse, con curiosità silenziosa, poi con crescente rispetto per la mia volontà di riscatto. Mia e di tutte quelle donne che hanno pensato di non farcela, smettendo di interrare un desiderio possibile nell’arida sabbia del deserto e di attenderne il minuscolo germoglio verde, primo passo verso una vita finalmente degna di essere vissuta.

Il dondolio di questo barcone stipato di gente e di sospiri appena accennati mi stordisce piano.

Sono stanca e cerco di recuperare le poche forze che mi restano pensando a qualcosa di bello dopo un tragitto lunghissimo attraverso Etiopia, Sudan e Libia: un ricordo d’amore lontano intriso di sensualità e passione; il viso di mio padre, mio primo mentore; la felicità che proverò quando riabbraccerò mia sorella. Con lei potrò parlare ancora fino a notte tarda e tirare l’alba intessendo progetti e ridendo al pensiero di momenti lontani fatti di piccole gioie ricavate con esercizio paziente di positività. Riunite finalmente per volontà di Allah e per nostra determinazione terrena.

Il cielo è ancora indefinito e non sa dare risposte. A lui si sostituisce la protervia dell’uomo, sempre pronta a fornirle.

Nelle acque di questo paese, l’Italia, prima porta verso una riconquistata dignità, ci intimano l’alt. Non vogliono farci sbarcare ma la carretta del mare che ci ha accolti non ha più forza per trattenerci, stentando a navigare dopo gli innumerevoli viaggi sostenuti.

Anch’io mi sento stanca e non ho alternative a cui pensare. Socchiudo gli occhi, appannati e indeboliti dalla salsedine di giorni e giorni di navigazione, cercando di focalizzare con tutta me stessa la sagoma scura, all’apparenza così vicina, dell’isola di Lampedusa, fantasticando che sia una specie di striscione di “arrivo” di una competizione ben lontana dall’essere terminata, tentata con la forza della disperazione.

E’ il momento di agire e mi costringo a tornare vigile. Attorno a me molti hanno smesso di lottare, facendo calare sui volti impassibili, già martoriati da ogni tipo di sofferenza materiale e psichica, una maschera silenziosa di indifferenza.

Ora so cosa fare.

Inspiro profondamente prima di tentare il rush finale. Poi mi getto in acqua.

La prima sensazione è di gelo infinito, paralizzante, che mi toglie il fiato. Cerco di concentrarmi come in una delle tante gare sull’attimo presente, scacciando via qualsiasi cosa possa fungere da zavorra. Ho bisogno di tutta me stessa per farcela e so che stavolta non avrò grida amorevoli d’incoraggiamento a sostenermi.

Il cielo è sereno ma non riesco a scommettere sulla sua sincerità.

Decido di puntare tutto su un capo di fune sottile ma robusta che un marinaio giovane e compassionevole ha lanciato da un peschereccio verso di me a pochi metri. Non mangio da tre giorni e l’ultima goccia d’acqua assaporata è stata il regalo di ieri di un vecchio rugoso che non ha voluto lasciare il ponte dell’imbarcazione, stringendosi al parapetto scrostato per scrutare noi temerari. Nuoto con lentezza, consapevole delle forze che mi stanno abbandonando e per la concentrazione che metto in quest’ultimo gesto. Il polpaccio destro comincia a farmi male, l’acqua fredda la fa da padrone sull’agilità e sulla prontezza dei miei movimenti. Decido di fermarmi per un solo istante. Un solo attimo, un solo respiro, una sola memoria, una sola parola.
Nel mio cuore affaticato c’è ancora tanto sole; non abbastanza, tuttavia, per avere il sopravvento sul mio corpo affranto.

A un passo da me quella corda intrisa d’acqua salmastra sta cominciando ad affondare. Mi tendo in avanti come per spiccare il volo ma non è abbastanza per afferrarla, non ce la faccio.

Il mio braccio proteso verso l’alto è un ramo scarno di un’acacia nelle strade della mia Mogadiscio: sottile e affusolato, slanciato verso il cielo.

Nello stato di gran quiete in cui sono precipitata riesco ancora a percepire il grido dapprima deciso, poi stranito e quasi disperato del mio salvatore italiano che non vuol smettere di puntare sulla mia vita. L’acqua del mare che ora mi avvolge per intero trattenendomi a sé ha lo stesso sapore salato delle lacrime che gli sono spuntate. Con uno sforzo incredibile decido di sorridere. Di dedicargli l’ultimo guizzo felice che mi resta. In fondo se lo merita, ha creduto in me e nella mia voglia di vivere, scommettendo sino all’ultimo istante sulla mia fragile salvezza.

In alto il sole ha deciso alla fine di spuntare.

Sarà una giornata mite e gloriosa per molti ma non per me.

Priva di energia scivolo con dolcezza in fondo al mare, perdendomi nel suo verde intenso sfumato di blu. A occhi aperti cerco di vincere l’oscurità che mi assale, guardando verso l’alto, verso l’ultimo raggio di luce che non è riuscito a trattenermi. So di essere al capolinea, ne sono spaventata ma avverto anche un senso di liberazione, una sorta di pacata rassegnazione

Questa terra che non mi ha voluta sarà il mio ultimo scrigno.

Nel silenzio ovattato che ora mi circonda mi sembra di udire ancora il dispiacere autentico di quell’uomo di mare giovane dal cuore palpitante come unica forma di riscatto e tardivo atto d’amore per me. A lui va la mia ultima benedizione.

Ti libero dal mio ricordo e dalla mia immagine, dal mio carico di frutti ingombranti e troppo preziosi. Pensami per il solo istante di questa giornata di Primavera fugace. Pesca per la tua gente e per le persone a te care. Lotta per la tua felicità quotidiana respirando a polmoni ampi. Centellina con parsimonia il tuo Tempo senza sprecarne un nanosecondo. Ama e fatti amare.

 

Lampedusa, 2 aprile 2012

*A Samia Yusuf Omar

 

Lucia Guida 

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Photo  Credit: Repubblica.it

Madri per sempre

Si diventa madri poco a poco e la progettualità che ha spinto ogni donna a sceglierlo è solo il primo, infinitesimale passo di un percorso che non le abbandonerà mai. E che durerà per una vita intera.

In questo estratto Marina Federici, protagonista del mio romanzo “La casa dal pergolato di glicine”, Nulla Die, (2013) si abbandona ad alcune riflessioni davanti a un dipinto antico raffigurante una maternità nella Chiesa Madre di Todi. Pensando a se stessa per la prima volta come madre e accettando di esserlo per sempre, nel bene e nel male.
Buona lettura a tutti

Lucia

‘Marina contemplò assorta quel volto estatico di Madonna con Bambino nel frammento di affresco che, a beneficio dei numerosi visitatori e abitanti del luogo, aveva sfidato secoli e secoli prima di toccare anche il suo cuore. La salita alla Chiesa Madre era stata faticosa, affrontata gradino dopo gradino, pian piano, in quel primo mattino di agosto in cui pochi erano ancora i turisti ad affollare la piazza sottostante. Sua madre avrebbe desiderato accompagnarla, ma lei non aveva voluto. Essere circondata dall’amore dei propri cari era una cosa impagabile, ma l’intento principale con cui lei si era recata a visitarli era quello di fare un po’ di luce in se stessa. Decidere di riscoprire le bellezze di quella cittadina medioevale, incantevole e intrisa del suo vissuto infantile

e adolescenziale, poteva essere un’ottima scusa per ritagliarsi qualche frammento di autonomia che potesse sfuggire alla seppur affettuosa ma eccessiva sollecitudine dei suoi genitori.

Aveva deciso di tenere il bambino.

Quel miracolo piovuto dal cielo in un frangente così complicato era un chiaro invito a guardare con attitudine positiva alla vita, dandole senso e concretezza, vivificandola di nuova linfa vitale. Sua madre, con l’intuito di tutte le madri del mondo, aveva già preso a sospettare qualcosa, notando il suo scarso appetito al risveglio e la sua insolita propensione a prendersi piccole pause di riposo nell’arco della giornata da cui attingere energie extra per arrivare, senza eccessiva fatica, alle prime ore della sera, quelle in cui non sempre riusciva a dare il meglio di sé. Nella tranquilla routine di suo padre, eternamente confinato nel suo studio, il suo arrivo aveva apparentemente fatto poca breccia. Lui era certamente contento di rivederla e il suo abbraccio rude gliene aveva data conferma, ma le sue esternazioni si fermavano lì e dopo una decorosa parentesi di convenevoli condivisi con sua moglie era tornato alle sue occupazioni di studioso di storia antica, lasciando che fossero gli altri a fare gli onori di casa.

Seduta all’estremità di un banco lucidissimo di legno Marina rivolse nuovamente lo sguardo a quell’immagine sacra femminile di altri tempi, notando con stupore come questa si limitasse a sorreggere in braccio il suo pargolo rivolgendosi a lui con un’amorevolezza che le parve quasi empatica. Sembrava quasi presagire il carico di sofferenza umana che l’avrebbe condotto via da sé, facendole assaporare soltanto per pochissimo le gioie della maternità. La Madonna e un Cristo minuscolo, in erba; una donna e un bambino come tanti senza un padre accanto; era la giusta dimensione, esclusiva e incondizionata, tra una madre e un figlio. Si toccò il ventre, cercando di stabilire un contatto con la creatura che vi era custodita. Le chiese scusa per la confusione che sentiva dentro di sé e, nello stesso tempo, la rassicurò sulla sua piena volontà di fare presto chiarezza. A un figlio, sia pure in nuce, tutto ciò era dovuto, si disse, augurandosi di trasmettergli quella serenità necessaria per potergli far decidere di restare con lei sino alla nascita, nel calore confortevole del suo grembo. Con gioia assurda sentì un moto d’affetto incredibile per il suo bambino e un coinvolgimento insperato per tutto ciò che lui, con il suo arrivo, avrebbe rappresentato per entrambi.’  *

*in Lucia Guida, (2013), La casa dal pergolato di glicine, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

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“La Speranza”, Gustav Klimt

Dov’eravamo rimasti?

È dalla metà di febbraio che non aggiorno il mio luciaguidawordpress.com, au feminin thinking and writing, con racconti, resoconti di eventi e recensioni e quant’altro mi collochi da qualche parte, spazialmente e temporalmente, come autrice. In realtà di cose da fare ce ne sono state tante.

Provo, allora, a fare il punto della situazione con voi.

Domenica 15 febbraio ho presentato al Justen Club di Pescara il mio “Pergolato” assieme ad autori di spessore come Lucio Vitullo e Stefano Carnicelli. Padrini d’eccezione Luigi Blasioli, jazzista pescarese di altissimo livello  e la poliedrica Cinzia Rossi, autrice di prosa e poesia.

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Da sinistra Stefano Carnicelli, Lucia, Luigi Blasioli, Lucio Vitullo e Cinzia Rossi. Foto di Giada Di Blasio

È stato pubblicato sul numero di settembre/dicembre 2014 di “Fortore”, Rivista di Cultura, Esperienze Informazione edita dal Circolo Culturale “88” di Roseto Valfortore (FG), il mio resoconto della giornata di premiazione del Premio Lupo 2014. Se avete voglia di rileggerlo, lo trovate qui.

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A metà marzo, e precisamente venerdì 13 ho presentato la silloge di racconti “La precisione dell’acqua” di Chiara Novelli, scrittrice, artista e poetessa fiorentina alla Mondadori di Pescara

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Chiara Novelli e Lucia, foto di Maria Luisa Abate per Pescara News

Uno sciopero di Trenitalia, di cui ero totalmente all’oscuro (!) mi ha impedito di raggiungere Aulla (MS) per essere premiata per il mio “Pergolato” per il IV posto ex-aequo del Concorso Internazionale Alessandra Marziale – Val di Vara. Per cause di forza maggiore ho felicemente ripiegato, domenica 16 marzo, sulla bellissima mostra di Escher ospitata a Palazzo Albergati a Bologna sino a maggio p.v., confidando in Posteitaliane per ricevere pergamena e medaglia che avrei dovuto ricevere dal vivo

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Gli antichi amori, ripagati alla grande, non si scordano mai: partecipazione alla Serata della Bellezza Sovrumana, promossa da “Risorse SovrUmane ASD Ricerche Teo-Antroposofiche e benessere di Pescara”, a cura di Patrizia Splendiani e Katia Granata, operatrici olistiche, con un evergreen della mia produzione scrittoria, il racconto “Bella, bella, Bella” venerdì 28 marzo 2015 , e conclusione poetica di un pomeriggio artistico ospite di Rossella Circeo, eclettica creatrice di opere di maiolica, vetri e pietre semipreziose, con la lettura di “Succo di melagrana”, componimento in versi sciolti prologo dell’omonima mia raccolta di racconti edita dalla Nulla Die nel suo Atelier di Pescara domenica 29 marzo.

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photo by moldrek.com

Non pensiate che sia tutto finito qui.

In cantiere ci sono altri progetti, letterari e non, di cui non parlerò scaramanticamente fino a quando non sarò sicura della loro concreta realizzazione, com’è mia abitudine. Mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato.

Auguri belli di Buona Pasqua a tutti.

Che queste giornate di festa siano occasione concreta e propizia di relax per tutti noi.

Un bacio e a presto

Lucia

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foto presa in web

Presentazioni d’autore: “Donne e così sia” di Assunta Altieri

Ho conosciuto Assunta Altieri in occasione del lancio di “Donne e così sia”, avvenuta a fine 2013, e “de visu” durante una presentazione del mio “Pergolato” all’emporio Primo Vere, bottega del commercio equo e solidale di Pescara. Ci siamo riviste per “Intorno alle parole”, evento conclusivo del premio omonimo e bella manifestazione incentrata su tematiche della scrittura e dell’editoria e momento d’incontro fra scrittori, giornalisti, editori, istituzioni e lettori tenutasi a Montesilvano Colle lo scorso dicembre.

Questa la mia recensione

Buona lettura e a presto

La silloge

“Donne e così sia” è una raccolta di racconti di Assunta Altieri pubblicata nel 2013 da Historica Edizioni, composta da sette storie au feminin ispirate a figure di donne contemporanee. Le personagge di Assunta sono  colte in frangenti significativi della loro esistenza,  a cominciare da Lita, diminutivo di Litaliana, in procinto di traslocare, bravissima a voltare pagina ma sempre pronta a sedimentare le cose belle e importanti come, ad esempio, un pezzetto di cuoio parte dei finimenti di un cammello ribelle che acconsente a essere cavalcato con spirito di resilienza, “reliquia” messa da parte durante uno dei suoi viaggi. Lita, però, sa attribuire il giusto peso agli oggetti, servendosene come trampolino di lancio o, viceversa, come pietra miliare da cui fare il punto della situazione prima di ripartire senza diventarne mai schiava.

Lella è succube di un marito-padrone che non la rispetta e che scientemente, con sadismo puro, si diverte a  sminuirne la femminilità e il valore intrinseco di persona, obbligandola a inchinarsi a lui, moralmente e materialmente. Soltanto una consapevolezza retrospettiva ed estremamente dolorosa le farà dire “basta” risalendo dal fondo in un ménage familiare in cui non c’è traccia di sentimento amoroso, incernierato in abitudini negative così radicate e metabolizzate da toglierle respiro e potere decisionale e di scelta.

E poi c’è la storia di Tea e di sua madre che l’ha cresciuta da sola, in una famiglia interamente al femminile in cui l’opinione di una sorella o della madre di entrambe possono ancora fare testo. Tea andrà a vivere col padre biologico, Carlo, grazie anche alla disponibilità e a una riapertura maggiore acquisita da sua madre, ottenuta sfrondando il loro rapporto genitoriale-filiale da inutili sovrastrutture proprio per permettere alla ragazza di vivere una vita maggiormente gratificante, glissando sui sensi di colpa insinuati da chi vorrebbe dipingerla come una non-madre, non all’altezza del ruolo scelto a suo tempo a costo di rinunce e sacrifici personali e professionali.

“Uomini e paguri” è, invece, la fotografia netta di tante storie di cui la nostra quotidianità spicciola è costellata, fatte di donne lusingate da promesse maschili di stemperare vissuti incolori, connotati dalla solitudine, mai, tuttavia, come quella di doversi accontentare delle avances di un uomo che ha voglia di rinnovare il proprio presente, magari già caratterizzato da una relazione stabile che si sta affievolendo, tentando di passare a un nuovo legame come si farebbe saltando da due treni parallelamente in corsa.

La circolarità del viaggio è alla base del quinto racconto, in cui trova spazio la narrazione di una donna in carriera, in perenne e costante movimento, forte del proprio lavoro e della propria professionalità a sprezzo di chi vorrebbe, con pochissima spesa, scavalcarla o, peggio, relegarla in un angolo. Il tema di una presunta superiorità geografica dettata da longitudine e latitudine è al centro della penultima storia, ambientata con disinvoltura in una sorta di zona franca quale è un salone di parrucchieri. Due donne confrontano con leggerezza solo apparente la loro reciproca appartenenza a due culture e due modi di pensare opposti per contendersi la bravura del loro acconciatore, lungimirante al punto da regalare come “omaggio della ditta” la sua prestazione a chi lo vorrebbe in un altro luogo, lontano dalla propria residenza attuale, per poterlo valorizzare maggiormente.

L’amicizia e la solidarietà femminili sono celebrate nell’ultimo racconto, quasi a voler sottolineare come i veri rapporti non abbiano bisogno di lunghi rodaggi ma procedano assai spesso per affinità elettive, per riconoscimenti d’anima per i quali anche un arco di tempo minimo come due mesi può bastare come incipit per instaurare una solida relazione amicale.
Lo stile di Assunta è diretto ma accurato con qualche piccolissima concessione a espressioni letterarie non consuete usate per enfatizzare la frase, rendendola più particolare e vibrante.
La narrazione si snoda attraverso canali diversi, passando con disinvoltura, da un racconto all’altro, attraverso la forma diaristica, di “messaggeria”, quella in prima o in terza persona, in alcune storie intercalando spaziature extra tra una sequenza e l’altra o sottotitoli scelti per enfatizzarne l’intreccio.

L’autrice

Assunta Altieri lavora da vent’anni nel mondo della pubblicità, collaborando con agenzie di comunicazione di  portata nazionale e internazionale. Ha vissuto e lavorato a Milano, Parma e Lerici e attualmente risiede in provincia di Pescara. Ha partecipato a diverse antologie collettive in cartaceo e in web come autrice di racconti brevi, provando a sperimentare vari mood di scrittura. Ha fondato l’associazione culturale Il Cassetto delle Idee Libere di cui è presidente. “Donne e così sia” è la sua prima opera da solista.

Assunta Altieri, Donne e così sia, ISBN: 9788896656730   € 12,00

Donne e così sia - Assunta Altieri

6 febbraio 2015

Il 6 febbraio di quest’anno compirò 50 anni. Al di là dei tanti bilanci che potrei fare e che non farò mi piace pensare di aver realizzato tante cose, alcune ben riuscite e altre meno. Sono soprattutto fiera di aver provato con tutte le mie energie a essere sempre me stessa e a non tradirmi mai. Di aver tentato di rimediare ai miei errori esistenziali quando ho capito di aver sbagliato per potermi guardare con trasparenza allo specchio ogni mattina e, magari, provare a sorridermi un po’.
Per voi amici, oggi, una poesia scritta nel 2007 sul mio primo blog che parla del mio giorno natale, il 6 febbraio.
Buona lettura e a presto

Lucia

6 febbraio 1965

Sono nata in un giorno di neve

e dai cristalli di neve ho preso  trasparenza lieve e freddo intenso che diventa calore su una mano quando li stringi in pugno.

Sono nata in un giorno d’inverno e dall’inverno ho preso il rigore e il lento grigiore delle giornate nuvole. Ma anche la dolcezza inaspettata e il tepore di insperati raggi di sole

Sono nata in Febbraio e da Febbraio ho preso la leggerezza di un corteo mascherato pieno di colori e allegria, stelle filanti e coriandoli in un turbinio di festa. E poi silenzio e quiete nelle strade prima traboccanti di suoni e risate

Sono nata di sabato e dal sabato ho preso il pigro fluire delle ore dopo lo scorrere incessante degli eventi attraverso la settimana.

Sono nata nell’anno della guerra del Vietnam ma anche delle marce della pace,  delle serate al Piper e degli Oscar Mondatori.

Sono nata e poi rinata a nuova vita con consapevolezza a volte sorridente e a volte dolente conservando sguardo schietto e diretto, sempre.

In un cassetto qualche speranza custodita con cura, strette a me le poche certezze raggiunte.

Gli occhi rivolti a cielo e nuvole e il viso offerto al bacio e alla carezza lieve della brezza.

 I miei pensieri accompagnati dalla luna luminosa e silenziosa di un cielo notturno e dal riverbero del sole su onde che muoiono e poi rinascono coraggiose a riva.

Lucia Guida


L’immagine del dipinto “Il compleanno” di M. Chagall è presa dal blog settemuse

Agenzia matrimoniale

Ci sono tanti modi di concepire e costruire un incontro d’amore. Adela, la titolare di un’agenzia matrimoniale del terzo millennio, cerca di unire in tal senso l’utile al dilettevole divertendosi a combinare i desiderata dei suoi clienti per creare nuove coppie a tavolino, in un gioco di specchi in cui molte cose non sono ciò che sembrano.

E’ questa in sintesi la storia di “Agenzia matrimoniale”, racconto breve di qualche anno fa, pubblicato nel mio primo blog Springfreesia

Buona lettura

Agenzia matrimoniale

Adela si sfilò lentamente gli occhiali dalla montatura colorata e dalle lenti non graduate, unico vezzo in un look estremamente classico e rassicurante. Sapeva quanto l’occhio avesse voce in capitolo in certe circostanze ed era decisa a far uso sapiente di questa consapevolezza.

In qualità di unica intestataria dell’agenzia matrimoniale “Cuori solitari” aveva trasformato in necessità lavorativa la virtù posseduta da bambina di favorire il buon esito delle cotte adolescenziali delle sue amiche, offrendosi di buon grado come mediatrice ora come allora. La sua era un’agenzia rigorosamente tradizionale, con pochissimo spazio concesso all’informatizzazione e in cui i profili dei suoi clienti erano ordinatamente conservati in faldoni dalla copertina dal colore diverso che ne individuava la categoria di appartenenza: rossa per i casi di facile collocazione, bianca per quelli di incerta risoluzione, nera per quelle situazioni inquadrate come impossibili o quasi, grigia per le schede di clienti che non era riuscita a mettere bene a fuoco lasciandoli in standby nella speranza che capitasse per loro qualche occasione felice in futuro. Possedeva un ufficio anonimo quanto bastava per dare la giusta idea di privacy a tutti quelli che, nella ricerca del vero amore, quello per la vita, a dispetto di chatlines per single o siti di incontri che imperversavano nel web, continuavano a ricorrere ad approcci più tranquilli e tradizionali, fidandosi del suo buon intuito procacciandosi incontri amorosi scelti sui suoi cataloghi come un tempo avrebbero ordinato un abito o un oggetto acquistandolo per corrispondenza.

Le due sale d’aspetto, una piuttosto piccola e l’altra di ampiezza maggiore, si allineavano a quel tipo di prospettiva; essenziali, completate da piante artificiali, le stesse di un qualsiasi studio notarile o medico, qualche rivista abbandonata su un tavolinetto basso per ingannare l’attesa che poteva a volte rivelarsi lunga prima di un consulto con la titolare.

Il contrasto di quei due ambienti con il suo ufficio era palese. Nella sua stanza tutto trasudava confidenza e familiarità, dal pc sempre spento, alle foto di famiglia sulla scrivania popolata di oggettini tipicamente femminili: fermacarte vivacemente istoriati, cuori di vetro soffiato, una piantina vera. Sulle pareti trovavano posto alcune stampe d’autore, illuminate indirettamente da una piantana relegata in un angolo tra un’altra poltroncina bassa e l’ennesimo tavolinetto. Di fronte alla sedia imbottita di similpelle, riservata agli ospiti, c’era un piattino ben rifornito di cioccolatini alla portata di chiunque avesse voluto servirsene.

In genere l’iter era quello di un colloquio informale in cui lei prendeva scrupolosamente nota dei desiderata della gente, occhiali ben inforcati e solitario ben in mostra all’anulare sinistro. Poi c’era lo spoglio delle schede alla ricerca di una fisionomia che potesse ben combinarsi accompagnato da uno scambio di frasi amichevoli, pronunciate con pertinenza improntate su situazioni di condivisione e complicità, in cui le sue capacità di psicologa dell’animo umano avevano il sopravvento e contribuivano all’impostazione di un clima empatico e partecipativo che rasserenava l’interlocutore predisponendolo positivamente ad accettare l’incontro suggeritogli.

E naturalmente, a fine conversazione, ciliegina sulla torta, il resoconto gustoso, affettivamente colorato, dei rendez-vous sfociati in vere e proprie love story dall’ happy ending, in un crescendo di fiduciose aspettative articolato con maestria dissimulata da malcelata modestia.

Quella sera avrebbe chiuso il suo bilancio giornaliero con una certa soddisfazione. L’incontro tra il medico ospedaliero cinquantenne in cerca di una compagna e l’infermiera trentenne di studio medico associato disillusa da amori veloci e poco appaganti pareva essersi concluso con la promessa da parte dei due di dare un seguito a quella conoscenza. Entrambi le avevano assicurato di tenerla al corrente di ciò che al momento poteva solo immaginare, ne era sicura. Sapeva per certo che non c’è collante maggiore di una solitudine vissuta come pesante zavorra e non più come anticamera di libertà, per legare due persone a stretto filo, dal momento che la convenienza  e l’opportunità hanno, talvolta e per alcuni, lo stesso sapore afrodisiaco e gratificante di una passione genuina. Un po’ come avvolgere in carta preziosa un regalo di media qualità offrendolo a chi si è convinto di trovarvi dentro, una volta apertolo, qualcosa di unico e di raro.

Chiuso il portoncino a doppia mandata, entrò nell’ascensore che la portò con qualche sussulto al pianterreno.

Fuori l’aspettavano le luminarie natalizie predisposte dai negozianti della zona, sfavillanti ai lati dei portici del centro di quella città moderna e distratta. Un tragitto compiuto con un po’ di musica di sottofondo in macchina e poi finalmente a casa dai suoi animali che l’aspettavano e che gioivano del suo rientro riempiendo spazi e tempi della sua quotidianità con appagante presenza. Libera di sfilarsi dall’anulare quell’anello di brillanti indossato a mo’ di specchietto per le allodole, prima di conservarlo in un cassetto del trumeau di camera assieme a quegli occhiali trendy e civettuoli di molta apparenza e poca sostanza che tanto contribuivano al suo phisic du rôle di manager dei sentimenti altrui.

Fino al lunedì successivo, giorno di riapertura dell’agenzia, e in occasione della sua prossima consulenza in qualità di appaiatrice di anime più o meno gemelle.

Lucia Guida

 

in foto acquerello di Muramasa Kudo

Welcome, 2015 …

Sono grata al 2014 per essersi annunciato in sordina e avermi regalato tante piccole soddisfazioni, scrittorie e personali. Di aver reso il mio sguardo più limpido; forse meno disincantato che in passato ma certamente più consapevole.

Non ho avuto tempo di preparare poesie o racconti ad hoc nel turbinio di queste ultime giornate e ve ne chiedo venia; saluterò con voi, quindi, l’anno vecchio che se ne va con una poesia di un’autrice americana, da me tradotta con molta libertà.

Ricordando a me stessa e a voi che siamo sempre noi a connotare nel bene e nel male il Tempo che scivola lentamente tra le nostre mani. Facciamone buon uso, tanto da non rimpiangerlo mai

Auguri di cose belle ma soprattutto buone a tutti

Buon e sereno 2015

Lucia

The Year

“What can be said in New Year rhymes,
That’s not been said a thousand times?
The new years come, the old years go,
We know we dream, we dream we know.
We rise up laughing with the light,
We lie down weeping with the night.
We hug the world until it stings,
We curse it then and sigh for wings.
We live, we love, we woo, we wed,
We breathe our prides, we sheet our dead.
We laugh, we weep, we hope, we fear,
And that’s the burden of a year.”

 

Ella Wheeler Wilcox (1850-1919)

 

 

“Cosa si può dire in rima di un nuovo anno, che non sia stato detto mille volte? Gli anni nuovi vengono, quelli vecchi vanno, sappiamo che sogneremo, sogniamo di sapere. Ci risolleveremo ridendo con la luce, ci sdraieremo piangendo con la notte. Abbracceremo il mondo fino a che non pungerà, lo malediremo e poi sospireremo per un paio d’ali. Viviamo, amiamo, corteggiamo, ci sposiamo, respiriamo il nostro orgoglio, piangiamo i nostri morti. Ridiamo, piangiamo, speriamo, temiamo, e questo è il peso di un anno “.

 

 

 

 

photo by www.bride.ca

Di domenica in una giornata ottobrina di sole

Provare a raccontare con attenzione presente e sguardo retrospettivo fatto di ricordi pescati nel cuore e nella mente   una giornata particolare, quella della cerimonia finale del “Premio Lupo” 2014

Buona lettura e a presto
Baci

Di domenica in una giornata ottobrina di sole

Apro gli occhi su un mattino luminoso. E’ domenica 19 ottobre ed è la giornata della cerimonia finale del Premio Lupo 2014. Sono nella mia cameretta da ragazza a casa dei miei genitori a San Severo e mi diverto per qualche minuto a osservare i raggi di sole che filtrano tra le stecche della tapparella appena sollevata. Dall’aria insolitamente calda so che sarà anche una giornata dal sapore estivo più che autunnale.

Sveglio mio figlio che dorme nella stanza accanto e ci prepariamo al viaggio che ci attende. La distanza tra S. Severo e Roseto non è tantissima, poco meno di sessanta chilometri, ma voglio arrivare per tempo e godermi il tragitto con calma.

Lascio la mia città natale che è ancora assonnata, pochissime automobili e altrettanta poca gente per le strade, intenta a prepararsi per i riti finali, sacri e profani, con processione per le vie del centro e batteria finale in onore della Madonna del Rosario, celebrata pochi giorni prima. Guido con tranquillità tagliando campi lineari dall’aspetto familiare   fino alle prime ondulazioni che preannunciano con gradualità le colline e poi le montagne che incontreremo, quasi a dare a noi viandanti cittadini la possibilità di passare da un territorio all’altro con la dovuta morbidezza e, per una volta tanto, senza nessuna fretta. La strada diventa meno squadrata e più sinuosa, di sicuro impegnativa, regalandoci tuttavia squarci mozzafiato di natura selvaggia alternati ad altopiani che svettano chiari sui colori cupi della vegetazione boschiva. Ricordando le spiegazioni di mio nonno paterno Angelo riesco a riconoscere querce, cirr e, cioè, alberi di acacia, ma anche faggi.
Mi sembra quasi di essere tornata bambina e di passeggiare ancora per la Defensa, il bosco che sovrastava il paese di mio padre, S. Marco in Lamis, meta di tante passeggiate e picnic durante la mia infanzia. Le immagini attuali si mescolano ai ricordi e tutto, quasi per magia, assume contorni di nostalgia ma anche di consapevolezza di essere parte di un unicum, di un universo privilegiato, una sorta di microcosmo nascosto ai più e, forse, per questo ancora più prezioso e speciale, fatto di colori ma anche di profumi e sapori connotati da vita passata e presente.

Sono arrivata nel borgo di Roseto Valfortore e la prima sensazione che sperimento è l’odore di legna bruciata, segno che qualche camino è già acceso nonostante la giornata mite, oltre all’aria pulita e sottile, molto più fresca di quella respirata in pianura prima di partire. Il cielo è terso, di un colore azzurro che non tradisce.

Davanti a me riconosco la sagoma inconfondibile di un edificio scolastico in via G.B. d’Avanzo, sede della manifestazione che mi vedrà tra i premiati e anche questo, per me, è giocare in casa, dal momento che sono un’insegnante da tempo e che la scrittura è un piacevole completamento, un attimo di tregua e di gratificante creatività rubato a una professione che assorbe buona parte delle mie energie e che, spesso, mi vede in trincea, nello sforzo di far bene, nonostante i tanti condizionamenti, le mode del momento e l’aspetto marginale attributo, negli ultimi tempi,  alla Cultura e all’Istruzione da una società affaticata e, per certi versi, malata e talvolta incapace di vedere oltre l’apparenza.

La manifestazione è ben organizzata e non c’è nulla che sia stato lasciato al caso. Momenti letterari si alternano a scorci d’arte e di musica, legati sapientemente da un filo sottile ma robusto rappresentato dall’amore per le cose belle e la speranza che questa mattinata lasci un segno indelebile nel cuore e nell’anima di tutti i convenuti. Mi riprometto di parlarne alla fine con Pasquale Frisi, ideatore del premio e patron della manifestazione per congratularmi con lui delle scelte logistiche fatte. Per un’autrice come me, emersa anche grazie alla partecipazione a premi letterari nazionali, la fase finale di un concorso è un tassello importante, la classica ciliegina sulla torta a ulteriore testimonianza del buon funzionamento dell’intero progetto.

Alla premiazione letteraria è assegnato il momento finale.
Anch’io sono in attesa, le mani sudate e la bocca impastata come ai tempi dell’università prima di un esame. Non è il primo premio che ritiro ma la sensazione di grande emozione è la stessa di sempre, unita alla presa di coscienza di aver regalato un pezzetto di me stessa agli altri attraverso la scrittura, mettendomi per certi versi a nudo, oltre alla soddisfazione di avere incontrato con le mie parole la sensibilità dei giurati. Nel ritirare il bel premio, chiedo di dire anch’io qualcosa. E’ un atto di riconoscenza dovuta ma anche di amore verso una terra che mi ha vista nascere per metà dauna, da parte materna, e metà garganica, da parte di mio padre, prima di andare per la mia strada trascorrendo altrove la mia vita dell’oggi. In Lauretta, la bimba protagonista di “In un campo d’orzo e di papaveri”, il mio racconto premiato, ci sono generazioni e generazioni di donne pugliesi intraviste per strada o, più semplicemente, conosciute attraverso le storie narrate da persone di famiglia. C’è tutta la forza della disperazione ma anche la speranza in qualcosa di diverso, di migliore, conquistato attraverso piccole battaglie quotidiane fatte di gesti semplici, poco appariscenti, a dispetto di destini già segnati, per tentare di arricchirli di briciole di felicità e serenità.

Lascio Roseto con il dispiacere di non aver partecipato al momento finale fatto di convivialità altrettanto significativa tra spettatori, premiati e addetti ai lavori. So che i miei genitori aspettano a S. Severo me e mio figlio per consumare tutti assieme   il “pranzo della domenica” e non voglio che si faccia troppo tardi. Ho desiderio anch’io di gustare questo piccolo intermezzo familiare che per me è un vero e proprio lusso, prima di riprendere a viaggiare verso casa e verso Pescara, città adriatica di fiume e di mare, in cui io, donna di pianura, ho scelto di intessere la mia vita presente.

 

Lucia Guida

Roseto Valfortore (FG), 19 ottobre 2014

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Photo by Gianni Lepore